Come promuovere il benessere di chi lavora in biblioteca
Biblioteca di Treviolo (BG), viviana.vitari@gmail.com
Abstract
Recensione di Viviana Vitari al libro di Marco Locatelli, Come promuovere il benessere di chi lavora in biblioteca, Milano, Editrice Bibliografica, 2019, 88 p.
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Anni fa, uscendo dalla sala riunio - ni dove avevamo appena conclu - so una sessione sulla gestione dei conflitti e il benessere nei luoghi di lavoro, colsi involontariamente il coach nel rispondere in maniera picaresca a un’imprevista chiamata da casa. In pochi secondi tutte le buone raccomandazioni delle ore precedenti evaporavano nel bollore della realtà. Non che gli altri parte - cipanti si fossero lasciati condurre con serena flessibilità, a dire il vero. Qualcuno aveva persino disertato lasciandosi sfuggire pesantemente la porta alle spalle. Sapere non è potere. Le situazioni mettono a dura prova anche le migliori intenzioni.
Per questa ragione, quando incrociai un giorno Marco Locatelli, autore del libro Come promuovere il benessere di chi lavora in biblioteca, il primo interrogativo fu quello di chiedergli perché mai avesse voluto sviluppare un argomento che rischiava di essere fonte di pene e deliri prima ancora che di grazie e virtù. La sua risposta mi convinse: l’idea partiva da un desiderio personale, quello di lavorare su di sé alla ricerca della felicità. Decisi di leggere davvero il suo libro e scoprire così la formula segreta del nettare degli dei. Scherzi a parte, il problema è tutt’altro che uno scherzo.
L’autore parte da un principio, quello per cui la biblioteca è relazione. Trovarsi in un luogo di lavoro è come stare nello “spogliatoio” di una squadra di calcio. Ciascuno è chiamato a dare il meglio di sé recuperando un ruolo strategico per il gioco di tutti. Si tratta di un intreccio di relazioni di cui siamo sempre debitori. Abbiamo a che fare con utenti, volontari, colleghi, amministratori: il nostro pensiero vagabondo cozza con i sempre nuovi vocabolari sociali del lavoro. È la parola “felicità” a cui l’autore sembra affezionarsi. Allegra, ma non troppo. Infatti l’associazione di idee fra felicità e lavoro non si scolla da senso del dovere, ritmi serrati, stanchezza, pigrizia, opportunismi...
A questo punto arrivano i soccorsi: l’autore medita e fa propri i consigli di studiosi sul tema. Scopriamo che il benessere è una conquista e come tutte le conquiste faticose ci richiede un equilibrio fra surfismo e buona volontà. L’autore opta per entrambi, a corrente alternata. Elabora dentro di sé l’ipnosi culturale di ricercatori d’eccezione come Daniele Novara, Raffaele Morelli, Annie McKee, Paulo Freire, Daniele Malaguti, con tutto quello che il loro pensiero può esercitare per nebulizzare il senso di sconfitta. Nell’aspirazione di comporre la squadra nel proprio contesto lavorativo, seguono pagine immediatamente spendibili. Dapprima occorre capire le inclinazioni di ognuno. Possiamo individuare il leader, non in quanto capo o manager, ma in quanto visionario. Gli identikit proseguono: l’ex capoufficio che ora è tutor, il collega ambasciatore con la sua arte della diplomazia culturale, il counselor che instrada e trasmette fiducia, il coach che rivela ciò che ancora non siamo. È una questione di “figure” che si conciliano, non di “figurine” che si appiccicano già fustellate sull’album dei calciatori. Occorre che tutti crescano progressivamente in competenze trasversali. Brillante è il passaggio in cui l’autore ci fa capire quando avviene la svolta verso il benessere: coincide con il giorno in cui alle regole decidiamo di sostituire un rituale, all’accumulo centralizzato di carte un buon decluttering, al ready-made la scelta di personalizzare i servizi. Il tutto lavorando sulle competenze, sulla chiarezza dei mansionari, su obiettivi sfidanti e rimuovendo i principali ostacoli che vedono nel mero fai-da-te la realizzazione dell’ambiente di lavoro ideale. Possiamo tatuarci i consigli del counselor o del coach, possiamo cercare fra i colleghi quelli che ci possono esorcizzare dalla follia di un quotidiano che fa degli imprevisti la sua normalità. E se qualcosa non va, “smettila di incasinarti!”. Perché colpevolizzare sé stessi, il collega o, come la prassi vuole, il capufficio? Nella povertà del bisogno “il segreto dei segreti è saper stare” (Morelli, ipse dixit), principio primo per sviluppare il senso di appartenenza al luogo di lavoro. Non sarà un litigio a creare fratture, non è correre un rischio che obbliga alla fuga. Il senso di isolamento e di sfiducia non può che farci allontanare dall’obiettivo “benessere”. C’è un’ulteriore strada consigliata per rimuovere l’ostacolo alla buona socialità: quella di entrare a far parte di una comunità di professionisti, come può essere l’associazione dei bibliotecari, oppure quella di associarsi a un sindacato, laddove ciò che alimenta l’insoddisfazione risiede nelle condizioni contrattuali. Ciò che conta a pieno titolo, ci suggerisce Marco Locatelli, è coltivare una visione partecipativa alla propria realtà lavorativa, cercare comunanza di condizioni, di intenti, se non addirittura di status. Quest’ultimo non da intendersi prettamente nella sua accezione gerarchica, ma come riconoscimento del proprio ruolo dentro un’organizzazione in mutamento. È da una solidale partecipazione all’ambiente di lavoro che avviene la semina per il benessere personale e collettivo. Formarsi e darsi una militanza possono salvaguardare quella ricerca di senso a cui tendono tutti i lavoratori, bibliotecari compresi.