N.7 2022 - Biblioteche oggi | Ottobre 2022

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La digitalizzazione dei beni documentali

Paola Castellucci

Sapienza Università di Roma, paola.castellucci@uniroma1.it

Abstract

Recensione di Paola Castellucci a libro di Nicola Barbuto, La digitalizzazione dei beni documentali, Milano, Editrice Bibliografica, 2022, 214 p.

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Che fascino speciale si avverte nel lavoro di un artigiano: sa quali strumenti usare, per ogni situazione; e ha gesti precisi, sicuri e pieni di cura. Come vediamo in molti racconti di Ernest Hemingway, dove rende gloria a chi sa come infilare un’esca, con cosa, e quando lanciarla, e dove, e con quale speranza di buona pesca. Sia pesca d’altura o umile rammendo di reti. O ancora, sia liutaio o carpentiere, sia orafo o fabbro, non importa. La dignità dell’uomo e del suo lavoro si manifesta nell’intuito e nella consapevolezza, e insieme nel seguire una tradizione, magari rinnovandola. Questo conta. Sia un mastro cartaio a Fabriano, da secoli, o un digital curator, solo da pochi anni; sia un frate del Nome della rosa, o un giovane laureato in Digital Humanities che, in una stanza buia, con uno scanner planetario, calcolando, ruotando e calibrando, crea documenti digitali in pieno rispetto di un uso FAIR dei dati, e attenendosi alle guide tecniche FADGI. Chissà, magari un ingegnere elettronico con un dottorato a Genova, o coinvolto in uno spin off a Bari, oppure, con una laurea magistrale in filologia digitale a Bologna (si vedano a tal proposito le tabelle alle pagine 27-29, dove viene presentato lo stato dell’arte della formazione DH in Italia). I prodotti finali dei nuovi “copisti” non sono dunque, paradossalmente, delle copie. Non sono digital twins, ossia mere riproduzioni visuali (concetto opportunamente ribadito in più luoghi del libro). Non è certo passata invano una millenaria tradizione. Un lavoro “di copia”, fatto bene, è rispettoso e insieme creativo. È consapevole della responsabilità di trasmettere un canone dei beni documentali da salvare, e, al contempo, crea nuovi modelli e regole e valori. Tutto questo ci racconta con precisione, generosità e senso critico, Nicola Barbuti nel suo prezioso manuale, con Prefazione di Francesca Tomasi. Distingue, già nella disambiguazione del termine, le scelte di digitalizzazione operate dalle istituzioni al fine della salvaguardia e diffusione del patrimonio, dalle buone pratiche di digitalizzazione (il che presuppone una adeguata formazione) e si sofferma in particolare su questo secondo aspetto (Parte I. 1. La digitalizzazione: un chiarimento necessario; 2. La formazione delle risorse professionali). Nella Parte II l’autore offre poi una panoramica ampia sulle dotazioni tecnologiche necessarie (dagli scanner ai software, tenendo conto delle caratteristiche ottimali di un laboratorio di digitalizzazione e dei necessari controlli di qualità prima, durante e dopo l’esecuzione del lavoro). Prosegue nella Parte III, inserendo l’opera di digitalizzazione in un flusso e dunque rimarcando la necessità di attribuzione di metadati e verifica dei layout. E infine, nella Parte IV e nell’apparato di Appendici, contestualizza il discorso sia all’interno della più ampia questione dell’ambito disciplinare delle Digital Humanities che dei programmi internazionali di standardizzazione. Un lavoro, dunque, ampio, articolato, necessario. A chi è rivolto pertanto il libro, e come leggerlo? Innanzitutto è un manuale da tenere sempre accanto, come guida sicura, e da consultare in corso d’opera, ogni volta che si presentino dei problemi da risolvere, mentre si sta portando a termine un progetto di digitalizzazione, magari a seguito della vincita di un bando nazionale o europeo. Risulteranno preziose, allora, proprio le indicazioni relative agli errori da evitare, alle tecnologie consigliate, non consigliate o assolutamente da evitare (si vedano le questioni poste a p. 68 e ss.). Nella fase di scannerizzazione, ad esempio, si dovrà stare ben attenti a eccesso di luce, calore, polvere, o a una manipolazione non accorta che porterebbe a gravi rischi di danneggiamento dell’originale, tanto più se antico o raro. Ma è anche un libro “sapienziale” da studiare prima di intraprendere un progetto di digitalizzazione. La lettura di La digitalizzazione dei beni documentali illustra infatti, come promesso dal sottotitolo, Metodi, tecniche, buone prassi: offre argomenti per raggiungere la consapevolezza necessaria per affrontare il lavoro di copisti digitali e invita a prendere diretta visione degli originali e a consolidare le competenze – nel caso del libro antico, ad esempio – riguardo le filigrane, i tipi di carta e formati, le legature, i generi. Competenze bibliologiche si armonizzeranno così, naturalmente, con quelle di digital curator in una nuova cultura del libro, antico, moderno e prossimo venturo.

C’è infatti anche un terzo modo di leggere questo libro: con senso di durata. Ossia come un testo che, nei fatti, partendo da questioni che potrebbero superficialmente apparire solo pratiche, porta invece a far emergere le principali questioni teoriche. Paolo Bisogno, più di quarant’anni fa diceva, utilizzando un chiasmo, che occorre sapere per fare, e fare per sapere. E, ancora – continuando nella tradizione della Documentazione in cui questo lavoro si inscrive – più di settant’anni fa Suzanne Briet poneva questioni adesso attuali più che mai e messe chiaramente in luce da Nicola Barbuti: cos’è un documento? Cos’è un documento scannerizzato, digitalizzato, o meglio, digitalmente creato? È solo una copia? Una copia digitale che magari rende strumentalmente possibile l’uso anche se il materiale è fragile, raro o inaccessibile, per distanza geografica o, recentemente, a causa di restrizioni a seguito dell’emergenza sanitaria (il riferimento appare sin dalle prime righe della Premessa). No, dice con voce sicura Nicola Barbuti. No, occorre porsi oltre la concezione di una fruizione prevalentemente visuale. Digitalizzare significa semmai dar vita a una vera e propria opera di creazione, di rigenerazione e ricontestualizzazione delle fonti. Come avvenne per il libro a stampa che certo non rappresentò una semplice copia del codice. Semmai una “entità analogica” entra in relazione e viene reinterpretata in una “entità digitale”:

Le entità tangibili e intangibili create dall’uomo, siano esse semplici o complesse, diventano patrimonio culturale, cultural heritage (CH), se si valorizzano diacronicamente quali attivatori d’interesse, cioè se pur variando forme e funzioni nello spazio e nel tempo, sedimentano, trasferiscono e narrano a molteplici generazioni le informazioni sul loro ciclo di vita e sull’interazione delle comunità in epoche diverse, generando impatto emotivo e diventando in tal modo fonti sostenibili e permanenti di memoria e conoscenza. […] Dunque chi crea entità digitali dalla scansione di entità analogiche deve considerarle in prospettiva futura come potenziale “patrimonio culturale digitale”, digital cultural heritage (DCH), valorizzabile diacronicamente. (p. 177)

È pertanto implicita una quarta possibile modalità di lettura: dopo. Dopo di noi, dopo il destinatario ideale di questo libro, contemporaneo al momento della pubblicazione. Rimarrà come una testimonianza in tempo reale di un’epoca di copisti digitali. Sarà possibile leggerlo come documento delle nostre attuali scelte rispetto alla valorizzazione del canone; darà conto delle competenze acquisite, delle varie fucine attive, e delle tecnologie ora disponibili e che magari diventeranno presto obsolete. Chi leggerà in futuro questo libro troverà una cronaca appassionata di questa nostra epoca, delle speranze, della grande cura, della consapevolezza e dell’enorme pazienza, delle possibilità, della consapevolezza critica e “dell’entità dello sforzo” (p.110)