La ricerca sociale e l’analisi sul campo sono obbligatorie per la comprensione dei movimenti sociali, nonostante la sistematizzazione dei dati e l’interpretazione dei cambiamenti sociali siano molto impegnative nello scenario della Liquidità Moderna. In particolare un campo di indagine è rappresentato dalle grandi opportunità dal cosiddetto “terzo luogo”, spazio di incontro e di pratica sociale. In questo contesto si verificano due fenomeni culturali: 1) nel campo delle biblioteche, l'esperienza londinese degli “Idea Store” e tante altre repliche europee che, a partire da circa vent’anni fa, hanno rappresentato una significativa innovazione, in particolare nel mondo della lettura pubblica per la sua visione multidisciplinare; 2) alcune esperienze del movimento delle “Case del Popolo”, nella parte finale del secolo scorso. L'articolo effettua un'analisi preliminare di queste esperienze tenendo conto delle diverse similitudini che si possono riscontrare nella loro pratica, nonostante le loro diverse origini storiche e sociali. Analizzando i loro effetti positivi e le debolezze, si propone anche di tracciare alcune ipotesi evolutive per l’immediato futuro.
English abstract
Social Research and on-field-analysis are mandatory for the understanding of social movements despite data systematization and interpretation of social changes are very challenging in the scenario of the Modern Liquidity. In particular, a field of investigation with great opportunities is represented by the so-called “third place”, a space for meeting and social practice. In this context two cultural phenomena occur: 1) in the field of libraries, the London experience of “Idea Store” and the many European replicas which, starting about twenty years ago, have represented a significant innovation, in particular in the world of public reading for its multidisciplinary vision; 2) some experiences of the movement of the “Houses of People”, in the final part of the last century. The article carries out a preliminary analysis of these experiences taking into account the various similarities that can be found in their practice, despite their different historical and social origins. By analyzing their positive effects and weaknesses, it also aims to trace out some evolutionary hypotheses for the immediate future.
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Premessa
La ricerca sociologica e la connessa analisi sul campo continuano a essere insostituibili strumenti concettuali per la comprensione dei movimenti sociali anche se il lavoro di analisi, di sistematizzazione dei dati e di formulazione di credibili ipotesi interpretative delle realtà sociali è reso più difficile dalle caratteristiche “liquide” delle società post-moderne. D’altra parte, la forza dell’analisi sociologica sta proprio nell’essere in grado di definire strumenti che aiutino a individuare analogie tra fenomeni apparentemente molto distanti ed evidenziare fattori e ostacoli al cambiamento, anche quando assumono valenze esterne molto diverse. Ciò in modo tale da assicurare un’efficace previsione sociale di cui c’è grande bisogno proprio nell’attuale scenario. Sulla base di tali assunzioni un campo di indagine che presenta grandi opportunità pare essere quello dell’osservazione del cosiddetto terzo luogo, spazio di incontro e di pratica sociale, in cui si incrociano, ad esempio, due fenomeni culturali caratterizzati da precise specificità:
da un lato, nel settore delle biblioteche, l’esperienza londinese degli Idea Store e le diverse repliche che si sono determinate almeno nello scenario europeo che, a partire da una ventina di anni fa, hanno rappresentato una significativa innovazione, in particolare nel mondo della pubblica lettura per la sua visione multidisciplinare;
dall’altro, alcuni casi iscrivibili nella storica esperienza delle Case del Popolo italiane in particolare nel periodo storico compreso tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso.
A partire da alcuni assunti generali, già sistematizzati in letteratura, l’articolo conduce una preliminare analisi di queste esperienze. In particolare, intende sottolineare ed evidenziare le numerose analogie riscontrabili nella loro pratica, malgrado le origini storiche e sociali estremamente eterogenee. Analizzandone ricadute positive e debolezze, intende inoltre tracciare qualche ipotesi evolutiva per l’immediato futuro.
La nozione di terzo luogo
La nozione di terzo luogo si afferma a partire dalle assunzioni definite da Ray Oldenburg nel suo ormai noto lavoro del 1989, a oggi ancora non tradotto in italiano. In quella sede il sociologo americano, in una ricostruzione complessiva dei tempi di vita dell’uomo contemporaneo, adottava la classica ripartizione in tre fondamentali momenti, che sono anche luoghi fisici, in cui gli individui dividono la propria esistenza:
il primo costituito dal domicilio privato, la casa;
il secondo dallo spazio e dal luogo del lavoro;
il terzo da una serie di luoghi e ambienti, dalle più svariate caratteristiche, che devono essere considerati centrali in ogni prospettiva di sviluppo sociale e nelle forme della convivenza democratica. I diversi luoghi rientranti in questa grande categoria (bar, caffè ma anche uffici postali o saloni di barbieri e così via), nella visione di Oldenburg, ospitando contemporaneamente persone di diversa estrazione sociale, non condizionate nei loro comportamenti e nelle loro interazioni dai vincoli posti dalle dinamiche familiari o da quelle del lavoro, avrebbero la possibilità di fungere da grandi facilitatori nei rapporti sociali tra individui della più diversa estrazione ampliando così la sfera della socialità.
Accanto a diversi approfondimenti di metodo dell’intuizione di Oldenburg, anche nel contesto italiano si sono prodotte elaborazioni e alcune esperienze sociali che enfatizzano la ricchezza del concetto di terzo luogo. Per inciso tale tematica si intreccia con molte delle caratteristiche proprie del metodo e della pratica dell’innovazione sociale e un’attenzione particolare è poi riscontrabile nel settore delle biblioteche.
Nel contesto biblioteconomico: Idea Store e non solo
Nel 2017 Nicola Cavalli ha pubblicato su “Biblioteche oggi Trends” un contributo che illustrava il concetto di terzo luogo e la sua applicabilità al settore delle biblioteche. Lo stesso articolo, suddiviso in due sezioni, ospitava nella seconda parte l’intervento di Kate Pitman e Judith Saint John che effettuavano, come indispensabile elemento di raffronto con le tesi del terzo luogo, una sintetica ricognizione dell’esperienza londinese degli Idea Store in cui, dopo avere riportato una ampia selezione delle impressioni positive degli utenti sul modello londinese, ne sottolineavano le caratteristiche portanti:
Gli Idea Store sono degli spazi di neutralità. Le persone vi si recano perché lo vogliono, non perché obbligate, e si sentono libere di andare e venire a loro discrezione senza che si facciano loro domande. Gli Idea Store accolgono chiunque in modo egualitario e non accordano importanza allo status sociale degli individui né alla durata del soggiorno. Lo status economico o sociale non conta. Evitiamo di avere regole troppo severe o di esigere un’appartenenza esclusiva. Gli Idea Store sono aperti e accessibili. Offrono uno spazio collettivo libero e condiviso, dove le persone acquisiscono un sentimento di appartenenza a una collettività più ampia uscendo di casa. Gli Idea Store offrono delle possibilità di coinvolgimento attivo e di partecipazione ad attività diverse e libere, che creano un legame tra gli individui e i gruppi e che lottano contro l’alienazione propria della vita urbana. Gli Idea Store incoraggiano l’inclusione sociale in uno spazio pubblico aperto e condiviso da tutta la collettività su base egualitaria. Si fondano su un’etica di apertura e integrazione: quindi sono aperti tutti i giorni della settimana per tutto l’anno, comprese le festività. Gli Idea Store sono una casa fuori da casa: ‘Qui mi sento a casa mia’. L’ambiente è molto gradevole e le nostre esigenze di qualità estetica ne fanno un posto dove è bello trascorrere il tempo. Le persone spesso qui provano un sentimento di appartenenza e si identificano fortemente col luogo. Gli Idea Store accolgono utenti abituali che vi si recano da anni, ma anche nuovi arrivati, e si applicano per aiutarli ad appropriarsi del luogo sentendosi benvenuti e presi in considerazione. Gli Idea Store sono pilastri della vita collettiva e contribuiscono a un’interazione più ampia e più creativa.
Nell’anno successivo viene tradotto in italiano il lavoro Bibliothèques troisième lieu. Costituito da contributi di studiosi e bibliotecari prevalentemente di area francofona, nel volume si prendono in considerazione le diverse dimensioni di questo concetto collegandole alle possibili tendenze di sviluppo delle biblioteche contemporanee. Evidenziando la centralità del legame sociale, una delle autrici afferma:
Oggi abbiamo davvero bisogno di luoghi terzi che si facciano ricettacolo di quel legame che ci manca; di luoghi aperti a tutti, vivi, che procurino calore umano e sentimento di appartenenza a una comunità, propizi a un ecumenismo sociale. La biblioteca oggi costituisce un luogo terzo per eccellenza, uno dei rari spazi gratuiti a misura di una collettività, accanto ai parchi o ad alcuni spazi naturali.
Figura 1
Maison du Peuple in piazza Emile Vandervelde a Bruxelles, opera dell’architetto Victor Horta. La Casa del Popolo venne demolita nel 1965, nonostante le forti proteste internazionali della comunità architettonica e non solo
E ancora:
Alistair Black, professore britannico di scienze dell’informazione e storico delle biblioteche, ha mostrato il perfetto adeguamento tra la biblioteca e l’essenza del luogo terzo a partire dalla sua origine: sono in effetti terreni ‘neutri’, accessibili, aperti a tutti, dove chiunque è il benvenuto. Ma il cursore può sempre essere posizionato in modo molto diverso. I gradi di apertura possono essere in realtà molto variabili, date le percezioni che gli utenti possono avere degli edifici e degli usi che ne fanno. Serge Paugam indica che gli ‘studenti conoscono la differenza che c’è tra la Biblioteca nazionale di Francia (BnF) o la biblioteca di Sainte-Geneviève, luoghi che esprimono una concezione relativamente elitaria della cultura e della ricerca, e la Biblioteca del Centre Pompidou (Bpi), che da quando è stata creata incarna invece una politica di apertura incondizionata’. La Bibliothèque publique d’information (Bpi) funge da quadro protettore per una gran fetta di pubblico socialmente fragile. Opera come un ‘luogo di resistenza allo stigma’: mentre sono lì dentro gli utenti non hanno bisogno di nascondersi, per una volta sono posti a un livello di uguaglianza con gli altri. Questa condizione di fatto partecipa dell’apprendimento del principio di cittadinanza e di uguaglianza. Ciò coincide del tutto con lo spirito del luogo terzo che Oldenburg tratta in dettaglio nel suo The great good place: quando si entra in un vero luogo terzo, si abbandonano le proprie ‘bandiere’; tutto è stato pensato per favorire questo sentimento di equità. Ciò durante il soggiorno neutralizza almeno in parte i mali con cui gli utenti devono avere a che fare nel resto della giornata.
La vicinanza, concettuale e applicativa, che il concetto di terzo luogo dimostra con la riflessione bibliotecoMaison du Peuple in piazza Emile Vandervelde a Bruxelles, opera dell’architetto Victor Horta. La Casa del Popolo venne demolita nel 1965, nonostante le forti proteste internazionali della comunità architettonica e non solo BO ottobre 2022 27 nomica è ulteriormente accentuata dalla maturazione ulteriore di tesi e posizioni che, se già presenti in nuce da molti anni nella buona pratica bibliotecaria, si stanno corposamente strutturando in tempi recenti con la specifica affermazione della biblioteconomia sociale e con un’ampia casistica di esperienze e applicazioni di cui si ritrovano molteplici esempi nel recente convegno delle Stelline.
Il movimento delle Case del Popolo
In parallelo, nell’attuale discussione sulla riprogettazione dei luoghi della cultura contemporanea, stanno assumendo un ruolo significativo come precedenti da non trascurare, “le esperienze delle Case del Popolo, dei Circoli Arci, dei Centri Sociali, nati a cominciare dagli anni Settanta”, che non riescono più a sintonizzarsi, insieme a tante altre associazioni nate in quegli anni, con i mutamenti della società del nuovo millennio. Di seguito saranno prese in considerazione brevemente le esperienze delle Case del Popolo in Italia e di una in particolare, la Casa del Popolo di Ponticelli a Napoli, sorta proprio nella metà degli anni Settanta. Le Case del Popolo nacquero in Europa tra gli ultimi tre decenni dell’Ottocento e i primi anni del Novecento per rispondere alle esigenze degli operai d’incontrarsi, discutere di rivendicazioni salariali, aiutarsi vicendevolmente e divertirsi nel tempo libero. Furono processi di aggregazione innescati dallo sviluppo del lavoro in fabbrica durante la rivoluzione industriale e dovuti all’impegno di associazioni filantropiche, partiti e sindacati. Tutte erano impregnate di cultura politica socialista. Le numerose Case del Popolo che sorsero in Austria-Ungheria, Belgio, Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Svizzera e Italia, erano, in un certo senso, il corrispettivo proletario dei caffè e dei club in cui si riunivano i borghesi, come avevano fatto gli aristocratici nei salotti dell’ancien régime. La prima Casa del Popolo europea fu fondata a Jolimont, in Belgio, nel 1872. Sempre in Belgio, ma a Bruxelles, nella piazza Emile Vandervelde, il 2 aprile 1899 fu inaugurata una delle più grandi e belle Case del Popolo mai costruite, opera dell’architetto Victor Horta (1861-1947). Era un enorme edificio in stile Art Nouveau, la cui facciata, dalla forma leggermente sinusoidale, misurava ottanta metri. Dotato di uffici, biblioteca, bar, stanze per riunioni e un’immensa sala per i dibattiti politici e gli svaghi teatrali e musicali, la Maison du Peuple dell’architetto belga poteva gareggiare, anche visivamente, con i grandi palazzi del potere laico e con le maestose cattedrali del potere religioso. Ormai anche il proletariato aveva i suoi edifici belli in mostra nelle principali strade e piazze delle città. In Italia le Case del Popolo, dislocate in gran parte nel centro-nord, furono ospitate in edifici modesti, a eccezione di quelli delle Case del Popolo di Bologna, di Castelbelforte, un piccolo centro nel mantovano, e di Milano, inaugurate le prime due nel 1907 e la terza nel 1909. Le poche e sparute Case del Popolo del sud, quasi tutte rurali, erano costituite da una o due stanzette, utilizzate esclusivamente per le riunioni politiche e sindacali. Molto raramente diventarono anche luoghi di svago e divertimento. La ragione di questa esiguità di presenza e radicamento è da ricercare soprattutto nella debole struttura cooperativa e associativa della società meridionale. L’avvento del fascismo nel 1922 pose fine alle attività delle Case del Popolo imponendone la chiusura per decreto. I loro locali divennero sedi del Partito fascista, dell’Opera nazionale dopolavoro e delle Case del fascio. Nel centro-nord alcune Case del Popolo continuarono però a operare in clandestinità attraverso l’azione di coloro che le avevano fondate. Nel dopoguerra, sotto la spinta del Partito comunista italiano, le vecchie Case del Popolo nel Centro-Nord riaprirono progressivamente i battenti e ne furono fondate delle nuove anche nel Mezzogiorno dove, come detto, non avevano mai proliferato. Era stato lo stesso segretario del Partito, Palmiro Togliatti, a esprimere, già nell’ottobre 1944, dopo il rientro in Italia, la necessità che le Case del Popolo, che avevano svolto un importante ruolo politico prima del fascismo, fossero potenziate in tutta Italia. Da qui la celebre frase attribuita a Pietro Secchia: “Una Casa del popolo per ogni campanile”. Togliatti indicò con lungimiranza anche cosa dovessero fare le Case del popolo in un’Italia che usciva lacerata e provata dalla guerra. Accanto alle tradizionali attività politico-sindacali, esse dovevano organizzare, sempre più, attività culturali, ludiche e ricreative, dovevano creare, in altre parole,
una nuova cultura basata sulle classi popolari e sull’eredità delle loro esperienze di lavoro e di lotta. Le biblioteche, i corsi culturali, i cineclub, le mostre d’arte, i teatri dilettanti, le gare musicali e sportive da iniziative sporadiche e scollegate dovevano essere rese parte integrante della presenza capillare del partito nella società.
Sostanzialmente è quello che le Case del Popolo hanno fatto in Italia fino alla fine del secolo scorso, quando è cominciata la loro crisi, insieme a quella del più grande Partito comunista dell’Europa occidentale.
Figura 1
Animazione, coinvolgimento grafico, disegno libero ericamo, con Riccardo Dalisi e Michele Bonuomo, 1975
Figura 2
Tre ballate di periferia, spettacolo teatrale e musicale di Rosario Crescenzi, 1975
La Casa del Popolo di Ponticelli
Fra le Case del Popolo sorte nella seconda metà del Novecento in Italia, un’esperienza significativa è quella della Casa del Popolo di Ponticelli, un quartiere nell’area orientale di Napoli, che insieme a Bagnoli, nell’area occidentale, è stata, fino ad alcuni decenni fa, uno dei due grandi poli industriali della città. Rispetto però ai quartieri di San Giovanni a Teduccio, Barra e Poggioreale, che fanno parte anch’essi di quest’area, a Ponticelli vi erano pochi insediamenti industriali, ma vi abitavamo moltissimi operai, come a Sesto San Giovanni a Milano e a Mirafiori a Torino. Era un quartiere dalle forti tradizioni operaie, in cui vi era un antico radicamento della sinistra e in particolare del Partito comunista italiano. Grazie proprio alla spinta di questo Partito nel 1974 fu fondata la Casa del Popolo, ospitata in un ampio locale, comprato con una generosa sottoscrizione popolare, e ristrutturato in vista delle attività che vi si sarebbero dovute svolgere. Con l’ingresso in una delle due principali strade del quartiere ed equidistante dalla Chiesa madre di Santa Maria della Neve e dal Cinema Pierrot, la Casa del Popolo si trovava (e si trova) accanto a negozi, bar e pizzerie, in un luogo centrale della vita di Ponticelli. Ma la Casa del Popolo ricoprì un ruolo che andava al di là dei confini del quartiere. Si può dire che da allora, con una struttura funzionale degna di questo nome nell’intera area metropolitana, è stata nei fatti la Casa del Popolo di Napoli. Non a caso, per un decennio, a partire dalla fondazione, fu il luogo-simbolo, insieme alla sede della Federazione comunista di via dei Fiorentini, dei comunisti napoletani e più in generale della sinistra riformista. In quel decennio, con le sue attività (animazione, mostre d’arte, cinema, teatro e centro di informazioni), la Casa del Popolo fu anche un modello di un nuovo modo di fare cultura in città.
Si tentò, come si diceva allora, l’esperimento di dar vita a una cultura dal basso, con il coinvolgimento diretto dei cittadini del quartiere. Fu un esperimento ben riuscito soprattutto nel campo della produzione artistica. Accanto a mostre alle quali partecipavano artisti affermati e giovani emergenti, furono organizzate rassegne di animazioni con ragazzi e ragazze delle scuole medie e con gruppi di pensionati. Erano attività formative rivolte ai più piccoli e agli anziani, spesso le categorie sociali che vivevano più fortemente i disagi del quartiere, popolare e popoloso insieme. Riccardo Dalisi, docente alla Facoltà di Architettura dell’Università di Napoli, nell’anno accademico 1975-1976 tenne nella Casa del Popolo il corso di Composizione architettonica e una mostra di pittura il cui prodotto era dovuto, come egli stesso scriveva, al “collettivo” e non agli “specialisti”. Enrico Crispolti, docente di Storia dell’arte contemporanea a Salerno, poi a Siena, ideò, con i più attivi “operatori estetici” nel sociale di Ponticelli, Pasquale Coppola e Antonio Picardi, l’esperienza del “multiplo illimitato”, che ebbe risonanza nazionale, tanto da essere ricordato in seguito dal critico d’arte Francesco Vincitorio ne “L’Espresso” del 21 novembre 1982. La partecipazione dei cittadini del quartiere alle attività della Casa del Popolo diventò ben presto frequenza quotidiana della struttura, dotata di una sala per conferenze e proiezioni cinematografiche, varie sale per riunioni, una biblioteca, un piccolo bar e uno spazio all’aperto utilizzato per incontri estivi. Nata molto in ritardo rispetto alle Case del Popolo del Centro-Nord, la Casa del Popolo di Ponticelli si caratterizzò subito come terzo luogo, concetto sociologico che, come abbiamo visto, fu elaborato proprio in quegli anni, cioè un luogo che non era né la fabbrica né l’ufficio, dove le persone (non solo di sinistra) s’incontravano per progettare il futuro con il loro impegno politico e civile, ma anche per apprendere, incontrarsi, conoscersi e divertirsi. Nella carenza pressoché totale di strutture pubbliche nel quartiere, a cominciare da una biblioteca di pubblica lettura, la Casa del Popolo cercò, per quel che poté, di migliorare la qualità della vita della comunità in cui operava e che la stessa comunità considerò un “bene comune” da preservare nel tempo. Dopo il terremoto del 1980 l’area orientale fu individuata dagli amministratori politici locali come zona dove edificare la maggior parte degli alloggi e dei servizi per i terremotati di Napoli e provincia. Nell’ambito dei servizi, Ponticelli ebbe finalmente una biblioteca comunale della quale, però in pochi si accorsero e pochi ne usufruirono perché, fin dalla sua fondazione, non fu inserita fino in fondo nella vita del quartiere. Questa criticità, d’altra parte comune a tutto il sistema delle biblioteche di pubblica lettura della città di Napoli, era determinata dalle specifiche caratteristiche della struttura (un’impostazione molto tradizionale, una localizzazione poco felice) proprio quando, in Italia e all’estero, si cominciavano a sperimentare nuove forme di servizio e di apertura alle utenze e alle comunità testimoniate dalle esperienze di cui si è precedentemente discusso. Da parte sua, pur essendosi consumata l’esperienza della Casa del Popolo, alcune sue buone pratiche potrebbero ancora essere utili nelle politiche di riqualificazione sociale del quartiere, come fa, in parte, da decenni l’Associazione Arci Movie.
Lo sviluppo prevedibile
La volontà di comparare e confrontare contesti diversi nasce dalla profonda convinzione degli autori di dover mantenere sempre viva un’attenzione ai fenomeni sociali e ciò sia in funzione degli sviluppi dei sistemi bibliotecari che, più in generale, per sottolineare come comuni radici tengano connesse esperienze apparentemente diverse, per contesto storico e per culture in cui si sono sviluppate. Il senso di comunità che le Case del Popolo generarono durante tutto il ventesimo secolo si incontra con le esperienze di biblioteche modernamente sociali che fanno della condivisione paritaria di esperienze diverse (ma forse bisognerebbe dire di vite diverse) un loro punto di forza. Certo, accanto alle analogie, sono riscontrabili importanti differenze: il movimento socialista, sul finire del diciannovesimo secolo, aveva bisogno di costruire letteralmente dei luoghi fisici a supporto della convivialità delle classi lavoratrici che erano del tutto escluse dai luoghi della borghesia e dei ceti privilegiati in genere. Considerata la resistenza da questi opposta alle rivendicazioni popolari anche elementari, tali luoghi non potevano che essere radicalmente contrapposti ed “altri” da quelli dei ceti dirigenti. Totalmente diversa la base di partenza di biblioteche gestite alla maniera di Idea Store dove, come si è detto, si vuole enfatizzare un ruolo “compensativo” delle differenze (e anche delle fratture) che la vita contemporanea crea tra individuo e individuo e tra i diversi momenti della vita di un individuo, esaltando la ricchezza sociale e l’apertura mentale dei terzi luoghi. All’osservatore attento non sfuggono però le affinità importanti e appare particolarmente degna di nota l’esperienza napoletana della Casa del Popolo di Ponticelli in cui si generarono in pochi anni interessanti fenomeni di contaminazione sociale e culturale che vedevano protagonisti, fianco a fianco, giovani e anziani, operai e intellettuali, con un grado di interazione sociale di cui si avverte oggi la mancanza. Da questo punto di vista sembra importante auspicare che le capacità di generare inclusione e innovazione sociale delle biblioteche, in particolare da parte delle biblioteche pubbliche di civica lettura ma non solo, si amplino e si rafforzino, in un processo di crescita delle buone pratiche che tenga presente e valorizzi anche le eredità culturali di un recente passato.
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