Il vizio dell'esterofilia. Editoria e traduzioni nell'Italia fascista
erikabaini@libero.it
Abstract
Recensione di Erika Baini al libro di Christopher Rundle, Il vizio dell'esterofilia. Editoria e traduzioni nell'Italia fascista, Roma, Carocci, 2019, 216 p.
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Con Il vizio dell’esterofilia. Editoria e traduzioni nell’Italia fascista il professor Christopher Rundle mette a punto in maniera dettagliata, attraverso testimonianze d’archivio, inchieste e statistiche, l’evoluzione del pensiero che si snoda dietro la storia editoriale legata al circuito delle traduzioni in Italia durante il Ventennio, storia che segue di pari passo le trasformazioni che tale clima politico trascinò con sé intrecciandosi indissolubilmente a esso. Rundle analizza attentamente come le tappe dell’evoluzione dell’idea legata all’industria delle traduzioni in rapporto al cambiamento del clima politico dell’Italia fascista non fossero sfociate in una censura intransigente e dalle misure repressive. Dagli anni Trenta fino agli anni Quaranta, infatti, il regime tentò di mettere in atto con gli editori una serie di accordi e compromessi che evitarono di far sprofondare il mercato editoriale delle traduzioni in vere e proprie strette censorie. Ciò che viene messo in primo piano da Rundle infatti non è propriamente l’evoluzione di un sistema censorio concreto, il quale avvenne solo in maniera rigorosa e severa nel 1938, ma l’evoluzione di un’idea legata alla prassi della traduzione che si covava in ambiente fascista nei confronti dei testi tradotti a seconda dei cambiamenti socio-politici. Quello che si innescò e che prese piede, e che il professor Rundle mette in luce, fu dunque l’evolversi di una prospettiva che abbracciava l’industria delle traduzioni e che si modificò in maniera caleidoscopica al mutare del cambiamento di clima nel corso di tutto il Ventennio accendendo focose inchieste e celebri dibattiti. La politica del regime fascista portò a far valere le proprie idee e teorie legate a tale mercato anziché il proprio rigido protocollo di prassi. Infatti non furono messi in atto criteri censori totalizzanti, bensì, si badi bene, sistemi di controllo che tenevano conto di eventuali aperture.
Partendo dal presupposto di concentrarsi sulle traduzioni in quanto fenomeno editoriale, l’autore analizza la questione delle traduzioni senza prescindere dai cambiamenti politici e stabilendo in che modo, in virtù del mutare del processo storico, dall’inizio degli anni Trenta fino agli anni Quaranta, da questione morale divenne via via una questione politica e ideologica.
Il corpus – suddiviso in quattro capitoli – ripercorre l’evolversi del clima sociopolitico e di conseguenza, l’evoluzione del punto di vista del regime riguardo al mercato delle traduzioni. Il capitolo d’apertura intitolato Il regime fascista e il controllo della stampa anticipa il rapporto che il regime intratterrà con la stampa, e in particolar modo con il problema delle traduzioni all’interno del mercato dell’editoria, tenendo conto delle sfaccettature che il fenomeno editoriale legato all’industria della traduzione porta con sé a partire dagli anni Trenta.
La prassi legata alle traduzioni si presenta innanzitutto, precisa Christopher Rundle, come fortuna per l’editoria stessa, dal momento che il suo contributo permetteva alle case editrici di creare un mercato per la letteratura di massa che veniva incontro al gusto popolare spinto alla ricerca di nuovi prodotti e affamato di nuovi stimoli. Il mercato delle traduzioni, infatti, era assai proficuo ed era in grado di comprendere un numero ben più vasto di lettori dal momento che si era carezzata l’idea che la cultura non dovesse essere più appannaggio di una élite di cultori ed esperti.
Tuttavia per il fascismo questo fenomeno di massa avrebbe dovuto mettere al centro l’esaltazione dei valori fascisti, un’etica legata al cristianesimo e al culto della famiglia. Mentre sarebbe stata rigorosamente vietata la pubblicazione di testi tradotti che avessero riportato crimini, omicidi, incesti, suicidi, stupri, devianze sessuali e che, dunque, fossero entrati in contrasto con i principi di moralità affermati dal regime. Inoltre c’era il rischio che autori italiani di grande qualità venissero messi ai margini da una letteratura scadente, decadente e moralmente lesiva per la salute spirituale del pubblico italiano. Rundle ci pone sotto gli occhi quanto tuttavia la legislazione varata agli inizi degli anni Trenta in materia di controllo fosse apparsa blanda. Il professore non ci parla di censura in senso stretto, ma di esempi di sistemi di controllo preventivi. In primo luogo l’attività per così dire “censoria” sarebbe intervenuta solo una volta che le opere fossero state stampate. Il nulla osta sarebbe arrivato dunque dopo la stampa, ossia dopo la pubblicazione. In una seconda battuta, per non creare un tracollo economico nel settore editoriale, il regime scelse di sottoporre a controllo le bozze finite anziché la stampa finita, la quale avrebbe comportato dei costi per la sua realizzazione. In questo modo il censore avrebbe suggerito delle modifiche in modo da non eliminare l’opera intera e da evitare così inutili spese. Ecco che Rundle sottolinea l’imperfezione insita nella prassi censoria che portava con sé un certo squilibrio tra teoria e pratica, tra idea e azione, che potrebbe anche essere letta come sintomo di una possibile apertura di mentalità da parte del regime in materia di controllo della stampa. Con il secondo capitolo dedicato alle statistiche dell’industria della traduzione, l’autore entra nel cuore della questione delle traduzioni come fenomeno di massa conferendo la prova di quanto l’Italia fosse un paese altamente ricettivo e il mercato editoriale assai proficuo. Christopher Rundle ci riporta infatti che tra il 1930 e il 1935 il Paese registrò un picco del numero di traduzioni che andò dalle 1.135 alle 1.173. Il professore mette inoltre a disposizione anche altri dati estremamente interessanti e importanti che ci permettono di confrontare la ricettività italiana con quella della Germania. Essa infatti, nel 1933, anno dell’ascesa al potere di Adolf Hitler, registrerà un calo di testi tradotti il cui numero rimarrà costante per tutto il decennio e oltre. Si tratta di dati che inducono il lettore a riflettere sulla proporzionalità inversa che intercorre tra i due paesi. La motivazione del tracollo che riguarda la Germania potrebbe essere individuata e studiata nel totale processo di nazificazione e nella spietata politica censoria immediatamente adottata dal Ministro della Propaganda Paul Joseph Goebbels subito dopo la presa di potere da parte di Hitler.
Questa ricettività da parte dell’Italia fascista nei primi anni Trenta del Novecento e analizzata statisticamente in maniera esaustiva non fu esente da particolari effetti (3. L’invasione delle traduzioni: 1929-34). La traduzione si configura come una minaccia per la letteratura italiana: un elevato numero di testi tradotti, nonché di scarsa qualità di forma e contenuto, potrebbe relegare in una nicchia la produzione nazionale e mettere in pericolo, attraverso trame licenziose, la morale dell’homo novus fascista. La questione riguardante l’industria delle traduzioni è dunque analizzata dal punto di vista etico e intellettuale attraverso un dibattito che vide come protagonisti Il Torchio. Settimanale fascista di battaglia e di critica, e il critico Emilio Cecchi. L’invasione dello straniero, secondo la voce degli esponenti della rivista, andava fermata attraverso un intervento da parte dello Stato che consisteva nella limitazione del numero dei testi tradotti. Sia nel Torchio che in Cecchi era viva la preoccupazione per la salute della cultura italiana minacciata da un numero crescente di traduzioni pubblicate per motivi soprattutto economici. Per Cecchi, dunque, l’editore avrebbe dovuto appellarsi alla sua responsabilità culturale operando una dura selezione. A questa speculazione etico-morale il professor Rundle ci spiega nel dettaglio che non seguì una rigida prassi censoria, bensì l’adozione di criteri che lasciavano aperti ampi spazi di manovra ed eventuali negoziazioni. Un esempio di questa apertura da parte del regime è fornito dall’accordo intercorso tra Galeazzo Ciano, all’epoca a capo dell’Ufficio stampa del capo del governo, e Mondadori per la pubblicazione di Storia di una notte di Joe Lederer, a condizione che fosse soppresso il motivo del suicidio, dannoso per la formazione delle giovani menti italiane.
Nel 1936 la questione legata alle traduzioni comincia ad assumere un significato politico (4. Le traduzioni e l’autarchia culturale: 1936- 38). Christopher Rundle prende in esame la guerra in Etiopia quale momento di svolta. La nuova immagine dell’Italia come potenza coloniale mutò il punto di vista che ruotava attorno al problema delle traduzioni. Il fervore nazionalista si fece ispiratore e portavoce del principio autarchico contro il vizio dell’esterofilia. Occorreva, dunque, in nome dell’autarchia, ridurre il tetto delle importazioni dall’estero e aumentare le esportazioni, facendo in modo che il resto del mondo divenisse tributario culturale. Qui l’autore evidenzia lo spiccato talento di Mondadori – oltre al suo ruolo di primo piano in tutto il dibattito sorto in seno alle traduzioni – nel mettere in atto compromessi che consistevano nel porre sotto gli occhi del regime una serie di negoziati per la pubblicazione di un gran numero di opere italiane all’estero e nella manomissione delle cifre all’interno delle statistiche riguardanti il tetto massimo delle importazioni.
Di lì a poco, con l’emanazione delle leggi razziali nel 1938, la questione diventerà ideologica (5. La traduzione come inquinamento culturale: 1938-43). Con Alessandro Pavolini al Ministero della Cultura popolare si introdussero per la prima volta una serie di misure restrittive in materia di traduzioni. Si badi però, come sottolinea più volte Rundle, che le restrizioni riguardarono solo i testi di autori di religione ebraica dal momento che, per il resto, lo stesso Pavolini dimostrò un certo grado di tolleranza e una sorprendente riluttanza nell’esercizio della sua autorità. L’esempio principe dell’assenza di una sistematica politica di divieto è fornito dal caso della rivista “Americana”, pubblicata da Bompiani e curata da Elio Vittorini. Un caso delineato nei minimi dettagli da Rundle e in cui il professore insiste ancora una volta nel presentarci le mancanze o gli spazi di manovra, a seconda di come si voglia leggere la politica adottata dal regime nei confronti dell’industria delle traduzioni.
In questo saggio dunque Christopher Rundle, attraverso interessanti materiali d’archivio e statistiche accurate ci racconta e ci dimostra che il regime non adottò mai provvedimenti concreti, se non nel 1938 in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, le quali coinvolsero in una stretta censoria solo autori di razza ebraica. Quella che prese forma nell’arco degli anni Trenta, fa emergere Rundle tra le righe, fu una speculazione, la nascita di un dibattito culturale che ebbe come soggetto l’evoluzione di un’idea legata alla prassi della traduzione, la quale, in base ai cambiamenti socio-politici del tempo, da questione etico-morale assunse i toni della questione ideologica senza sfociare in una censura senza condizioni.
Il vizio dell’esterofilia. Editoria e traduzioni nell’Italia fascista suscita nel lettore un quesito che poterebbe costituire lo spunto per un interessante dibattito: questo atteggiamento d’apertura, dunque, si configura come contraddizione, come falla insita nell’operato del regime stesso oppure come un cortese spazio di manovra concesso agli editori? Di sicuro, insiste più volte Rundle, soprattutto in conclusione, nella misura in cui i testi tradotti inneschino un processo di scambio culturale, di espansione, o di bilanciamento commerciale, questi non possono configurarsi come problema etico, politico o ideologico, bensì come occasione di prestigio per l’Italia fascista e di fortuna economica per gli editori.