N.7 2022 - Biblioteche oggi | Ottobre 2022

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Porosità e permeabilità di un nome

Chiara Faggiolani

Sapienza Università di Roma, chiara.faggiolani@uniroma1.it

Abstract

La definizione di biblioteca è attualmente al centro di una continua battaglia. Spazi, strutture e servizi che hanno caratteristiche molto diverse hanno lo stesso nome: "biblioteche". Questo articolo propone una riflessione su questo tema a partire dal volume di Maria Stella Rasetti, La Biblioteca e la sua reputazione (Editrice Bibliografica, 2022). Viene presentato un filone di ricerca che si propone di analizzare la diversa visione della valorizzazione degli spazi pubblici nei diversi territori in cui insistono biblioteche tradizionali e nuovi centri culturali, analizzandone la reputazione attraverso un approccio qualitativo.

English abstract

The definition of a library is currently a battleground. Spaces, facilities, and services that have very different characteristics are called libraries. This article offers a reflection on this issue starting with Maria Stella Rasetti’s volume, The Library and its Reputation (Editrice Bibliografica, 2022). A line of research is presented that aims to analyze the different view of the valuing of public spaces in the different territories where traditional libraries and new cultural centers insist, analyzing their reputation through a qualitative approach.

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Riflessioni intorno al volume di Maria Stella Rasetti La biblioteca e la sua reputazione

“Ah sì, la biblioteca pubblica di New York”, commentavamo ogni volta che mio padre ne parlava, il che avveniva abbastanza spesso. I racconti sulla biblioteca pubblica di New York iniziavano sempre con la descrizione dei due leoni di pietra a guardia della grande scalinata che conduce all’ingresso monumentale dello spazio. Il logo della biblioteca è una testa di leone stilizzata e lui, a 75 anni suonati, se l’è tatuata sull’avambraccio, una testa di leone rossa proprio sotto l’incavo interno del gomito destro. Era l’unica istituzione che mio padre avesse mai amato. Tornato negli Stati Uniti dopo gli anni passati a insegnare inglese a Roma, cercava un lavoro. A New York, prima di trovarlo, quando era senza soldi e non sapeva dove andare, si rifugiava in biblioteca per giorni interi. Da lì nessuno lo aveva mai cacciato.

Sarah Gainsforth 

Nomen omen?

La definizione di biblioteca è in questo momento un campo di battaglia.
Si continuano a chiamare così spazi, strutture, servizi che hanno caratteristiche e fisionomie molto diverse. Diverse da prima. Diverse tra loro.
Dare un nome alle cose è molto importante, non solo per i significati che il nome stesso può includere e veicolare, ma perché l’azione di nominare descrive prima di tutto un processo intellettuale e culturale che rende possibile anche una discussione pubblica, un coinvolgimento emotivo, una narrazione ecc. Non esiste, infatti, tutto ciò che non siamo in grado di chiamare, è come se restasse sfuocato e impossibile da collocare nel contesto di altri nomi che conosciamo, impossibile, dunque, stabilire con essi relazioni gerarchiche e di qualunque altro tipo.
Rispetto a biblioteca, non vorrei esagerare ma penso di poter dire che, dal punto di vista semiotico, l’armonia tra significante e significato non è più di questo nome. Già da un po’, per la verità, c’è una sorta di spaccatura interna, una frattura. Il significante “biblioteca” non corrisponde in modo univoco al suo significato ed è questa non coincidenza a generare un resto che rimane fuori rispetto al potere rappresentativo del nome stesso. Come vedremo, è una questione di porosità, intesa come il rapporto fra pieni e vuoti e di permeabilità, intesa come la proprietà caratteristica di certi corpi di lasciarsi attraversare. È molto importante essere consapevoli della frattura evocata perché da qui originano una serie di problemi, criticità e pericoli che interessano noi che a vario titolo ce ne occupiamo.
Queste considerazioni e quelle che seguono originano da una profonda rivitalizzazione della mia personale riflessione sulla relazione che esiste tra reputazione, immagine, identità e immaginario innescata dalla lettura dell’ultimo libro di Maria Stella Rasetti, La biblioteca e la sua reputazione (Editrice Bibliografica, 2022). Se ne è già parlato in questa rivista ma penso sia utile tornarci perché si tratta di un libro importante, di uno strumento incredibilmente necessario per entrare nel campo di battaglia evocato in apertura “senza armi spuntate e vecchie”.

I quattro livelli di… biblioteca

La possibilità di nominare, si è detto, è quella condizione che consente di dare un contenuto alle cose, di riconoscerle e di parlarne. Affinché le biblioteche entrino a pieno titolo nella riflessione pubblica e possano intraprendere un processo di crescita anche in termini di immaginario condiviso, occorre che il nome veicoli un significato più preciso almeno in termini valoriali.
Il nuovo Manifesto Ifla-Unesco delle biblioteche pubbliche presentato a luglio scorso è certamente una base importante di questo ragionamento ma da solo non può bastare per sanare il “disallineamento tra la realtà delle cose e le aspettative delle persone”, altra frattura che ci riguarda e che ha mosso Maria Stella Rasetti nella stesura del suo libro.
Che cosa pensano i cittadini del servizio bibliotecario? Che cosa sono le biblioteche e chi sono i bibliotecari ai loro occhi? E i decisori? Cosa credono sia davvero una biblioteca e quale ruolo può o deve avere?
Le risposte a queste sollecitazioni sono quella “nuvola di opinioni” che è la reputazione e “che si diffondono attraverso proprie leggi di propagazione, leggi che non sono linearmente connesse alle credenze individuali di coloro che generano le opinioni”.
Maria Stella Rasetti parte da questa definizione per portare il lettore dentro un viaggio che attraversa tanti diversi mondi, che fa uso di un approccio fortemente interdisciplinare – dal marketing all’economia, dalla gestione aziendale alla sociologia – e che suggerisce attraverso una imponente bibliografia tanti diversi percorsi di approfondimento, non ultimo la possibilità di praticare il sistema base al quale possono essere ricondotti i principali modelli accademici di misurazione della reputazione in ambito aziendale, il Reputation Quotient, pensato appositamente per le biblioteche.
Proprio questo è uno dei temi trattati nel libro al quale sono particolarmente sensibile: l’esigenza di misurare la reputazione delle biblioteche a partire dalla consapevolezza che non basta un rating. Anche se pensiamo al mondo per numeri e la quantità ha il potere di essere considerata oggettiva, validando ogni cosa – perfino noi stessi (si pensi ai like) – la reputazione di una biblioteca non si può misurare attraverso l’impiego di rilevazioni quantitative “grazie alle quali ottenere dei valori numerici in grado di testimoniare il livello di favore sociale guadagnato” (p. 142).
Rasetti, sulla base delle sue importanti esperienze professionali e di ricerca, immagina una possibile ripartizione delle biblioteche pubbliche in tre grandi classi, con l’intento di limitare all’interno della singola classe le eventuali valutazioni comparative e una idea di misurazione della reputazione ancora lontana dall’essere realizzata. “L’appartenenza all’una o all’altra classe non è legata in modo automatico alle dimensioni fisiche dell’edificio – sottolinea l’autrice – ma ha a che fare piuttosto con la complessità organizzativa del servizio, che non sempre cresce in ragione diretta con l’aumentare del numero di metri quadri”.
Nella classe 1 della “legittimazione e del riconoscimento” (p. 167-170) trovano posto le biblioteche mono-posto o con una articolazione organizzativa minima, con livelli di servizio contenuti e un limitato sviluppo delle raccolte; nella classe 2 della “credibilità e fiducia” (p. 170-178) trovano posto le biblioteche che offrono servizi più articolati, spesso collocate in edifici medio-grandi o grandi, con uno staff professionale in grado di coprire esigenze di servizio più ampie e differenziate, grazie a raccolte di cospicue entità, a strumenti tecnologici di buon livello e ad una disponibilità economica proporzionata al respiro con cui i servizi sono stati progettati; infine, la classe 3 della “innovazione e convocazione” (p. 178-190) include quelle biblioteche che non si limitano a offrire servizi di alta qualità, rivolgendosi a pubblici ampi, ma hanno sviluppato uno speciale rapporto con l’innovazione e la creatività, maturando anche forme nuove di relazione con la comunità di riferimento. Sono biblioteche che accendono il cuore e fanno girare la mente di chi le frequenta.
“È evidente – sottolinea ancora l’autrice – che non si tratta di una ripartizione scientifica; vogliamo però sperare che una tale classificazione possa essere utile almeno sul piano operativo”. I tre livelli prospettati sono preceduti da un livello zero (p. 159-167) dove si collocano le tante situazioni in cui la biblioteca non c’è o non c’è mai stata, e perciò di essa si parla (e non poco) senza conoscerla davvero.

Per la situazione italiana il Livello Zero non è il piccolo, ineliminabile residuo di un sistema maturo, ma si estende copiosamente a rappresentare un ampio spazio di narrazioni sulla biblioteca, i cui materiali da costruzione sono poverissimi, perché attingono a vissuti personali privi dell’esperienza reale della biblioteca che funziona (p. 155).
[…]
Il livello Zero è il buco nero delle non-biblioteche, abitato da tutte le “biblioteche mai nate”, cioè quelle biblioteche che non sono mai state istituite, di cui i cittadini non hanno mai sofferto la mancanza né hanno reclamato l’apertura a suon di dimostrazioni di piazza (p. 159).

Delle 7.789 biblioteche, pubbliche e private, raggiunte dall’Istat con l’ultimo censimento, 7.459 risultano aperte all’utenza, anche parzialmente durante il 2020 e queste si articolano nei tre livelli individuati da Rasetti: dal livello 1 in cui troviamo biblioteche mono-posto o con un’articolazione organizzativa minima, con livelli di servizio contenuti, orari di apertura chiari anche se limitati, personale disponibile e spazi se pure ridotti gradevoli e piacevolmente frequentati al livello 3, quello delle biblioteche che hanno un rapporto tutto speciale con l’innovazione e che hanno maturato forme di relazione intense con la propria comunità di riferimento. I dati del censimento dell’Istat possono essere molto utili per tentare una distribuzione delle biblioteche pubbliche italiane nelle diverse classi, anche in base alla loro vitalità e polifunzionalità ma non in base alla loro reputazione.
Per esempio delle 330 strutture chiuse che segnano la differenza tra l’universo di riferimento e le biblioteche che si sono dichiarate aperte al pubblico nell’ultimo anno, sappiamo che una parte – 189 biblioteche – ha chiuso definitivamente, mentre l’altra – 141 biblioteche – ha scelto di sospendere temporaneamente le attività e i servizi all’utenza per motivazioni per lo più legate a questioni strutturali (la ristrutturazione dei locali e degli spazi disponibili) o a questioni gestionali (la riorganizzazione interna o la mancanza di personale). Tuttavia, come noto, una visione esclusivamente quantitativa non consente di comprendere la densità e l’entità reale dei problemi.
In che modo la reputazione di queste biblioteche, se e quanto, può avere inciso sulla loro chiusura?
In una recente ricerca realizzata con approccio misto su questo bacino di biblioteche chiuse al pubblico nell’ultimo anno, Camilla Quaglieri, ha indagato gli elementi che possono aver influito sulla vitalità delle biblioteche che hanno interrotto il proprio servizio, ribaltando la tradizionale prospettiva di valutazione d’impatto, per cui le biblioteche oltre a generare un impatto sul contesto di riferimento possono subire un impatto dallo stesso. Dalla ricerca emerge come questo (il tipo di impatto) sia determinato dalle politiche culturali dei sovra-sistemi territoriali di appartenenza ma anche dalla reputazione stessa della biblioteca e dalla relazione che questa ha con la sua immagine e soprattutto con la sua identità. L’area esaminata è coincidente con quella evidenziata da Rasetti, ovvero quella “popolata di giudizi prodotti da persone che perlopiù non hanno dimestichezza con l’argomento di cui si parla: per loro non c’è una differenza riconoscibile tra una biblioteca e un deposito casuale di libri” (p. 165).

Il quinto livello: le biblioteche morbide

Sulla base di questa e altre ricerche realizzate nell’ambito del Laboratorio di Biblioteconomia sociale e ricerca applicata alle biblioteche BIBLAB della Sapienza Università di Roma, vorrei provare ad arricchire l’utile classificazione di Rasetti aggiungendo una ulteriore sollecitazione ovvero un ulteriore livello – se esiste – che per praticità chiamo delle “biblioteche morbide”, richiamando l’espressione che l’Istat usa per i lettori inconsapevoli, ovvero coloro che pur leggendo non si ritengono lettori per una qualche ragione legata al genere di libro letto o al supporto utilizzato.
Ci sono realtà che assolvono alle stesse funzioni di una biblioteca chiamandosi in modo diverso? Ci sono biblioteche che tentano di fare mestieri nuovi per mimetizzarsi? Al tema di mimetismo, che vuole opporsi al giudizio o pregiudizio e che impatta sul definire e nominare, il volume di Rasetti dedica ampio spazio. Osserviamo un paio di esempi per chiarire cosa intendo.
Ecco il primo. Da almeno un decennio nel nostro paese stiamo assistendo a una forte diffusione di pratiche di innovazione sociale e culturale che hanno determinato in diverse città la nascita di nuovi centri ibridi multidisciplinari e indipendenti fuori dai contesti più tradizionali della cultura. Sono spazi in cui le biblioteche convivono con aree di coworking, sale per concerti, laboratori teatrali, spazi di formazione ecc.
I promotori sono associazioni culturali, organizzazioni profit e non- profit, startup, cooperative e fondazioni.Quasi sempre i protagonisti sono giovani sui trent’anni provenienti da realtà informali, con una componente femminile leggermente predominante e percorsi di studio nelle discipline umanistiche ma non solo:

Il dato più significativo è che uniscono una naturale propensione all’imprenditività, tipica delle generazioni nate dagli ‘80 in poi, a una spinta esogena all’imprenditorialità derivante dalla crisi di interi settori e carriere tradizionali. Parliamo di aspiranti ricercatori universitari, manager della cultura, insegnanti di conservatorio, architetti e urbanisti, esperti di inter-cultura, curatori di arte contemporanea, grafici e designer, giornalisti di approfondimento, progettisti di politiche pubbliche, ecc. che oggi volgono lo sguardo all’imprenditorialità dopo aver toccato con mano l’impossibilità di fare di ciò per cui hanno studiato e che li appassiona una lavoro stabile e generatore di reddito. Allora provano a crearselo.

Queste realizzazioni che sono soprattutto l’espressione di un bisogno, di una domanda che anticipa l’offerta, le istanze di comunità che possiamo definire flessibili, aperte e inclusive non si definiscono mai biblioteche anche se spesso sono previste. Lo sono o non lo sono? La natura ibrida di questi “nuovi” spazi si manifesta soprattutto nell’ambito di un’azione posta intenzionalmente tra culturale e sociale, due dimensioni concepite e percepite nella pratica non come contrastanti ma come naturalmente insieme, dove la seconda esprime un’intenzionalità, un obiettivo cui tendere e la prima in genere un modo in cui farlo.

Sono residenze d’artista nei borghi di montagna remoti. Opere d’ingegneria civile abbandonate – dighe, centrali elettriche, gallerie – riconvertite in laboratori teatrali, gallerie, sale proiezioni. Rifugi alpini che organizzano festival musicali. Bagni diurni dove si lava chi non ha acqua in casa e dove si fanno reading di poesia. Fabbriche e caserme riconvertite in auditorium, spazi espositivi, ristoranti sociali. Locali per la musica dal vivo che sono anche caffè letterari. Centri sociali occupati che sono club, spazi per la danza, laboratori di stampa. Biblioteche in cerca di nuovi nomi che ospitano laboratori di stampa 3D e sale prove. Cinema che accolgono gruppi di lettura e librerie che organizzano cineforum. Beni culturali dimenticati di cui si prendono cura gruppi di studenti. Vecchi circoli dove a fianco dei giocatori di briscola hanno iniziato a riunirsi gli appassionati di robotica. L’elenco potrebbe continuare per molte pagine, perché ogni nuovo centro culturale è una storia a .

Si tratta di una dimensione ibrida che nasce in risposta ai bisogni dei territori e va nella direzione di colmare un vuoto d’offerta delle istituzioni ancora fondate su categorie di pensiero che per semplicità possiamo definire novecentesche, ormai superate. Ma su questo torneremo.
Un secondo esempio altrettanto interessante ha a che vedere con un contesto più tradizionale di biblioteca pubblica. Anche questa volta si va nella direzione di colmare un vuoto d’offerta ma in questo caso è l’istituzione a farlo.
Grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza prenderanno forma a Roma entro il 2026 nove nuovi poli civici culturali di innovazione a servizio delle comunità a integrazione della rete bibliotecaria esistente. Le sedi individuate toccano tutti i quadranti della città e recuperano alcuni luoghi abbandonati o chiusi da anni, a partire dalla consapevolezza che le biblioteche, specialmente nelle aree caratterizzate da vulnerabilità sociale e materiale, possono essere una “istituzione àncora”, contribuendo alla riduzione delle disuguaglianze sociali e alla valorizzazione del capitale umano metropolitano. Saranno o non saranno biblioteche?

Una parentesi novecentesca

Poco fa ho richiamato categorie di pensiero che per semplicità ho definito “novecentesche” per intendere una idea di superamento. In realtà già nel secolo scorso troviamo una interessante riflessione sul tema oggetto di questo contributo in un libro del 1958 di un bibliotecario di Brema, Werner Mevissen, il cui titolo è Biblioteche.

Il volume viene tradotto in italiano nel 1962 e pubblicato da Edizioni di Comunità, la casa editrice fondata nel 1946 da Adriano Olivetti.

Evidentemente l’Ingegner Adriano era molto interessato al tema perché negli stessi anni sviluppa la realizzazione dei centri comunitari del Canavese: i primi centri sorsero nel 1949, sono tre nel 1950, sette nel 1951, venticinque nel 1952, trentatré nel 1955, settantadue nel 1958.

Abbiamo portato in tutti i villaggi di campagna, in tutti i paesi della montagna, per la prima volta, quelle che io chiamo le nostre armi segrete: i libri, i corsi culturali, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo profondamente alla virtù rivoluzionaria della cultura che dà all’uomo il suo vero potere e la sua vera espressione, come il campo arato e la pianta nobile si distinguono dal campo abbandonato e incolto ove cresce la gramigna, e dalla pianta selvaggia che non può dar frutto.

Non vengono chiamate biblioteche, ma questo erano. Mevissen, nel suo volume, suggerisce che quando si deve impostare un progetto per una nuova biblioteca per cominciare è necessario fare una scelta di massima:

Si può decidere in due direzioni. Ci si può contentare di progettare la biblioteca come un’istituzione culturale specializzata, limitandosi al servizio di prestito; in tal caso si avrebbe una scelta orientata verso un programma minimo. Oppure si può sviluppare la biblioteca per farne un centro sociale e culturale della comunità (con biblioteche sussidiarie nei centri più vicini) […]. In questo caso si orienterà la scelta verso un programma completo. Personalmente sono un convinto assertore del programma completo. A mio parere l’idea del centro sociale e culturale è strettamente connessa al concetto stesso di biblioteca pubblica.

L’inevitabile convergenza della biblioteca pubblica-centro sociale e culturale viene esplicitata da Mevissen qualche riga più avanti:

Da un punto di vista pratico l’inscindibile relazione esistente tra biblioteca pubblica e centro sociale e culturale è dimostrata, nella forma più convincente dal fatto che presto o tardi (è sempre e solo uno sviluppo legato alle circostanze e alla personalità del direttore della biblioteca!) anche la biblioteca, creata con un programma minimo, si annetterà nuovi compiti e nuovi ambienti; la qual cosa è spiegabile solo col fatto che la biblioteca pubblica ha sempre una finalità sociale e culturale. Quindi, ripensando alla soluzione del problema, appare chiaro che non vi è una vera alternativa all’attuazione integrale del programma completo di una biblioteca pubblica. La biblioteca pubblica che si limita esclusivamente al servizio di prestito va considerata storicamente come uno stadio iniziale (con i suoi scopi originariamente definiti in una limitata direzione sociale e pedagogica), sovente uno schema d’emergenza dettato dalla mancanza di risorse finanziarie o dalla fase di sviluppo.28

Gli utenti morbidi o inconsapevoli

La misurazione della reputazione non ha solo bisogno dei livelli sopra evocati ma ha anche bisogno di fare riferimento a una chiara definizione dei pubblici di riferimento, non è dunque possibile prescindere dall’individuazione dei principali gruppi di interesse con cui la biblioteca si relaziona: utenti, amministratori, finanziatori, operatori, fornitori di beni e servizi, altri soggetti operanti nella comunità di riferimento. Gli utenti sono ovviamente il gruppo più attenzionato.
Dagli ultimi dati pubblicati sul Rapporto BES dell’Istat emerge che il 93% circa degli italiani nell’ultimo anno non ha frequentato alcuna biblioteca, erano l’85% circa due anni fa. Da un altro punto di vista ecco le dimensioni del livello zero identificato da Rasetti.
Per quanto detto circa le biblioteche morbide è lecito il dubbio che ci siano anche degli utenti che sempre per praticità possiamo definire “morbidi”, ovvero coloro che hanno frequentato un nuovo centro culturale, uno spazio ibrido polifunzionale – chiamiamolo come vogliamo – con le stesse identiche motivazioni che muovono nella frequentazione di una “biblioteca propriamente detta” e tuttavia non si ritengono utenti di biblioteca:

Quello dei nuovi centri culturali è un mondo attraversato ogni giorno da decine di migliaia di persone eppure ancora poco conosciuto, poco studiato e poco raccontato. Spesso chi li frequenta li vive come degli unicum senza pensare che, ovunque vada in Italia, probabilmente c’è un luogo simile dietro l’angolo.

In effetti, l’ultima mappatura disponibile prodotta da un’indagine che “cheFare” realizza dal 2020 per approfondire le declinazioni possibili dei nuovi centri culturali evocati nel paragrafo dedicato alle biblioteche morbide attraverso “laCall to Action” – un questionario pubblico rivolto a tutti i nuovi centri culturali, gli operatori e i frequentatori di spazi culturali d’Italia per tracciare una mappatura nazionale di queste realtà – restituisce una geografia di 845 realtà presenti in quasi tutte le regioni italiane.
Dalla mappatura gli spazi dotati di una biblioteca, evidentemente intesa come “raccolta di libri”, sembrano essere poche, ma notiamo una certa convergenza di funzioni a guardare la nuvola di parole che rappresenta le risposte alla domanda: “Cosa si fa dentro il tuo nuovo centro culturale?”. Non solo, i servizi culturali di base, nei quali le biblioteche sono incluse, rappresentano la prima motivazione che muove i frequentatori di questi spazi.

Figura 1 Biblioteche censite da Istat chiuse al pubblico (temporaneamente o definitivamente) nell’ultimo anno e localizzazione dei nuovi centri culturali
Figura 2 Elaborazione delle risposte alla domanda “Cosa si fa dentro il tuo nuovo centro culturale?” (Fonte: laCall To Action, il progetto di mappatura nazionale dei nuovi centri culturali di cheFare)
Figura 3 Elaborazione delle risposte alla domanda “Cosa si fa dentro il tuo nuovo centro culturale?” (Fonte: laCall To Action, il progetto di mappatura nazionale dei nuovi centri culturali di cheFare). In evidenza l’occorrenza “biblioteca” e le sue relazioni.

Che si tratti di biblioteche di livello tre, due, uno, di biblioteche morbide, di nuovi centri culturali o poli di innovazione culturale quando si chiede alle persone che frequentano abitualmente questi spazi di dirci che cosa sono per loro, spesso la risposta include la parola casa, che spiega il riferimento al bel libro di Sarah Gainsforth citato in esergo. Sono spazi di crescita culturale, di incontro e relazione, di innesco di creatività e di potente partecipazione culturale intorno al libro, alla lettura e in generale a tante diverse forme di narrazione, in cui si respira la forte consapevolezza circa le opportunità che offrono rispetto alle esigenze della contemporaneità. Non è un caso che Rasetti nel suo libro ricorda come:

Le nuove architetture per biblioteche sono esplicitamente pensate per offrire ai cittadini la sensazione di avere a disposizione una casa comune, dove ciascuno possa ritrovare il proprio equilibrio, non da solo e contro gli altri, ma assieme agli altri, in un contesto finalmente non competitivo e non minaccioso.

E vorrei aggiungere: uno spazio in cui si supera la barriera degli otto secondi d’attenzione che – come ci ricorda Lisa Iotti – “rappresentano oggi la nostra curva d’attenzione abituale, il tempo medio dopo il quale la nostra mente perde il fuoco: quando leggiamo un articolo, quando ascoltiamo una musica, quando vediamo un filmato, quando parliamo con gli altri” ovvero “la nostra condanna all’incomprensione, all’incomunicabilità, alla solitudine. Al silenzio”.

Nuovi percorsi di ricerca

La promessa che le biblioteche e/o i nuovi centri culturali fanno è quella di permettere di coltivare la crescita personale attraverso la lettura lenta e concentrata, la connessione di pensieri determinata dalla connessione dei libri, dalle relazioni con gli altri, dall’innesco di immaginazione e creatività, attraverso l’appropriazione di un tempo libero costruttivo ma spensierato, la possibilità di coltivare interessi e passioni da soli o insieme agli altri non necessariamente legati alla lettura – tutto gratis – in un momento in cui tutto porta in un’altra direzione. Ecco forse perché spesso si dice che la biblioteca, qualsiasi cosa questa parola possa significare, è un’istituzione fuori tempo.
Si tratta di resistere certo, e di farlo con gli occhi bene aperti su ciò che sta accadendo intorno, di essere consapevoli della porosità di questa istituzione ma anche della necessità di essere permeabile.
Si tratta, come Rasetti ricorda spesso nel libro, di poter dominare processi di attribuzione identitaria e riconoscimento che stanno all’origine degli stereotipi e che agiscono su due piani diversi: quello della produzione di confini (su cosa appunto la biblioteca è o non è) e quello dell’ancoraggio a certe coloriture valoriali. Rasetti è ben consapevole che il tema affrontato è in grado di aprire numerose piste di ricerca e approfondimento e ne lancia diverse. Io qui ne riporto una che mi pare particolarmente interessante.

Pensiamo a quanto potrebbe essere interessante operare uno zoom tra le opinioni di chi è alla guida di altre istituzioni culturali in potenziale concorrenza con la biblioteca nell’accesso alle risorse, confrontandole con quelle di chi si relaziona con essa solo in chiave cooperativa e non ha motivo di attuare condotte di tipo competitivo. Ma un approfondimento del genere ci porterebbe molto lontano, imponendo un prolungamento del percorso che renderebbe ancora più arduo il raggiungimento dell’obiettivo finale. E perciò lasciamo che queste tracce di possibili percorsi di approfondimento rimangano depositate ai margini della nostra strada, in attesa di essere raccolte da altri studiosi (p. 222).

Dunque, come anticipato, la rivitalizzazione della mia personale riflessione intorno a questi temi a partire dalla lettura del volume di Rasetti fa sì che si apra un percorso di ricerca abbastanza preciso e non procrastinabile anche in vista degli Stati generali delle biblioteche che si svolgono a Milano nel mese di ottobre.
L’idea è quella di provare ad analizzare la diversa visione della messa a valore degli spazi pubblici dei diversi territori in cui insistono le biblioteche appartenenti ai diversi livelli individuati da Rasetti, le biblioteche mimetizzate o morbide e quelli che abbiamo chiamato nuovi centri culturali, analizzandone la reputazione attraverso un approccio qualitativo.
Esiste davvero un pubblico di utenti morbidi che non rientra nel 7% censito da Istat e che risolve il proprio bisogno di biblioteca in altri spazi e in altri modi? Se sì quali sono le forme organizzative e gestionali di questi nuovi spazi? Sono in conflitto con le biblioteche o sono di queste eventuali alleati?
L’intento non è assolutamente classificatorio. Non si vuole proporre una tassonomia ma instillare l’idea che l’equilibrio/l’armonia che le biblioteche assumono nel rapporto tra forma e contenuto, tra significante e significato, è probabilmente sempre in movimento. Esso non è inteso come un rettilineo, come un passaggio tra un punto A e un punto B, ovvero come una linea, ma come uno spazio. Permeabile e capace di farsi attraversare.