N.3 2023 - Biblioteche oggi | Aprile 2023

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Ricordo di Silvio Hénin (1945-2022)

Valentina Comba

Per rendere omaggio a Silvio Hénin e coltivarne il pensiero, il GIDIF-RBM ha proposto a “Biblioteche oggi” di ripubblicare di seguito un suo contributo apparso sulla rivista online “Mondo Digitale” nel 2019, che a sua volta costituiva una rielaborazione e un aggiornamento di un intervento tenuto in occasione dell’edizione 2011 del Convegno delle Stelline.

 

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Silvio Hénin era un uomo alto ed elegante, con una cultura multiforme: a chi pensava di chiedere come si pronunciasse il suo cognome, rispondeva “Henèn”.

Laureato in Biologia, ha insegnato Fisiologia generale all’università: quindi, professore, con più di 50 pubblicazioni. In Roche ha svolto molti ruoli manageriali di spicco, non solo responsabile del Centro di documentazione

L’ho conosciuto iniziando a partecipare ai convegni e all’attività organizzativa del GIDIF RBM a Milano; le riunioni si tenevano quasi sempre nei suoi uffici alla Prodotti Roche – da Torino un treno, poche fermate di metropolitana e due passi in via Pasteur; sempre preciso e accogliente, ci faceva sentire a nostro agio… e macinavamo convegni e incontri. È sempre stato disponibile anche per convegni nazionali e per collaborazioni con la neonata AIDA, o iniziative dell’Associazione italiana biblioteche. Presto iniziammo a conoscere la sua passione per l’informatica, per la storia e lo sviluppo degli strumenti e dei linguaggi. Spiegava con parole semplici e molto chiare come funzionavano i CD, i personal computer che usavamo allora, le reti (già che eravamo passati dall’accoppiatore acustico al modem ITAPAC per arrivare… a internet). Nel convegno GIDIF dedicato ad ADONIS (maggio 1990), Silvio ci spiegò gli aspetti tecnici e funzionali dei compact disk, e disse anche che non era detto che i dati su questi supporti si conservassero indefinitamente.

Mi parve di fare la cosa migliore quando, alla fine degli anni Novanta, per l’inaugurazione del polo biologico della Biblioteca Centralizzata di Medicina di Torino (ci vollero più di dieci anni, ma finalmente si fece!) invitai Silvio – complice il prof. Mario Eandi di Farmacologia che lo conosceva da molto tempo – a tenere il discorso inaugurale. Fu magnifico, nel mio ricordo, perché fece una lezione sulla letteratura biomedica e sul ruolo indispensabile dei documentalisti, lasciando un po’ sbigottito il rettore Bertolino (docente di Diritto canonico): comunque un gran successo.

Anche per questa bella esperienza condivisi con i colleghi dell’European Association for Health Information and Libraries (EAHIL) la proposta di invitare Silvio a fare la main lecture al workshop di Alghero (2001). Il suo discorso, intitolato From number crunching to information technology and beyond, è una vera summa sulla storia dei numeri dall’epoca preistorica all’evoluzione dei linguaggi e delle macchine: con la previsione che ci sarebbero ancora stati incredibili mutamenti (e ci sono stati, possiamo dire oggi).

Sono passati gli anni, il direttivo GIDIF di allora ha passato le consegne ad altri documentalisti, Silvio è andato in pensione ma allora si è dedicato interamente alla sua passione per la storia dell’informatica e della scienza.

Ha pubblicato numerosi libri sui computer, sulla rivista “Enigma” e sull’intelligenza artificiale, collaborato con l’AICA, membro del comitato scientifico di “Mondo Digitale”, è stato membro dell’ACM e svolto la funzione di consulente per il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano.

E poi ci ha lasciato, così, in pochissimo tempo. Ci sentiamo orfani. Non lo scorderemo mai.

Per una storia italiana dell’informatica - Silvio Hénin

Perché una storia dell’informatica?

In pochi dei curricula universitari dei corsi di laurea di facoltà scientifiche è previsto un corso di storia della relativa disciplina. Molti si chiedono, infatti, perché dovrebbe essere diversamente, che importanza ha? Un giovane professionista o ricercatore deve essere orientato al futuro, all’innovazione, allo sviluppo e poco conta cosa è stato fatto prima. Il prolifico storico dell’informatica John A.N. Lee lamenta che “Per molti, la storia è soltanto lo studio di un passato irrilevante, senza riferimento ai valori moderni, un soggetto privo di un’utile dottrina”. Infatti, alcuni degli stessi pionieri dell’informatica hanno spesso scelto di non partecipare alla conservazione delle loro storie, dichiarando che erano più interessati al futuro che al passato, e che “la scienza deve progredire per superare il passato”. Lee fa anche notare che “C’è uno stimma che spesso accompagna la decisione di dedicarsi alla storia di una disciplina dopo una carriera scientifica, il sospetto che sia un segno di senilità” [1]. I sostenitori dell’importanza della conoscenza storica ricorrono spesso all’aforisma dello storico George Santayana: “Coloro che non imparano dalla storia sono condannati a ripeterla”, affermazione che è stata interpretata e criticata molte volte, anche perché la storia non è fatta solo di errori da evitare. Ma non è questo il solo e vero motivo per cui la storia conta. Conoscere il passato serve soprattutto a capire come noi e il nostro mondo siamo giunti ad essere ciò che siamo, attraverso quali percorsi, quali sistemi di valori, quali miraggi e speranze, e conoscere tutto ciò ci può aiutare non tanto a evitare di ripercorrere le stesse strade, ma a capire e orientare meglio i nostri sforzi attuali. Noi siamo il prodotto della nostra storia, o delle nostre storie, facciamo quello che facciamo per ragioni storiche. Il programmatore Bjarne Stroustrap ricorda che “Noi non siamo mai una tabula rasa” [2] e lo storico americano Henry Adams, nel suo Education, ci ha mostrato come “il passato possa essere un buon posto dove cercare il futuro”. La storia ci aiuta quindi a conoscere dove stiamo andando, stabilendo dove siamo ora e come ci siamo arrivati [3].

Un altro noto storico dell’informatica, Paul Ceruzzi, elenca cinque buoni motivi per fare della storia un elemento fondamentale nell’insegnamento dell’informatica:

  1. Il materiale storico può aiutare l’insegnamento dell’informatica per coloro che desiderano ravvivare e arricchire i loro programmi con solidi materiali di fatto, piuttosto che ripetere stantii, e fattualmente scorretti, aneddoti di nerd e altre amenità;
  2. la storia può inquadrare i risultati scientifici e tecnici in un contesto economico, sociale e politico;
  3. la storia è un eccellente veicolo per mostrare agli studenti che genere di persone hanno forgiato il settore nel corso degli anni, il loro retroterra culturale ed economico, i loro valori e il loro lavoro quotidiano;
  4. la storia può aiutare a introdurre concetti basilari del calcolo automatico [con strumenti più semplici di quelli attuali, N.d.A.];
  5. [per lo stesso motivo] la storia può introdurre anche gli studenti di altre discipline ai principi dell’informatica, può fornire loro quella minima competenza (computer literacy) necessaria a vivere in un mondo digitalizzato [4].

 

Di fatto, nel 1991, una Joint Task Force della IEEE Computer Society e dalla Association for Computing Machinery proponeva esplicitamente di includere moduli formativi correlati alla storia in almeno quattro delle aree specifiche dei corsi di informatica [1]. Nel 1998 lo stesso argomento fu ripreso dalla International Federation for Information Processing (IFIP) che produsse un rapporto intitolato “History in the Computing Curriculum” dove evidenziò la necessità di includere la storia nei corsi di informatica a livello di scuole superiori e università [5]. Non sono pochi, quindi, gli scienziati, i docenti e i tecnologi che considerano la storia dell’informatica uno strumento utile per l’avanzare delle nostre conoscenze e delle nostre capacità in ambito ICT.

Storiografia dell’informatica

Il calcolatore elettronico digitale automatico programmabile (il computer) comparve solo 75 anni fa e una disciplina formale (computer science o informatica) cominciò ad essere stabilita circa un decennio più tardi, ma lo studio della loro storia iniziò molto presto. Già nel 1976 fu organizzata a Los Alamos la prima International Research Conference on the History of Computing e tre anni dopo fu fondata la prima rivista dedicata esclusivamente all’argomento: gli Annals of the History of Computing. Coloro che iniziarono a raccogliere memorie, scriverle e pubblicarle, furono gli stessi pionieri che avevano sviluppato le prime macchine, quindi non storici di professione e formazione. Le loro sono quelle che vengono chiamate ‘storie interne’. Quasi tutti loro descrivevano l’evoluzione tecnica dello hardware o scrivevano le loro memorie e le biografie dei loro colleghi scomparsi. Nelle loro narrazioni si scorge l’ingegnere elettronico che progettò i circuiti e il fisico o il matematico che scrisse i primi programmi. Questi narratori descrivono nei particolari come fecero tutto ciò, le caratteristiche tecniche delle loro macchine, ma più raramente commentano gli ambienti in cui lavoravano e le istituzioni che finanziavano il loro lavoro, sebbene mostrino attenzione all’uso che se ne faceva [6]. A costoro si affiancarono – e si affiancano tutt’ora – i giornalisti, che si dedicano soprattutto a biografie di personaggi di successo e ad anniversari di eventi topici, o presunti tali.

Gli storici americani di professione sdegnavano l’argomento con il commento “Non ci occupiamo di nulla che sia più recente della guerra civile americana (1861-65)” e anche uno storico della tecnologia si giustificò affermando che “La storia del computer è troppo recente da rischiare di essere dimenticata”. Forse non si erano accorti della enorme velocità con cui questa nuova tecnologia si sarebbe sviluppata, per cui strumenti di un decennio prima stavano diventando già obsoleti e dimenticati dai più e quindi trasformandosi in oggetti ‘storici’[1]. Fu nei primi anni 1980 che gli storici accademici cominciarono ad interessarsi al computer e alla sua storia e il loro approccio fu piuttosto diverso da quello dei loro predecessori. Essi iniziarono a staccarsi lentamente dalle pure storie di macchine, muovendosi verso un’analisi a più ampio respiro, come quelle delle istituzioni che costruirono le macchine, le usarono o le commercializzarono, e anche verso quella componente immateriale e difficilmente percepibile dai più che era stata chiamata software. Nei primi anni 2000 c’erano ormai, nel mondo, 125-200 storici e molte centinaia di altri accademici coinvolti in qualche forma di ricerca relativa alla storia del computer. Le pubblicazioni fiorirono in centinaia di libri e migliaia di articoli, e iniziò così una nuova storiografia dell’informatica che prese le distanze e criticò i primi autori delle ‘storie interne’. Già nella conferenza del 1976, Dick Hamming sottolineava che “Noi vorremmo sapere cosa pensavano quando lo fecero” e perorava in favore di una storia dell’informatica che perseguisse lo sviluppo contestuale di idee piuttosto che una semplice lista di nomi, date e ‘primi’. Gli studiosi citavano spesso l’affermazione del novellista inglese Leslie Hartley: “Il passato è come un paese straniero, lì le cose si fanno in modo differente”, per ricordare che non si devono applicare ai fatti del passato le idee e i concetti di oggi. Particolarmente incisivo fu Michael S. Mahoney, che criticava il vano interesse per i ‘primi’: “nulla è interamente nuovo, specialmente nella tecnologia, l’innovazione è incrementale e ciò che già esiste determina pesantemente ciò che verrà creato” [2]. Un suo collega, Nathan Ensmerger, criticò specialmente i giornalisti: “La mitologia del ‘nerd solitario’ è un genere potente e avvincente con cui gli storici accademici non possono competere … sono interessanti aneddoti e avvincenti narrative personali, ma senza significato. Il genere popolare del tipo ‘la macchina che cambiò il mondo’ si focalizza generalmente sull’inventore solitario, che spesso combatte contro i ‘dinosauri’ delle culture aziendali dominanti … [terminando con la ritrita frase] ‘e il mondo non fu più lo stesso!’” [7]. Ancor più recentemente, storici e sociologi della tecnologia hanno iniziato a estendere le loro ricerche oltre ai soliti casi di successo e ai relativi trionfi economici. Hanno cominciato a esaminare anche i fallimenti. L’informatico John Backus, nel suo discorso di accettazione del Premio Charles Stark Draper (1994) disse “Nella scienza, come in tutti i lavori creativi, noi falliamo ancora e ancora. Per ogni idea di successo, abbiamo di solito dozzine di altre che non funzionano, non importa quanto duramente ci impegniamo. Ma fallendo impariamo molto. L’insegnamento della scienza è spesso l’insegnamento di successi, ci vergogniamo ad insegnare i fallimenti perché crediamo che siano poco interessanti o uno spreco di tempo. I fallimenti vengono dimenticati anche perché ‘la vittoria ha cento padri la sconfitta è sempre orfana’ ... Ma i fallimenti ci possono insegnare quanto o più delle vittorie” [1].

Dobbiamo allora lasciare interamente agli storici di mestiere la narrazione della storia dell’informatica (e, più generalmente, quella della tecnologia)? Certamente no. Le memorie di chi ha partecipato di persona agli sviluppi, pionieristici o meno, dell’informatica moderna sono documenti preziosi e i loro racconti vanno raccolti e conservati. Un esempio eclatante è l’opera del Charles Babbage Institute che da anni registra memorie orali raccolte con interviste ai personaggi coinvolti. Anche gli archivi documentari delle istituzioni sono elementi preziosi che devono essere salvati dalla discarica. Cortada [6] elenca le cose da fare, tra cui: 1) raccogliere il materiale archivistico per poi donarlo a istituzioni così che il futuro storico possa consultarlo; 2) scrivere e pubblicare memorie, bibliografie e articoli storici; 3) preparare bibliografie annotate e altri strumenti di ricerca. E non dimentichiamo la conservazione degli artefatti: “La memoria della tecnologia risiede negli artefatti più che nei documenti scritti e gli storici devono imparare a leggere gli artefatti”, dice Mahoney [2]. Quindi anche i reperti fisici debbono essere raccolti e conservati, prima che vengano riciclati come rottami.

Perché una storia italiana?

La letteratura sulla storia dell’informatica è quasi totalmente monopolizzata da autori americani, seguiti, a una certa distanza, dai britannici. Essa si concentra quindi prevalentemente sul mondo anglosassone, e ciò non deve stupirci; le invenzioni e le innovazioni dell’informatica sono state quasi sempre un fenomeno statunitense. Il Regno Unito, che pure ha visto interessanti esordi nei primi anni, precedendo a volte i cugini d’oltre oceano, ha poi perso slancio e opportunità. Gli altri paesi hanno seguito faticosamente a distanza. Non è questa la sede per discutere le tante cause di tale situazione, tutte legate a condizioni economiche, politiche e sociali determinate dalla precedente guerra mondiale [8]. Nei suoi 40 anni di vita, la maggiore (e unica) rivista internazionale dedicata all’argomento, i già citati IEEE Annals of the History of computing, ha pubblicato circa 1.280 articoli, ma di questi poco più di un decimo (124) narrano storie di paesi diversi da USA e UK. Circa lo stesso rapporto vale per i libri. Questo non vuol dire che il resto del mondo non abbia dato contributi innovativi e che questi non siano riconosciuti dagli storici anglosassoni, ma che, semplicemente, poco si sa e si racconta di loro, anche nei loro stessi paesi. Lo scarso interesse per la storia dell’informatica in altre nazioni, sia da parte di chi la dovrebbe scrivere sia da quella di chi la dovrebbe leggere, è quindi il motivo principale di tale negligenza. Il fenomeno è particolarmente sentito in Italia: tra i 124 articoli degli Annals, solo tre parlano di storie italiane, contro 26 per la Francia, 17 per la Germania e 9 per l’ex-Unione Sovietica. Di questi tre, poi, uno solo tratta di calcolatori elettronici, gli altri due descrivono calcolatrici meccaniche ottocentesche. A questi si aggiungono una decina di libri che trattano della nota vicenda Olivetti o di altri primi calcolatori italiani. In realtà, l’interesse per il passato non è del tutto assente nel nostro paese, come è dimostrato dalla vivacità delle decine di musei dell’informatica, piccoli e grandi, distribuiti nel territorio [9]. Queste strutture, spesso gestite da volonterosi e appassionati amatori, non si limitano a collezionare artefatti del passato, ma li studiano, li rimettono in funzione (archeologia sperimentale), ne fanno dimostrazioni, partecipando con successo anche a eventi internazionali. Spesso, però, la loro attività si concentra solo sui primi personal computer, perché facili da reperire e da rimettere in funzione, privilegiandone gli aspetti tecnici più che quelli economici e sociali. Molto resta ancora da fare, soprattutto raccogliere testimonianze di esperienze dirette, prima che sia troppo tardi, e scriverne storie, estendendo gli studi oltre la semplice elencazione di macchine. 

AICA e la storia dell’informatica

La Associazione Italiana per l’Informatica e il Calcolo Automatico (AICA), fondata nel lontano 1961, ha sempre mostrato attenzione per la storia dell’informatica italiana, un impegno che si è tradotto in azione concreta nel 1984, quando un apposito Gruppo di lavoro fu istituito per iniziativa di Giorgio Sacerdoti, allora presidente dell’Associazione. Ne è nato subito dopo un ‘Progetto storia’ che si è manifestato in una mostra in occasione del Congresso AICA di Trento del 1987 e nel “Convegno internazionale sulla storia e preistoria del calcolo automatico” tenuto a Siena nel 1991, con la partecipazione di esperti da altre nazioni. Ricordo anche la rassegna dal titolo “Per fili e per segni - Ingegno italiano e società del l’informazione” organizzata nel 2004 a Genova, in occasione dell’evento “Genova Capitale Europea della Cultura”. A partire dal 2005, AICA ha promosso e finanziato per tre anni accademici l’istituzione di dodici corsi universitari di storia dell’informatica in altrettante università italiane [10, 11] e, nell’anno accademico 2008-2009, ha istituito un bando per le migliori tesi di laurea sull’argomento, esteso a tutte le facoltà universitarie italiane. In occasione del World Computer Congress del 2008, AICA ha realizzato la brochure “Walking Through the Italian Computer History” per ricordare, se pur in modo sintetico, i contributi dell’ingegno italiano allo sviluppo dell’informatica, nei suoi aspetti teorici oltre che pratici. Negli ultimi anni, l’Associazione ha anche patrocinato eventi organizzati in Italia sulla storia del computer. La rivista Mondo Digitale, infine, nei suoi 17 anni di vita, ha pubblicato 31 articoli di storia, di cui 12 dedicati a storie italiane. Nel 2014 è stata effettuata un’indagine sui musei e le collezioni italiane di manufatti informatici, i cui risultati sono stati pubblicati l’anno successivo [9].

Il progetto ‘Storia nel Portale AICA’

Fin dalla creazione del suo portale web nel 2000, una sezione del sito web di AICA è stata dedicata interamente alla storia dell’informatica in Italia, con la pubblicazione di storie relative alle prime realizzazioni italiane degli anni 1950. In occasione del rinnovamento del portale, è stato ricostituito un Gruppo di lavoro che ne curasse l’aggiornamento e l’arricchimento. Oggi tale gruppo di lavoro è costituito da Silvio Hénin, AICA (Coordinatore); Elia Bellussi, Museo Piemontese dell’Informatica, Torino; Corrado Bonfanti, AICA; Luca Cerri, AICA e ARASS-Brera, Andrea Celli, Istituto per le Applicazioni del Calcolo “Mauro Picone” CNR, Roma; Giovanni A. Cignoni, Corso di Storia dell’Informatica, Università di Pisa; Ivo De Lotto, Università di Pavia; Franco Filippazzi, AICA; Giuseppe Lettieri, Museo degli Strumenti per il Calcolo di Pisa. Nel corso degli ultimi quattro anni, il gruppo ha iniziato a riorganizzare i contenuti in sette diverse sezioni, arricchendoli di nuovi contenuti:

  • ‘Origini del calcolo automatico’, raccoglie storie che vanno dalla preistoria del calcolo meccanico fino agli esordi del calcolo elettronico negli anni 1950.
  • ‘Calcolo scientifico e industriale in Italia’, vi si trovano le storie dei principali centri di calcolo nel mondo dell’università e della ricerca pura e applicata.
  • ‘Musei italiani’ dove sono elencate tutte le strutture museali e altre raccolte di manufatti e documenti, con i loro riferimenti.
  • ‘Produttori italiani di informatica’ (hardware e software), comprese le aziende estere e multinazionali con rilevante presenza nel nostro paese.
  • ‘Storia dell’informatica raccontata da Mondo Digitale’ che raccoglie tutti gli articoli di storia pubblicati nella rivista.
  • ‘Elaborazione dati in Italia’ è dedicata all’uso gestionale delle macchine da calcolo, a partire dalla meccanografia a schede perforate per la statistica fino ai computer usati in amministrazioni e enti.
  • ‘Informatica e società’ che raccoglie documenti sugli aspetti sociali, economici e politici della tecnologia digitale, sempre dal punto di vista storico e limitatamente alla situazione italiana.

 

Sfogliando le sezioni, ci si accorgerà che alcune sono abbastanza ben fornite di materiale, mentre altre sono molto più povere. Molto c’è ancora da fare. Purtroppo, il GdL si sta accorgendo quanto sia difficile rintracciare documenti già scritti e ancor più trovare chi ne scriva altri. Ad esempio, mancano quasi completamente racconti delle aziende italiane o multinazionali operanti in Italia, di come sono nate e come si sono sviluppate, chi furono i personaggi che le fondarono o le diressero. Sono del tutto assenti studi storici sulla introduzione degli strumenti informatici nelle istituzioni italiane come la pubblica amministrazione, le poste, le ferrovie, le banche e le assicurazioni, le industrie in genere. Se poi parliamo dell’esplosiva innovazione avvenuta con la nascita del personal computer e delle reti, mancano ancora racconti di come questa si sia diffusa in Italia, sia stata adottata dai diversi ambienti e che impatto ebbe sulle nostre abitudini. Mancano biografie di personaggi italiani che, localmente o globalmente, diedero contributi importanti. C’è un senso di urgenza in questa ricerca: bisogna raccogliere le memorie prima che vengano del tutto dimenticate, occorre spulciare gli archivi degli enti prima che vadano al macero e intervistare i protagonisti finché sono ancora tra noi. Ma soprattutto bisogna scrivere storie, non semplici elenchi di macchine, fatti, aneddoti e veri o presunti primati, ma le storie, anzi la Storia. Chiunque voglia collaborare a quest’opera sarà benvenuto.

Articolo pubblicato su “Mondo Digitale”, 18 (2019), 82.

Bibliografia

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Mahoney M.S., “Issues in the History of Computing”, in: Mahoney M.S., Histories of computing, Harvard University Press, 2011.

Mahoney M.S., “The Histories of Computing(s)”, in: Mahoney M.S., Histories of computing, Harvard University Press, 2011.

Ceruzzi P.E. “The Challenge of Introducing History into a Computer Science Curriculum”, in Akera A., Aspray W., Using History to teach Computer Science and Related Disciplines, Computing Research Association, 2004.

Haigh T., “The History of Computing: An Introduction for the Computer Scientists”, in Akera A., Aspray W., Using History to teach Computer Science and Related Disciplines, Computing Research Association, 2004.

Cortada J.W. “Studying History as it Unfolds. Part 1: Creating the History of Information Technologies”, IEEE Annals of the History of Computing, 37 (3), 2015, pp. 20-31.

Ensmenger N., “From Computer Celebrities to Historical Biographies”, IEEE Annals of the History of Computing, (4), 2011, pp. 86-88.

Hénin S., Come le violette a primavera, AICA, 2015; Il racconto del computer, Manna, 2017.

Hénin S., Cerri L., “Musei e raccolte di storia dell’informatica in Italia”, Mondo Digitale, novembre 2015, http://mondodigitale.aicanet.net/ 2015-5/rubriche/01_musei__e_raccolte_dI_storia.pdf.

Bonfanti C., “Corsi di storia dell’informatica nelle università italiane”, Mondo Digitale, settembre 2007, http://archivio-mondodigitale.aicanet.net/Rivista/07_numero_3/Bonfanti%20%20p.%2033-39.pdf.

Bonfanti C., “Storia dell’informatica e formazione culturale degli studenti”, Mondo Digitale, settembre 2007, http://archivio-mondodigitale.aicanet.net/Rivista/07_numero_3/Giangrandi%20p.%2040-47.pdf.