N.5 2022 - Biblioteche oggi | Luglio-Agosto 2022

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Il mondo “sconosciuto” delle marche tipografiche

Giuseppina Zappella

zappellag@gmail.com

Abstract

La ricerca legata ai quattro volumi finora pubblicati (il quinto è in preparazione) dell'opera di Giuseppina Zappella Le marche dei tipografi e degli editori europei (sec.XV-XIX) mostra come le marche costituiscano uno strumento sconosciuto ai più per conoscere eventi, dettagli, imprevisti e sorprendenti curiosità di ogni genere relativi al mondo dei tipografi antichi (esemplificazione con riproduzione di alcuni dei casi più interessanti). Segue l'indicazione dei criteri metodologici seguiti nel lavoro e dei risultati più importanti raggiunti, tra cui soprattutto l'elevato numero di marchi trattati (oltre 5.000), molti dei quali non censiti (circa 800).

English abstract

The research connected with the four volumes published so far (the fifth is in preparation) of Giuseppina Zappella’s work Le marche dei tipografi e degli editori europei (sec.XV-XIX) shows how the marche constitute a tool that is unknown to most people for getting to know events, details, unexpected and surprising curiosities of all kinds relating to the world of the ancient typographers (exemplification with reproduction of some of the most interesting cases). This is followed by an indication of the methodological criteria followed in the work and the most important results achieved, including above all the large number of marks discussed (over 5,000), many of which have not been surveyed (around 800).

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Un patrimonio comune della civiltà europea

Il titolo di questo contributo potrà sicuramente suscitare qualche perplessità. La bibliografia sulle marche tipografiche, infatti, è ricca di opere specifiche e repertori, ai quali negli ultimi anni si sono aggiunti anche archivi informatizzati e nuove banche dati. Si tratta quindi di un argomento tutt’altro che “sconosciuto” e trattato in numerose pubblicazioni che privilegiano di consueto un tipo di approccio fondamentalmente tassonomico e classificatorio in cui la marca è considerata soprattutto un segno di identificazione e di titolarità.

Le ricerche connesse alla mia ultima opera, Le marche dei tipografi e degli editori europei (sec. XV-XIX), pubblicata da Editrice Bibliografica a partire dal 2016 (già disponibili i primi quattro volumi, il quinto in preparazione), hanno vieppiù confermato come lo studio delle marche costituisca un valido strumento per la conoscenza delle antiche tipografie europee (identificazione di tipografi e società editoriali, passaggio di matrici, diverse fasi gestionali di una medesima azienda, datazione e attribuzione di edizioni non sottoscritte, riconoscimento di contraffazioni ecc.). Ma non solo. In parallelo una più ampia indagine interdisciplinare può mostrare come questi piccoli, ma straordinariamente interessanti, documenti visivi costituiscano in effetti uno strumento prezioso, ai più sconosciuto, per conoscere accadimenti, particolari, curiosità inaspettate e sorprendenti di ogni tipo: un evento astronomico eccezionale, un simbolo religioso, un lutto familiare, l’incendio della casa, una teoria scientifica, una festa popolare, cartoline d’epoca con il ricordo di monumenti ormai perduti, riproduzione di reperti archeologici, rappresentazione di animali esotici, ricostruzione di un’officina e ritratti dei tipografi, perfino struttura e forma dei più antichi caratteri tipografici. 

Un importante motivo che rende ancor più interessanti queste fonti iconografiche – rispetto ad altre archivistiche e documentarie – è la loro autenticità, in quanto ascrivibili in prima persona al tipografo, o comunque rientranti nella sua sfera affettiva, nel suo ambito di vita e di lavoro, insomma nel suo microcosmo. Perciò in qualche modo, esse ci raccontano molto di più rispetto alle fonti tradizionali, proprio attraverso le scelte iconografiche degli artefici del libro, dalle più scontate (figure parlanti) a quelle più sottilmente intellettualistiche (allusive, emblematiche e allegoriche), che riflettono il loro mondo reale e ideale. 

L’esemplificazione è vastissima, ho selezionato solo qualche caso più significativo dalle oltre 5.000 marche discusse nei primi quattro volumi – circa un quarto del numero totale previsto a completamento dell’opera – ma che già così costituiscono una delle raccolte più considerevoli attualmente esistenti nel pur ricco panorama bibliografico europeo.

Vicende personali

Tra le più originali e interessanti sono sicuramente le marche che si ispirano alla vita del tipografo e alle sue vicende personali, con sottintesi meno espliciti e polisemie figurative suggerite da eventi biografici. E qui veramente si aprono scenari inconsueti e il tipografo affida alla marca memorie, emozioni, sentimenti affatto personali. Non si tratta più del semplice riferimento omofono o simbolico o allegorico di una figura parlante, ma di figure non convenzionali che riflettono eventi significativi e importanti della sua vita. 

Il caso più commovente è quello di Geoffroy Tory, che adotta come marca un vaso rotto, diventato anche la sua insegna commerciale (“ad insigne vasis effracti”, “Au pot cassé”), a simboleggiare la prematura fine della figlia Agnès, scomparsa a soli dieci anni (2869-2879). Il vaso rotto (la giovane vita stroncata) è associato a figure caricate di significati simbolici in relazione all’evento luttuoso: il trapano (toret figura parlante di Tory) e il libro chiuso da catene e lucchetto (forse a simboleggiare gli studi letterari della figlia). Altre volte il vaso è ricolmo di fiori a indicare probabilmente gioventù e bellezza della fanciulla. Tanti i riferimenti e le citazioni erudite (la figura deriva da una xilografia del celebre Polifilo aldino del 1499), ma certamente colpisce più di tutte la piccola figura alata che compare in alto a destra dentro una nuvola raggiata a rappresentare l’anima della bambina che vola al cielo. (Fig.1)

Prende spunto da una vicenda personale anche la marca di Filippo Pincio raffigurante S. Antonio abate. La figura ha un valore allusivo e augurale, S. Antonio, infatti, è protettore contro il fuoco e il tipografo, dopo aver subìto nel 1494 un incendio della sua casa, lo elesse a proprio santo protettore, come conferma il motto “Defende nos beate pater Antoni” (2882-2884). E colpisce qui anche il particolare studio iconografico nella realizzazione della figura: il maiale, tradizionale attributo del santo, presenta una cinghiatura bianca che ha una valenza non solo simbolica e sacrale, ma anche medica con riferimento alla zona più colpita (il tronco) nella malattia (volgarmente detta fuoco di S. Antonio) dell’herpes, detto zoster che in greco significa proprio cintura. 

Figura 1

Un evento astronomico eccezionale

La marca di Robert Dexter raffigura una mano destra (figura parlante del cognome) che punta l’indice verso una grande stella a otto punte (1960-1961). Anche in questo caso non si tratta della semplice traduzione visiva della parola e un’indagine più approfondita mi ha permesso di fare una scoperta interessante. Infatti la grande stella luminosa che domina la scena non raffigura semplicemente il passaggio di una cometa, come si è finora ipotizzato, ma ci ha tramandato il ricordo di un evento straordinario: l’improvvisa comparsa di un supernova nella costellazione di Cassiopea, osservata per la prima volta da Tycho Brahe nel 1572. Era visibile a occhio nudo, come una “stella” molto strana, più brillante anche di Venere, forse la stessa alla quale si accenna nella prima scena del primo atto dell’Amleto di Shakespeare. Si trattò di un fenomeno straordinario che durò per ben sedici mesi e colpì molto la fantasia e l’attenzione dei contemporanei: del poeta, che all’epoca aveva solo otto anni, come del tipografo che l’associò abilmente alla sua figura parlante. (Fig.2)

Figura 2

La fede religiosa

Un altro aspetto molto interessante è il rapporto della marca con il mondo e la società contemporanea anche in relazione agli orientamenti categoriali e iconografici che contraddistinguono la cultura visiva dell’epoca nei vari paesi.

L’ideologia della Riforma è molto presente nelle marche nordeuropee con immagini che a ragione potrebbero essere considerate un manifesto del programma dottrinario riformato da parte di tipografi che affidarono spesso alla loro marca uno specifico messaggio religioso. 

L’angelo sterminatore dell’Apocalisse è un’iconografia molto diffusa nei Paesi Bassi (Antwerpen e Leiden) nei sec. XVI-XVII dove sono frequenti reimpieghi, copie e imitazioni all’insegna dell’angelo d’oro o dell’angelo coronato (3287-3325). Molti tipografi che usarono questa marca erano attivi a Leiden, città-rifugio per molti esuli che vi continuarono a stampare falsificando la loro vera identità. 

Discorso analogo per l’allegoria delle tre virtù teologali, adottata da Charles Savreux e dai suoi numerosi continuatori e imitatori (4021-4060), rappresentata dall’unione dei rispettivi simboli (ancora, mani che si stringono, cuore ardente) oppure da un’unica figura con tutti gli attributi identificativi. Famoso tipografo giansenista, Savreux pubblica gli scritti dei più famosi esponenti del movimento (Antoine Arnauld, Blaise Pascal, Pierre Nicole) e introduce per primo come marca iconografie e motti, ripresi poi dai successori. Quando i giansenisti furono perseguitati dall’amministrazione francese come un movimento non autorizzato con divieto di stampare le loro opere, Savreux e i suoi seguaci furono più volte imprigionati e per questo sacrificio furono considerati veri martiri. Il loro marchio divenne così un segno identitario del nuovo insegnamento e un simbolo giansenista al punto da diventare logo del movimento, riprodotto anche in manufatti artistici come i copricamini monoblocco prodotti nell’Abbazia di Notre Dame di Orval dove avevano trovato rifugio gli esponenti più illustri perseguitati in Francia. 

In controtendenza i tipografi cattolici oppongono immagini sacre tradizionali, anche rivisitate, come il tipo iconografico del bambino doloroso con la croce (2979- 2980), che si diffonde soprattutto dal sec. XVI in poi nell’arte della Controriforma, o le figure della devozio popolare come il cuore di Gesù (2983-2992), o quelle dei grandi riformatori spirituali, protagonisti indiscussi della Controriforma, in primis S. Ignazio di Loyola (3277-3278).

In questo ambito significativa appare l’evoluzione e la modifica della marca in relazione alla vicenda personale dello stampatore. Un esempio molto interessante è l’ultima iconografia adottata da Gabriele Giolito, emblematica del mutamento profondo di linea editoriale dell’azienda che si definisce dopo il 1565, in coincidenza con la chiusura del Concilio di Trento. Così nelle marche presenti in edizioni dei testi scolastici del teatino Giovan Paolo Montorfano, molto diffusi nelle scuole di catechismo promosse dalla Controriforma, la celebre fenice giolitina diventa figura secondaria rispetto a quella di una grande croce che, elevata su un monte di tre cime, è anche lo stemma dei chierici regolari teatini, l’ordine al quale appunto apparteneva il Montorfano: singolare ibridazione tra marca dello stampatore, emblema autorale e simbolo religioso (4731-4736). (Fig.3) Particolare interessante la stessa iconografia viene adottata da altri tipografi, in edizioni dello stesso Montorfano, forse condivise con l’uso dello stesso materiale tipografico e personalizzate da ognuno con il proprio marchio caratterizzante (4737-4740). Ancora una volta la marca suggerisce elementi importanti, che pure mi pare siano sfuggiti finora agli studiosi, per la conoscenza dei procedimenti e delle strategie editoriali in uso nelle tipografie antiche. 

Cartoline d’epoca

Una menzione importante meritano le vedute di città, spesso un omaggio del tipografo a luoghi familiari, alla città di origine o sede della propria attività. L’esemplificazione è particolarmente interessante perché in qualche caso ci conserva memoria dell’aspetto antico di città e monumenti, alcuni non più esistenti: 

  • Una straordinaria cartolina di Parigi, preziosa testimonianza storica dell’aspetto della città nel 1658 con monumenti oggi non più esistenti o modificati nel tempo (la guglia originale del sec. XIII della cattedrale di Notre Dame, distrutta nel 1792 e rimpiazzata dalla più alta Fléche ottocentesca di Viollet-le-Duc, crollata nell’incendio del 15 aprile 2019; il palazzo delle Tuileries, il Pont neuf, la torre de La Samaritai- ne), in alto al centro, in ghirlanda tenuta da angeli, S. Dionigi decollato seconda figura parlante dell’insegna “Sub signis S. Dionysii & civitatis Parisiensis (3268). (Fig. 4) 
  • Una realistica visione della città di Lyon interessante sotto molti aspetti, non solo perché restituisce un’immagine della città com’era alla fine del sec. XVI dalla Croix Rousse con di fronte la collina di Fourvière (prima della costruzione dell’omonima basilica ottocentesca) e in primo piano la cinta muraria con i bastioni (sec. XVI, demoliti dopo l’assedio del 1793 e ricostruiti nel 1834), ma anche per la vista da Nord (in basso) e non da Sud (come nelle cartine moderne) e di conseguenza la posizione invertita della Saône e del Rodano con l’immagine ruotata di 180 gradi come nelle incisioni secentesche (5139). 
  • Rotterdam con la Porta Vecchia ancora in piedi, testimonianza dell’antico aspetto della città, profondamente cambiato soprattutto dopo il disastroso bombardamento del 14 maggio 1940 (3558); 
  • Gesù (parlante dell’insegna Al segno del Salvatore”) abbigliato anacronisticamente con allacciatura ad alamari secondo la moda del Seicento, accanto al fiume Sebeto, appoggiato a un otre dal quale scorre l’acqua, che gli porge una tazza ricolma, la veduta sullo sfondo – con il tipico profilo della città e l’emergenza architettonica di castel S. Elmo – si dilata significativamente fino a comprendere anche la torre S. Vincenzo, all’epoca ancora esistente, abbattuta definitivamente nel sec. XVIII per far spazio al prolungamento della nuova darsena (3070). (Fig. 5)
  • Una riproduzione della chiesa palladiana del Santissimo Redentore a Venezia come si presentava agli inizi del sec. XVII senza le statue nelle nicchie degli intercolumni e con il Redentore sulla sommità della facciata (non sulla cupola come si vede oggi) (2964 bis).

Figura 4

Figura 5

L’esempio forse più interessante riguarda ancora Venezia ed è offerto dalle marche di Giuseppe Bettinelli, originali creazioni proposte in più varianti, in alcune delle quali si evidenziano tipici edifici della Piazza S. Marco che fanno da sfondo alla figura del vecchio sdraiato, personificazione del Secolo delle lettere, insegna parlante della tipografia (4516, 4522). La marca più originale però aggiunge sullo sfondo una costruzione semicircolare ad arcate, che non ha nessun riferimento specifico a monumenti veneziani (4523). Dopo accurate ricerche ho potuto accertare che vi è raffigurata una delle tipiche strutture provvisorie ellittiche in legno che si apparecchiavano per la vendita delle merci più svariate in occasione dell’annuale “fiera della Sensa” allestita in piazza San Marco otto giorni prima dell’Ascensione per poi proseguire per i quindici giorni successivi. L’ipotesi è confermata dal confronto con un dipinto di Francesco Guardi (circa 1776-77) che raffigura una veduta della piazza in cui è ben visibile il prospetto arcuato dell’anello esterno delle botteghe, molto somigliante a quello che si osserva nella marca. Bettinelli ha voluto così proporre una veduta della piazza S. Marco da un’angolazione diversa dalla precedente in cui il vecchio è raffigurato nella stessa posizione ma con le spalle alle tipiche costruzioni. (Fig. 6) 

Figura 6

Il fascino dell’archeologia

L’interesse dei tipografi per il contesto culturale di appartenenza e per ogni novità anche in campo artistico è comprovata da quelle immagini che riproducono reperti ed opere che potevano ammirare nelle loro città. Tra queste le marche dell’omonima tipografia raffiguranti il celebre gruppo scultoreo in marmo del Laocoonte scoperto nel 1506 sul colle Oppio, oggi nei Musei Vaticani (3649-3650) (Fig. 7) e quelle della tipografia “All’insegna di Apollo” copiate da reperti archeologici (gemme, monete) provenienti dal Museo Mediceo di Firenze, città sede della tipografia (3478-3480). Queste marche furono scelte probabilmente anche in relazione al contenuto delle pubblicazioni e la duplice allusione conferma la cura e l’attenzione nel decidere la tipologia della figura simbolo della tipografia. 

Suggestive si propongono anche le citazioni classiche di monumenti ed elementi architettonici che gli antichi tipografi potevano facilmente osservare nelle loro città e nel paesaggio circostante o anche in riproduzioni: rovine di acquedotti, obelischi, piramidi, colonne mozze. Tra questi viene persino riprodotto con cura un tempio antico a tholos (4531-4533), probabilmente quello di Vesta a Roma, che presenta evidenti analogie con vedute del monumento molto diffuse tra Sette e Otto- cento, quando la capitale era una delle mete preferite del Grand Tour e immagini simili circolavano anche tra letterati e uomini di cultura. 

Lo scienziato-tipografo

Sono immagini singolari e fuori del comune in quanto marche d’autore, specchio degli interessi scientifici di illustri tipografi-astronomi che impiantarono una tipografia a uso esclusivo, annessa all’osservatorio dove svolgevano le ricerche. 

L’astronomo polacco Johannes Hevelius, considerato il fondatore della topografia lunare e noto anche per le sue osservazioni e scoperte di comete, costellazioni e altri corpi celesti, nel 1641 costruì un osservatorio (fornito di un telescopio senza tubo) al quale era annessa una tipografia nella quale stampò molte delle sue opere, fino all’incendio disastroso del 1679. La sua marca distintiva è una grande composizione allusiva alla sua attività scientifica. La sfera armillare, gli astronomi intenti a osservare il cielo con un telescopio o a effettuare misurazioni con il quadrante azimutale di Peter Crüger (perfezionato dallo stesso Hevelius, suo discepolo), sullo sfondo la veduta marina di Danzica (sua città natale) con velieri e edifici fortificati, in alto la volta celeste attraversata dalla fascia dello zodiaco con le stelle e la luna calante: tutto rimanda alle sue ricerche in campo astronomico e al legame profondo con le sue origini. Persino la cornice cimata da testa d’angelo con una stella sulla fronte, ai lati una gru con un sasso nella zampa (simbolo di vigilanza) e un’aquila (simbolo di acutezza visiva), davanti in basso una candela accesa, una civetta e una clessidra stanno a simboleggiare il tempo notturno nel quale gli astronomi fanno le loro osservazioni, mentre il motto “Enarrant Dei gloriam” (Salmo 19, 2) fa riferimento alla bellezza del cielo che celebra la gloria di Dio (2889 bis 1) (Fig. 8).
Più problematica e carica di significati simbolici è la marca dell’astronomo danese Tycho Brahe, che analogamente a Hevelius per le sole pubblicazioni del suo osservatorio di Uraniborg, dotato di ogni sorta di attrezzature, disponeva di un torchio da stampa e di una cartiera. La sua singolarissima marca si trova nella stessa edizione (De mundi aetherei recentioribus phaenomenis, 1603) in due diverse esecuzioni, una nel frontespizio, l’altra nel colophon. La particolarità in questo caso è che le due figurazioni non sono semplici varianti, ma si integrano l’una con l’altra (2889 bis 2-3). Nella prima un uomo sdraiato con lo sguardo rivolto verso l’alto tiene con la mano destra un compasso posato su un mappamondo e in basso un bambino appare in posizione analoga (motto “Suspiciendo despicio”). La seconda, di dimensioni maggiori, mostra invece l’uomo con lo sguardo rivolto in basso, il serpente accollato al suo braccio destro, mentre il bambino in basso solleva la cortina su cui è sdraiato l’uomo e guarda incuriosito all’interno, dove si vedono vari strumenti e alambicchi. Anche il motto è invertito “Despiciendo suspicio”. 

Per l’interpretazione delle due scene i due motti sono la chiave fondamentale: il primo “Suspiciendo despicio” (Guardando verso l’alto, vedo anche in basso) e il secondo all’opposto “Despiciendo suspicio” (Guardando verso il basso, vedo anche in alto). L’integrazione dei motti e i particolari delle scene, infatti, rispecchiano la visione del mondo di Tycho e vogliono rappresentare l’armonia e la complementarità tra cielo e terra, tra macrocosmo e microcosmo. Tycho era un sostenitore convinto del dualismo analogico tra cielo e terra e della armonica unità di tutto l’universo, perciò aveva escogitato un terzo sistema cosmologico, contrapposto sia a quello tolemaico, sia a quello copernicano, entrambi da lui ricusati. Una visione del mondo affatto personale che trova espressione in questa originalissima marca bivalente, specchio del suo pensiero e del suo orientamento scientifico. (Fig. 9-10) 

Figura 8

Figura 9

Figura 10

Un fenomeno interessante è la capacità di presentare in modo diverso un medesimo tipo figurativo, attraverso le piccole varianti con cui ogni tipografo si costruisce una marca propria nel segno della continuità, ma sempre con un’originale reinterpretazione del logo aziendale.

I Moretus avevano una devozione particolare per i re Magi e i loro nomi ricorrevano frequentemente nella famiglia. Jean I nel 1573 prese come emblema un re Moro (parlante del cognome) in viaggio verso Betlemme, guidato dalla stella, successivamente fece incidere da Gerard Jansen van Kempen una marca raffigurante i tre Magi, che però non usò mai (5039 bis). Il figlio Balthasar (e dopo di lui gli omonimi Balthazar II e IV) scelsero invece come simbolo identitario la stella, allusiva alla cometa dei Magi e al nome Balthasar, che in molte varianti viene aggiunta al compasso plantiniano (5051- 5054, 5056-5057, 5062, 5064-5071, 5073, 5077, 5081, 5087, 5097, 5098, 5117-5123). Dunque un emblema, introdotto proprio dal nipote di Christophe Plantin, probabilmente con riferimento ai nomi Balthasar, Melchior e Gaspar molto comuni nella famiglia Moretus, soggetto che l’amico Peter Paul Rubens riprese nei dipinti dei re Magi realizzati appositamente per lui. Perciò la stella che Balthazar introduce nelle sue marche, dimostra non solo la volontà di “personalizzare” la sua marca differenziandola da quella del celebre nonno e dall’emblema paterno, ma soprattutto lo studio nel calibrare ogni particolare della composizione figurativa con curiose incursioni nella storia della famiglia. 

L’officina tipografica e i caratteri

La riproduzione dell’officina tipografica è molto frequente nelle marche degli stampatori antichi (a partire da quella famosissima di Ascensius Badius) e ci offre indicazioni preziose sul suo funzionamento.

Tra quelle già discusse la 3259 mostra un interno di tipografia dove si vede sulla sinistra il torcoliere che con una mano abbassa la vite del torchio (del quale sono ben visibili i due montanti verticali) per imprimere la forma e tiene la sinistra appoggiata alla manovella per spostare in avanti il carro e procedere così alla stampa della seconda metà della forma, sulla destra su un mobiletto si vedono due mazzi per inchiostrare. In alto a destra, sostenuto da nuvola, appare S. Tommaso (figura parlante della tipografia) benedicente con l’abito domenicano, con aureola raggiata e il sole sul petto. (Fig. 11) Una tipografia più moderna è invece quella che si osserva nella 2085 con tutte le apparecchiature e gli strumenti di lavoro: sulla destra un torchio Stanhope, la cassetta del compositore, una forma a terra, al centro su un tavolo la forma di un 4°, davanti libri sparsi, aperti e chiusi, a sinistra un calamaio con le penne, sullo sfondo una libreria. 

Un’altra particolarità, che si riscontra solo nelle marche dei primi secoli, è costituita dalle piccole aperture o fori che si osservano nelle parti terminali delle aste e potrebbero far pensare a quelli che servivano per far passare lo spago con il quale i caratteri venivano legati per mantenerli allineati prima di essere posti nella forma, suggerendo anche altre particolarità di fabbricazione dei caratteri, come il taglio a bietta delle estremità (26, 45, 53, 125, 157, 180, 310-316). Si tratta dunque di un’interessante e poco conosciuta documentazione della più antica tecnica impressoria, infatti tale caratteristica si riscontra solo nei caratteri dei prototipografi e la testimonianza delle marche è molto importante per la conoscenza di alcuni problemi relativi al procedimento tipografico nel periodo più antico. 

Figura 11

Il ritratto del tipografo

I tipografi hanno tradito la loro immagine non solo in illustrazioni librarie, ma anche nelle arti maggiori,  eppure la presenza del ritratto nella marca, cioè nel contrassegno più originale, destinato a qualificare in maniera caratterizzante ed esclusiva i loro prodotti, assume una valenza simbolica e iconografica affatto peculiare. Infatti questi piccoli ritratti, talvolta solo personaggi secondari inseriti nel campo figurativo, sono tra le incisioni librarie più interessanti e svolgono nei con- fronti del lettore un’importante funzione paratestuale, informativa e pubblicitaria

Una delle tipologie più comuni è il ritratto devozionale in cui il tipografo è presentato inginocchiato davanti a un santo o in presenza di una figura sacra.  Così vediamo rappresentati Laurent Hyllaire davanti ai santi parlanti del nome e del cognome, Lorenzo e Ilario (2288- 2289); Daniele Zanetti in atto di chiedere la protezione del santo parlante del suo nome (2273-2274); Arnao Guillén de Brocar davanti agli arma Christi (2276-2280); Nicolas Basse in basso inginocchiato e Dio che lo guarda dall’alto con una duplice allusione al suo cognome (in francese bas = basso, atteggiamento connesso all’umiltà) e alla sua persona (2780). 

Come esempio di ritratto fisionomico appare molto significativa la marca di Hero Fuchs nella quale due personaggi con cappello a larga tesa e cappotto con bavero di pelliccia (tipico dei mercanti dell’epoca), probabilmente lo stesso tipografo e l’editore Peter Quentell, tengono lo scudo con il marchio commerciale, sostenuto da due volpi, figura parlante del tipografo (fuchs = volpe) (2280-2281). (Fig. 12) 

Altre tipologie assumono un carattere più simbolico ed emblematico.
In una variante più elaborata della marca di Jehan Barbé un uomo barbuto solleva la corona di alloro in alto, all’interno del campo figurativo il motto parlante del cognome “Nec barbae nec barbato”. Il particolare più interessante è però sicuramente lo scenario di fondo, un paesaggio con monumenti antichi e rovine in cui il tipografo, rappresentato dall’uomo con barba, pare abbia voluto proporre il suo ritratto come architetto secondo una moda in uso presso gli umanisti francesi del Rinascimento (1940). 

Figura 12

Figura 13

Le composizioni simboliche sono molto comuni nelle marche, ma a volte sono difficili da decrittare per la presenza di figure e personaggi di non facile identificazione come nel caso della emblematica marca del tipografo inglese John Day, uno dei più conosciuti e prolifici tipografi inglesi del sec. XVI. Raffigura un sarcofago classico finemente decorato, sul quale è disteso, appoggiato su una sorta di materassino, uno scheletro nel quale affonda le sue radici un albero frondoso. Sulla destra sono due uomini: il primo, caratterizzato da una barba lunga e fluente, fa cenno con una mano allo scheletro e si volge verso l’altro, riccamente abbigliato, che analogamente punta lo sguardo in basso. Dalla bocca del primo esce un cartiglio con le parole “Etsi mors in dies accelerat”, che si completano con quelle dell’altro cartiglio simmetrico che si avvolge intorno all’albero “Post funera virtus vivet tamen” (3041). Le allusioni più evidenti contenute nella scena sono due: 

  • La parola dies del motto è parlante del cognome Day;
  • L’albero che nasce dallo scheletro è l’albero della vita, che nasce dalla morte ed allude all’insegna della tipografia “at the sign of Resurrection”. 

A ben considerare molteplici sono i riferimenti contenuti nella marca ma conta qui soprattutto evidenziare come l’uomo dalla lunga barba sia proprio il ritratto del tipografo (il primo forse sicuramente autentico di un tipografo inglese), molto simile a quello che si trova in alcune sue edizioni contraddistinto dalla relativa didascalia. Così si completa il significato emblematico della marca attraverso il coinvolgimento diretto del tipografo stesso, che partecipa in prima persona alla scena e ne fornisce la chiave per l’interpretazione, aggiungendo un ulteriore riferimento a quelli sopra indicati in un gioco di sottintesi e allusioni: una metafora visiva in cui il sistema semantico e quello concettuale interagiscono nella creazione di un’immagine carica di valori simbolici. (Fig. 13) 

Il bestiario dei tipografi

Molto comune la presenza di animali come supporti o soggetto principale della marca, che a volte presenta interessanti curiosità.

La marca di Jean de Coblencz (datata 1509) raffigura un asino con il mantello a strisce (“rigato” come nella denominazione dell’insegna « À l’Âne rayé ») e costituisce una delle prime raffigurazioni della zebra. L’animale al tempo era pressoché sconosciuto ed è significativa la circostanza che non venga discusso e riprodotto nel sec. XVI neanche nei più importanti trattati di zoologia come la Historia animalium di Conrad Gesner, dove comparirà come “zebra indica” solo in edizioni tardosecentesche. Per una raffigurazione dell’animale bisognerà invece attendere gli inizi del nuovo secolo con il De quadrupedibus solidipedibus di Ulisse Aldrovandi (Bologna 1616, p. 417). 

Nella marca in questione la raffigurazione non è realistica, l’animale ha piuttosto l’aspetto di un asino ma presenta la inconfondibile caratteristica della striatura zebrata. In effetti ai tempi del tipografo una zebra venne portata per la prima volta in Francia ed esposta nell’annuale fiera parigina di Saint-Germain dove l’asne rayé (come venne allora chiamato) suscitò grande curiosità al punto da divenire la denominazione della maison, tra la rue de la Vieille-Bouderie et il ponte Saint-Michel, dove svolgeva la sua attività Jean de Coblencz, che la scelse anche per la sua insegna. (Fig. 14) 

Altrettanto curiosa la vicenda iconografica dell’elefante nella cui raffigurazione si oscilla tra una riproduzione realistica e una poco verosimile per la quale esistevano racconti fantasiosi nonostante che già nell’Occidente medievale re e principi ne possedessero esemplari.

Nelle marche di François Regnault la raffigurazione dell’animale mostra molti particolari innaturali: le zanne sono corte, ricurve e volte in alto (non lunghe e sporgenti in avanti come dovrebbero essere), le narici al posto sbagliato, nella parte superiore della proboscide (invece si trovano in basso, nella parte terminante all’estremità della tromba in un’appendice digitiforme), i piedi mancano di dita e unghie. Ma la peculiarità più rilevante riguarda le zampe che non mostrano articolazioni perché – secondo una falsa credenza – si riteneva che l’elefante non avesse giunture alle ginocchia e quindi costretto a dormire appoggiato a un albero, che veniva abbattuto dai cacciatori per catturare l’animale, incapace di rialzarsi una volta caduto a terra (5308-5313). (Fig. 15) 

Figura 14

Figura 15

All’opposto l’elefante raffigurato nella marca del 1490 dell’anonimo tipografo di Gouda (detto dello Chevalier délibéré) cammina piegando la zampa anteriore sinistra e la credenza che fosse privo di giunture è categoricamente smentita anche da Gesner a conferma che al tempo l’animale era ben conosciuto e osservato dal vero in molte città. 

La più singolare però è certamente la marca di Giovanni Battista Pederzano che prende a modello la figura di Regnault che riproduce invertita ma aggiungendo il particolare innaturale degli artigli alle zampe dell’animale per adattarla alla traduzione figurata delle due parti del suo cognome zanne ai piedi (2347). (Fig. 16) 

La breve esemplificazione ci induce a una riflessione conclusiva sulle marche tipografiche europee, catalizzatori ideali di uno straordinario patrimonio culturale, come momento di invenzione e costruzione di immagini identitarie. Sarebbe, credo, veramente difficile trovare marchi commerciali, che pur nell’omologazione iconografica propria del genere, siano così carichi di riferimenti e di allusioni con originali interpretazioni ed elaborazioni personali. L’immagine racconta, informa e descrive ma nello stesso tempo sottende qualcosa di diverso con riferimento a un archetipo ogni volta nuovo e originale: l’uomo che ne è il creatore e il testimone esclusivo.

Figura 16

  • In questo contesto non c’è spazio per descrizioni improvvisate e generiche, ogni figura ha la sua storia e la sua valenza simbolica, di conseguenza lo studioso deve attentamente consultare e comparare tutte le fonti bibliografiche e documentarie, spesso di non facile lettura e interpretazione, un viatico faticoso ma necessario per chi voglia veramente addentrarsi nella conoscenza del libro antico. Perciò queste mie osservazioni non devono essere interpretate come una suggestiva “divagazione” sull’argomento, libera da quei requisiti di rigore e coerenza metodologica che considero invece prioritari in questo genere di repertoriazione. A dimostrazione espongo i principali criteri seguiti nella mia opera: 
  • Nella descrizione una speciale attenzione è stata rivolta alla proprietà lessicale, non solo con riferimento al linguaggio araldico e al dizionario iconografico ma anche all’uso di termini propri degli specifici ambiti disciplinari. 
  • I motti vengono commentati, integrati nel contesto originario e corredati della traduzione italiana se in greco, in latino o in altre lingue meno conosciute. 
  • La spiegazione delle immagini tiene conto di ogni particolare, per quanto secondario, della figurazione con analitica descrizione anche degli elementi ornamentali e della cornice. Così assumono rilevanza anche alcuni aspetti (positure, atteggiamenti, attributi, espressioni, perfino ambientazione) di solito non considerati nelle comuni descrizioni repertoriali. 
  • Di fondamentale importanza si è rivelata la ricerca delle fonti iconografiche e il confronto con testi e documenti visivi (trattati di iconologia e di emblematica, libri di imprese e di geroglifici, opere di va- rio genere) che potessero agevolare l’interpretazione delle varie figure. A tale scopo spesso la marca è accompagnata dalla descrizione e dalla riproduzione di illustrazioni tratte dalle opere più significative così da ricostruire la storia e l’evoluzione di ogni singola immagine nelle sue derivazioni più o meno complesse e articolate. 
  • Nella classificazione delle marche di una stessa tipografia si è privilegiato l’ordinamento tipologico, combinato con quello cronologico, al fine di ricostruire, per quanto possibile, l’evoluzione di ogni segno nell’ambito della singola azienda e le sue vicende nel passaggio ad altri tipografi. Contestualmente si indicano estremi cronologici e notizie sull’attività dei diversi titolari. 
  • In questo ambito assume un’importanza notevole la repertoriazione delle varianti per le quali la capillare ricerca di tutte le occorrenze e l’esame accuratissimo di ogni particolare ha prodotto risultati interessanti sotto diversi aspetti: l’individuazione in esemplari (puntualmente citati) di marche non censite, l’integrazione di contributi specifici su singole iconografie, il censimento, per quanto possibile completo, di varianti molto diffuse e la correzione di errori repertoriali imputabili alla confusione tra stati usurati e reincisioni. In generale si è ritenuto opportuno distinguere, oltre quelle contraddistinte da piccole diversità figurative, anche le varianti con e senza motto oppure con diversa composizione tipografica (di solito omologate nella descrizione dei repertori) dal momento che la parte verbale (perlopiù tipografica) costituisce parte integrante della marca e una discriminante che a volte può fornire utili indicazioni sulla cronologia e l’uso della stessa. La distinzione si rivela particolarmente vantaggiosa soprattutto nell’ambito di tipografie che utilizzano un gran numero di marche e sono attive in un periodo molto lungo nel quale intervengono anche eredi e continuatori che continuano a impiegare le medesime matrici. 
  • Per lo stesso motivo possono rivelare discriminanti importanti per lo studioso gli stati diversi conseguenti all’usura della matrice oppure ottenuti da modifiche intenzionali (ad esempio eliminazione di una cornice danneggiata o di iniziali non pertinenti). Nel testo sono stati ogni volta indicati e spesso anche riprodotti. Analogamente vengono sempre descritti i reimpieghi da parte di titolari diversi ed eventuali modifiche personali del riuso con comparazioni tra marche di soggetto simile che agevolino la comprensione del soggetto e chiariscano i rapporti tra i vari tipografi.
  • In parallelo sono segnalati, come testimonianze dei procedimenti in uso nelle tipografie di ancien régime, tutti gli accorgimenti adoperati per evidenziare parti della composizione, riutilizzare e adattare secondo le esigenze il materiale disponibile con sostituzione di parti mobili, uso di inchiostro di colore diverso, diversificazione dei caratteri ecc. Molto interessanti, inoltre, si sono presentati altri particolari “involontari” in quanto difetti in corso di impressione come la sovrimpressione dei caratteri tipografici su una matrice calcografica. 

Qualche dato relativo ai primi quattro volumi (pagine complessive 3200):

  • marche descritte oltre 5000
  • titolari oltre 2000
  • stati europei 19
  • città europee circa 400 

Uno dei risultati certamente più importanti è quello di avere descritto e riprodotto un considerevole numero di marche non censite (circa 800) con indicazione dei relativi luoghi di presenza. 

A molti anni dalla pubblicazione del mio repertorio sulle marche italiane del Cinquecento, sono così ritornata, dopo decenni di studi soprattutto in campo iconografico, a occuparmi di un argomento indubbiamente appassionante, che permette di conoscere meglio la nostra Europa attraverso alcuni dei suoi protagonisti culturali più straordinari. 

La mia scelta di descrivere le marche per tipologie e soggetti iconografici è stata impegnativa, ma coerente con quella di tanti anni fa, a suo tempo contestata dai bibliologi tradizionalisti ma poi di fatto confermata dagli studiosi tanto che in alcuni repertori nella descrizione delle marche è diventata prassi comune adottare i codici di classificazione delle opere d’arte (Iconclass). Oggi la mia “trasgressione” è ancora più forte dal momento che in quest’ultima opera la marca non è più considerata solo un segno di identificazione e di titolarità (anche se questo, come detto in precedenza, ne costituisce un aspetto molto importante), ma diventa un’immagine da contestualizzare, comparare e interpretare iconograficamente al pari di qualsiasi altro documento visivo. Per la prima volta in un ambito così allargato, come quello della tipografia europea dei sec. XV-XIX, si propone un esame comparato delle marche condotto per tipologie, corredato di riproduzione e di ampia descrizione, finalizzato a documentare l’evoluzione e i rapporti dei vari segni attraverso confronti di forme simili nei vari ambiti geografici. 

In questo modo è stato possibile scoprire analogie a volte sorprendenti, riscontri cronologici precisi, collegamenti tra diversi titolari e aree geografiche contigue. Le varie immagini interagiscono tra loro in una fitta rete di collegamenti e confronti rivelando esperienze e derivazioni comuni, pur con le innegabili diversità di ogni paese, come fonte di conoscenza e materia per nuove ricerche nell’ambito della cultura europea dell’età moderna. Alla fine si scopre che queste marche parlano un linguaggio “comune”, anche se declinato in tanti modi diversi, dal momento che attraverso il mezzo iconografico coinvolgono gli stessi aspetti sociali, religiosi e culturali che sono alla base della civiltà europea. 

È una riflessione che si impone significativamente nel momento doloroso che attraversa il nostro continente e la consapevolezza di questo comune patrimonio deve trasmettere soprattutto un messaggio di pace, nel fermo convincimento che solo la cultura può garantire l’unità e il progresso dei popoli.