N.8 2022 - Biblioteche oggi | Novembre 2022

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Il libro nel mondo antico

Stefano Salvia

Dottore di ricerca e cultore della materia in Storia della Scienza, Università di Pisa, s.salvia7@gmail.com

Abstract

Recensione di Stefano Salvia al libro di Lucio del Corso, Il libro nel mondo antico, Roma, Carocci, 2022, p. 322.

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Nel suo ultimo lavoro Lucio Del Corso, docente di Papirologia all’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, offre a un pubblico ampio di specialisti, studenti universitari e lettori appassionati un affresco avvincente e al tempo stesso rigoroso della genesi e dei processi di trasformazione materiale e culturale della scrittura, delle sue forme e dei suoi principali supporti, delle modalità di produzione e circolazione di testi scritti in relazione ai loro diversificati contesti, generi e destinatari nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente antico, fino alle soglie del Medioevo. Il volume riflette l’esperienza sul campo dell’autore e ne rappresenta per molti aspetti un bilancio, in parte anticipato da due suoi precedenti lavori: il saggio La lettura nel mondo ellenistico (Laterza, 2005) e la curatela insieme a Laura Lulli (Università degli studi dell’Aquila) dell’edizione italiana di A. Grafton, M. Williams, Come il Cristianesimo ha trasformato il libro (Carocci, 2a ed. 2019).

L’itinerario storico-geografico e antropologico-culturale che il lettore è invitato a intraprendere insieme all’autore ha il pregio di unire l’amore per il dettaglio a uno stile di scrittura agevole, in grado di andare oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori, senza per questo eccedere in semplificazione divulgativa. L’impianto espositivo-argomentativo risulta chiaro, sequenziale, incentrato innanzitutto sulla materialità dei supporti, delle tecniche e delle pratiche scrittorie impiegate per fissare la memoria di testi e documenti e sulla loro evoluzione dall’epoca arcaica alla tarda antichità: tavolette di argilla o di legno, incerate o imbiancate, lamine metalliche incise, òstraka con graffiti o con scritture a inchiostro, strisce di tessuto, fogli di papiro o di pergamena, sciolti oppure uniti per formare rotoli o fascicoli, questi ultimi a loro volta raccolti in codici. L’attenzione per la civiltà materiale della parola scritta nel mondo antico, tra Oriente e Occidente, non è mai disgiunta da quella per le società e le culture di cui supporti e tecniche erano espressione, per l’ambiente in cui vivevano e per la loro struttura socioeconomica. Entro queste coordinate si collocano i diversi sistemi di scrittura, conservazione e circolazione di scritti formali o informali. I primi erano redatti da scribi o calligrafi professionali (schiavi, liberti o artigiani specializzati) in contesti istituzionali, oppure prodotti su commissione in botteghe librarie di cui non è semplice ricostruire la natura e l’organizzazione sulla base della scarsa documentazione disponibile. I secondi invece erano prodotti da lettori-copisti più a loro agio con le scritture amministrative e contabili, colti ma non eruditi.
Il saggio di Lucio Del Corso riesce sin dal primo capitolo (La Charta Borgiana e la riscoperta dei libri dei Greci e dei Romani, p. 15) a saldare in un percorso organico l’evoluzione del libro antico come testimonianza materiale di pratiche culturali socialmente determinate alla storia delle ricerche archeologiche e filologiche sul libro e più in generale sulle modalità di scrittura e lettura nell’antichità, combinando e confrontando tra loro fonti storico-letterarie, reperti archeologici e fonti iconografiche. Il lettore viene accompagnato in un viaggio che inizia dalla riscoperta dei papiri greco-egizi alla fine del Settecento, nell’ambito di circuiti antiquario-eruditi ancora in larga misura legati al collezionismo privato, e dal contemporaneo ritrovamento dei papiri di Ercolano nel contesto degli scavi pompeiani ed ercolanesi patrocinati dai Borboni di Napoli, per poi passare alla caccia ai papiri e ai reperti dell’antico Egitto nei primi decenni dell’Ottocento, seguita alle campagne napoleoniche e alla decifrazione della scrittura geroglifica; quindi all’affermazione di archeologia, papirologia, codicologia, paleografia e filologia come discipline istituzionalizzate a partire dalla metà del XIX secolo, sia pur in un contesto politico-culturale segnato dal colonialismo europeo, fino agli sviluppi più recenti, caratterizzati da una rinnovata sensibilità per la storia materiale, sociale e culturale del Mediterraneo antico.
Nel focalizzare progressivamente l’attenzione sul rotolo di papiro, per secoli il principale supporto scrittorio del mondo greco-ellenistico e poi di quello romano almeno fino al IV secolo d.C., l’autore nel secondo capitolo (Materiali e supporti: dalle tavolette alla pergamena, p. 45) evidenzia innanzitutto una situazione paradossale in cui si trova la ricerca papirologica odierna: se si prescinde dalle fonti egizie e dalle notizie riportate da Erodoto sul processo di lavorazione del papiro, confrontate con le scarse testimonianze iconografiche a disposizione, i testi antichi non ci dicono quasi nulla intorno ai supporti su cui erano scritti e più in generale sulle caratteristiche dei libri dell’epoca, né sulle loro modalità di produzione, conservazione e fruizione: la dimensione materiale, artigiana, spesso servile della scrittura era percepita come indegna di essere trattata, o anche solo menzionata, all’interno di un’opera di soggetto elevato, il cui contenuto era considerato indipendente dal mero supporto che lo veicolava.
Non siamo in grado di ricostruire come funzionasse davvero una bottega libraria, quali figure vi lavorassero e con quali compiti specifici, quali fossero le forme e le dinamiche del mercato librario e soprattutto come fosse strutturata una biblioteca antica, pubblica o privata, come e da chi le opere venissero effettivamente consultate e in quali spazi eventualmente dedicati. Ci dobbiamo per lo più affidare da un lato alle notizie tramandate dagli autori, dall’altro alle informazioni che possiamo desumere dall’analisi degli stessi frammenti papiracei greci e latini superstiti. Questi ultimi non risalgono oltre la metà del IV secolo a.C., rappresentano comunque una frazione esigua dei rotoli nel complesso prodotti e circolati nell’arco di oltre un millennio in tutto il bacino del Mediterraneo, e non corrispondono necessariamente per qualità, tipologia e pubblico a quelli accessibili nei principali “luoghi della cultura” dell’antichità. La maggior parte dei papiri greco-egizi che ci sono arrivati, e che costituiscono la maggioranza dei papiri antichi in greco di cui disponiamo grazie alle loro peculiari condizioni di conservazione, non è stata rinvenuta nei centri urbani più importanti, né tantomeno tra i resti di edifici pubblici o templi, ma in località di provincia e periferiche, spesso ammassati alla rinfusa all’interno di contenitori ubicati in locali di servizio, non di rado riutilizzati per scopi differenti nel corso del tempo o riscritti come palinsesti; addirittura, nel caso dei papiri rinvenuti a Ossirinco in Egitto, gettati in una vera e propria discarica tra i materiali esausti da riciclare come combustibile.
I papiri ossirinchiti, una delle raccolte più ricche e importanti di cui disponiamo, offrono uno spaccato unico della produzione scrittoria e della stessa vita quotidiana di una cittadina egizia di provincia in età imperiale. Si tratta di oltre 500.000 frammenti contenenti i testi più disparati, databili dal I al VI secolo d.C.: opere letterarie, vangeli apocrifi, esercitazioni scolastiche, documenti amministrativi, epistolari privati, inventari e rendicontazioni. Per contro nessuno degli eleganti rotoli custoditi nella Biblioteca di Alessandria o nelle ville delle élites romane, se si eccettuano i papiri ercolanesi per via delle eccezionali circostanze in cui si sono conservati, è giunto fino a noi per confermare le testimonianze delle fonti letterarie che ci parlano della loro esistenza e, nel caso alessandrino, del Museo li avrebbero catalogati.
Fatta questa necessaria premessa sullo stato dell’arte negli studi papirologici, Del Corso si addentra a partire dal terzo capitolo del volume (Il papiro e la manifattura del rotolo, p. 81) in un excursus sulle origini e sulla diffusione del papiro come materiale scrittorio nell’area mediterranea, dall’Antico Regno egizio alla Grecia classica passando per il Medio Oriente fenicio e le colonie magno-greche e puniche occidentali. La fabbricazione della carta di papiro, soprattutto in Egitto, era solo una delle filiere produttive che impiegavano come materia prima le fibre del fusto e le foglie di Cyperus papyrus. Come testimoniato dallo stesso Erodoto, il papiro costituiva anche una fonte importante di alimentazione per i ceti più umili ed era un materiale estremamente versatile (analogo alla canapa) utilizzato nella produzione di stuoie, tessuti, copricapi, ceste e finiture per arredi.
L’impiego del rotolo di papiro come principale supporto per la scrittura, importato dall’Egitto anche attraverso la mediazione fenicia probabilmente tra l’VIII e il VII secolo a.C., diventa nel corso del V secolo a.C. un elemento distintivo della cultura greca, destinato ad imporsi in tutto il mondo ellenizzato a seguito delle conquiste di Alessandro Magno. Il quarto capitolo (Dal rotolo “commerciale” al rotolo “librario”, p. 99) è dedicato alla filiera della produzione libraria in tutte le sue fasi, almeno a partire dal momento in cui, dall’epoca classica fino al tardo impero, il libro antico è soprattutto il volumen, il rotolo: formato da fogli di papiro tra loro incollati, più raramente da fogli di pergamena; quasi sempre scritto su un solo lato, quello con le fibre disposte orizzontalmente che assecondavano la scrittura (nel caso dei fogli di pergamena il lato pelle, più liscio e chiaro del lato pelo). Il testo, suddiviso in colonne parallele di ampiezza e lunghezza uniformi, separate da intercolumni, era caratterizzato da una scrittura maiuscola continua e priva di interpunzioni, che poteva presentare caratteri più o meno accurati ed eleganti a seconda della tipologia di scritto, del contenuto e dei destinatari.
L’autore, sempre tenendo insieme testimonianze archeologiche, fonti scritte e iconografia, si sofferma in particolare sui supporti e sugli strumenti utilizzati dagli scrittori-copisti per realizzare un libro a partire dal rotolo “commerciale” semi-lavorato: calamo o pennello, calamaio, inchiostro, raschiatoio, spugna, colla di farina o gomma arabica, taglierino per i fogli, temperino per il calamo, riga e compasso per disegnare, un tavolo da lavoro e forse, per i rotoli più voluminosi, un leggio che ne facilitasse la consultazione. Sappiamo inoltre che i fogli incollati venivano spesso arrotolati intorno a una coppia di bastoncini di legno che ne agevolavano lo svolgimento e il riavvolgimento e che i rotoli presentavano sistematicamente un àgraphon (foglio bianco) prima e dopo i fogli su cui era riportato il testo, al fine di proteggerlo dall’usura. Sul verso dei fogli esterni, in senso ortogonale alla scrittura sul recto, veniva riportata l’indicazione del titolo o dell’argomento trattato. I rotoli potevano essere inseriti in custodie di tessuto o di pelle (le capsae romane) per essere meglio conservati e trasportati. Ampiamente attestato è inoltre l’uso di cassette e giare, specialmente in Egitto. Non abbiamo invece testimonianze sufficienti sulle modalità di conservare i rotoli all’interno di armadi, nicchie o scaffali nelle biblioteche antiche, tranne che per la Villa dei Papiri di Ercolano.
I rotoli librari venivano prodotti adattando le dimensioni dei fogli “commerciali”, il formato di scrittura e l’impaginazione alla tipologia di testo da produrre e ai relativi “standard editoriali”, a cui Del Corso riserva il quinto capitolo (Formati e standard editoriali del rotolo di papiro, p. 127) e che presentano sensibili variazioni rispetto al contesto geografico e al periodo considerato, pur tendendo a una progressiva uniformazione in età ellenistica e soprattutto imperiale. Il sesto capitolo (Paratesto e organizzazione testuale nei rotoli letterari, p. 145) è invece dedicato agli elementi paratestuali e ai segni diacritici che, in particolare nelle edizioni erudite o comunque di lusso, potevano accompagnare testi letterari, filosofici e scientifici, rendendone più perspicua la struttura, sollevando questioni interpretative, inserendo titoli e note di commento.

L’autore sottolinea la fortuna dei segni diacritici, come la paràgraphos, introdotti ad Alessandria, forse ripresi da precedenti usi egizi ed ellenici, che attraverso processi di rifunzionalizzazione si ritrovano pressoché immutati nei papiri e codici tardo-antichi per giungere fino ai codici bizantini del IX-X secolo. Alla loro ricezione si sovrappone in epoca romana la diffusione e relativa standardizzazione delle principali caratteristiche del rotolo latino (in parte mutuate dall’epigrafia) per quanto riguarda formati correnti, impaginazione, interpuncta tra le parole, interlinee e spazi divisori, abbreviazioni, titolazioni, rientranze, prime forme di numerazione delle sezioni e delle pagine che segnano il tramonto della scrittura continua dei papiri greco-ellenistici a favore della scrittura tipica dei codici latini e greci della tarda antichità.

Questo processo non lineare e complesso di transizione, dal rotolo di papiro al codice di pergamena passando per le forme intermedie del codice di papiro e del rotolo di pergamena, vede anche il titolo di un’o-pera (o di una sua sezione specifica) assumere un ruolo autonomo come elemento paratestuale qualificante, a differenza del “titolo di coda” conclusivo e riassuntivo di norma apposto alla fine di un rotolo antico e preceduto da un semplice àgraphon. Si tratta di un passaggio tradizionalmente considerato epocale nella storia della scrittura e del libro tra antichità e Medioevo, a cui l’affermazione del Cristianesimo avrebbe dato un contributo decisivo.
Il settimo capitolo (Libri eruditi, libri illustrati, libri informali, p. 177) è incentrato sull’impiego di illustrazioni, tabelle e grafici (di cui non è sopravvissuto quasi nulla) all’interno dei rotoli e poi dei codici antichi, soprattutto in quelli matematico-astronomici, geografici e medico-naturalistici, senza trascurare le illustrazioni meno pregiate ma che quasi certamente corredavano manuali, testi scolastici e una letteratura “di consumo” andata perduta. L’ottavo e ultimo capitolo (Dal rotolo al codice, p. 213) si concentra infine sulle ragioni di successo del codice tra IV e VII secolo. In epoca carolingia diventerà stabilmente un codice miniato, in cui le illustrazioni, anziché rivestire il ruolo ancillare e didascalico di vignette all’interno delle colonne di testo, come nel rotolo antico, assumeranno progressivamente la valenza di un apparato iconografico complementare al testo stesso, fino ad occupare intere pagine a fronte dell’opera.
Partendo ancora una volta da evidenze archeologiche e integrandole con le testimonianze scritte e le fonti iconografiche disponibili, l’autore ricostruisce le origini essenzialmente romane del codex (caudex in latino arcaico, che indicava il tronco d’albero) per sottolineare come il codice nasca con tutta probabilità in età repubblicana in un contesto giuridico-religioso come raccolta ordinata di tavolette lignee o di bronzo, più tardi di fogli di pergamena, rilegati a formare un “libro” come ancora oggi lo concepiamo. Il codex romano, raccolta di leggi e atti ufficiali, va dunque inteso propriamente come collezione di testi impaginati in modo analogo a un libro moderno, racchiusa da una copertina in legno e/o cuoio del tutto affine al nostro raccoglitore, in cui potevano trovare posto nuovi documenti eventualmente dotati di numerazione progressiva, come nei registri contabili. All’interno del codex un documento o una determinata sezione di testo risultava molto più facile da reperire e consultare che in un rotolo, anche con l’aiuto di appositi segnalibri.
La cultura scrittoria latina aveva familiarità con supporti di legno, bronzo, tessuto (come la scrittura su lino di ascendenza etrusca) e pelle, mentre l’incontro con la carta di papiro risale ai primi contatti con le pòleis magno-greche e con i Cartaginesi. Le conquiste romane in Grecia, Asia Minore ed Egitto segnano l’ascesa del rotolo di papiro greco-ellenistico come principale veicolo di trasmissione culturale nei primi secoli dell’Impero. A partire dall’età augustea, tuttavia, il codice (di papiro, di pergamena o composto da tavolette rilegate) affianca il rotolo soprattutto per la trascrizione, raccolta e conservazione di documenti amministrativi, ma anche nella redazione di manuali ed eserciziari scolastici, ricettari, prontuari medici, quaderni di appunti e diari.
Del Corso evidenzia come la convivenza tra volumen e codex caratterizzi fin dall’inizio la cultura materiale della scrittura nel Mediterraneo romanizzato dei secoli I-III d.C., pur nella differenziazione di funzioni e destinazioni, con un ruolo dominante del rotolo di papiro come depositario e vettore dell’alta cultura, appannaggio di un’élite tendenzialmente cosmopolita e almeno bilingue. L’affermarsi del codice a partire dal IV secolo riflette solo in parte la pur significativa preferenza accordata dai primi Cristiani al codex come supporto librario più idoneo alla riproduzione, lettura commentata, citazione e interpretazione delle Sacre Scritture.
In realtà questa preferenza è piuttosto un conseguenza dei vantaggi offerti dal codice: più pratico, maneggevole e trasportabile, adattabile a diversi tagli e formati; più facilmente implementabile con l’aggiunta di nuovi fogli singoli o di fascicoli formati da più bifogli, a loro volta sciolti o cuciti insieme da legature; più protetto dall’usura, dalle intemperie e dagli insetti grazie alla copertina, spesso dotata di legacci e fibbie; impaginabile su più colonne o su un’unica colonna per pagina, come nella maggior parte dei libri odierni, con la possibilità di scrivere su entrambi i lati di una stessa pagina; in grado di raccogliere in un unico libro più opere dello stesso autore o di autori diversi sullo stesso tema. Tutto questo rese il codice più adatto alla compilazione di edizioni compatte, compendi, antologie, commentari e più tardi delle prime “enciclopedie” alto-medievali.
Il rallentamento e poi il collasso degli scambi lungo le rotte mediterranee tra V e VIII secolo avrebbe inoltre reso sempre più difficoltoso l’approvvigionamento del papiro, soprattutto in Occidente, anche se codici papiracei sono attestati ancora in epoca merovingia. Ciò avrebbe indotto a preferire la pergamena, molto più resistente e idonea alla miniatura, a fronte di una generale contrazione della domanda di libri che rendeva più vantaggioso ricorrere alla pergamena per produrre codici preziosi da custodire nelle biblioteche di pochi ma importanti centri culturali come sedi vescovili, monasteri e palazzi. Ad essere determinante per l’affermazione del codice sul rotolo negli ultimi secoli della romanità sarebbe stato un concorso di fattori di carattere socioeconomico, tecnologico e culturale, da cui presero forma il libro come lo conosciamo tuttora e “un modo nuovo di conservare la memoria”, per citare le parole conclusive del volume, insieme a molte altre innovazioni emerse dal crogiolo della trasformazione del mondo tardo-antico.