Dedico questa puntata della rubrica al ricordo di Carlo Revelli, da poco scomparso, il quale seguiva con interesse la biblioteconomia letteraria e di tanto in tanto mi inviava segnalazioni di romanzi che citavano le biblioteche, a cominciare da quando anni fa curavo il repertorio “Librariana” su AIB-WEB e fino a tempi recenti. Ci ha lasciato un grande maestro che ci mancherà.
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Nel 2020 è uscita per Rizzoli una riedizione del libro dello scrittore spagnolo Antonio Iturbe, La bibliotecaria di Auschwitz, basato sulla storia vera di Dita Kraus che, deportata in quel campo di concentramento, vi ha svolto effettivamente il ruolo di bibliotecaria. Il libro è uscito originariamente nel 2012 ed è stato tradotto in italiano l’anno successivo con il titolo di La biblioteca più piccola del mondo, e un richiamo all’opera di Alberto Manguel, La biblioteca di notte, che narra di una piccola biblioteca in un campo di concentramento e che rappresenta l’ispirazione di partenza per Iturbe. La nuova edizione, più appropriatamente, opta per una traduzione letterale del titolo originale ed è arrivata nell’anno in cui si è celebrato il 75− anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio del 1945 a opera delle truppe dell’Armata Rossa sovietica. Il campo fu costruito dai tedeschi nel 1940 nella periferia di Oświęcim, in Polonia, territorio che i nazisti avevano inglobato nel Terzo Reich, inizialmente allo scopo di spostarvi il crescente numero di polacchi che venivano arrestati in massa e sovraffollavano le carceri esistenti. Il primo trasporto di prigionieri arrivò il 14 giugno 1940 dal carcere di Tarnów. Auschwitz doveva essere un altro campo per il lavoro forzato, ma dal 1942 è diventato uno dei centri Endlösung der Judenfrage, per la cosiddetta “soluzione finale della questione ebraica”, e simbolo di quell’orrore inumano tragicamente passato alla storia che si percepisce anche solo percorrendone gli ambienti con il tour virtuale che l’Auschwitz Memorial rende disponibile online. Iturbe, invece, lo ha visitato nella realtà e ha conosciuto dal vivo Dita Kraus, sopravvissuta all’Olocausto e oggi novantunenne. Alle testimonianze dirette che ha raccolto, lo scrittore ha affiancato un’indagine giornalistica e le memorie narrate in alcuni libri di persone sopravvissute alla Shoah, tra i quali Il maestro di Auschwitz, di Ota B. Kraus, il marito di Dita. La riedizione del libro di Iturbe, che per il tema che tratta si fa fatica a definire romanzo anche se lo stile della scrittura è di fatto quello di un’opera di narrativa, ha anticipato di qualche mese l’uscita dell’opera autobiografica di Dita Kraus, pubblicata in Italia a gennaio 2021 dall’editore Newton Compton. Il titolo originale dell’autobiografia, A Delayed Life: The True Story of the Librarian of Auschwitz (2020), è stato incredibilmente tradotto dall’editore italiano con La libraia di Auschwitze davvero non si comprende come si possa pensare di tradurre in questo modo, quando finanche nella terza di copertina dello stesso volume si parla di Dita come della bibliotecaria di Auschwitz. Non si tratta del solito false friend della parola librarian, spesso tradotta erroneamente con libraio, ma di una scelta che rasenta l’ingiuria: come si può pensare che ad Auschwitz ci fosse una libreria, ovvero un luogo in cui i libri si comprano? Una superficialità che si ritrova altre volte nel libro autobiografico in italiano. Tale incuria nella traduzione non ha giustificazioni e lascia auspicare fin da subito che qualche editore più accorto ne curi quanto prima una traduzione rispettosa. Dal punto di vista dell’immagine dei bibliotecari, tale scelta aprirebbe riflessioni sul perché si decida di usare la parola “libraia” nel titolo invece che “bibliotecaria”, considerandola forse di maggiore attrattiva per il lettore. Si sarebbe potuta trovare una variante altrettanto efficace del titolo già usato da Iturbe, ma mantenendo la corretta definizione di “bibliotecaria”.
Dita Kraus a 13 anni
Lasceremo tali riflessioni a un’altra occasione, poiché in questa puntata di La biblioteca narrata, che esce a poca distanza dal Giorno della Memoria, ci preme tornare sul romanzo di Iturbe e sulla figura di Dita Kraus. Il romanzo di Antonio Iturbe è basato quindi sui fatti veri della vita di Dita Polach, nata a Praga e deportata nel 1942 nel ghetto di Theresienstadt e poi ad Auschwitz, intrecciati con alcuni elementi romanzeschi. L’intento, com’è evidente fin dal titolo, è di dare ampio rilievo al ruolo che i libri e il suo lavoro di bibliotecaria hanno avuto ad Auschwitz. L’autobiografia abbraccia invece una più ampia prospettiva dell’esperienza drammatica vissuta da Dita, prima con lo sradicamento improvviso dalla vita quotidiana per essere richiusa con la sua famiglia nel ghetto e poi con la deportazione nei campi di concentramento, di cui il lavoro nella biblioteca del Blocco 31 di Auschwitz è solo una parte. La dimensione spaziale e temporale, la percezione dei fatti e gli obiettivi della narrazione sono evidentemente diversi tra chi racconta una vicenda come questa avendola vissuta in prima persona e chi la racconta in base a una ricostruzione indiretta, per quanto accurata. Ognuna delle due opere deve dunque essere presa per quello che è, e i confronti non hanno molto senso. Ma faremo riferimento a un solo brano dall’autobiografia, quello che descrive la biblioteca:
Durante il giorno, i bambini stavano al Blocco 31, il Kinderblock. Non ricordo quando cominciai a lavorare lì. Accadde grazie a Fredy Hirsh, che riuscì a convincere il comandante delle SS a tenere i bambini nel blocco vuoto durante il giorno. I giovani dai quattordici ai sedici anni non erano considerati bambini, ma venivano impiegati come assistenti. Fredy era il Blockältester di quella contraddittoria struttura: offrivano una sorta di assistenza diurna a bambini destinati a morire nelle camere a gas qualche mese più tardi. Io avevo quattordici anni e mezzo. Fredy Hirsh mi affidò l’incarico di libraia della più piccola biblioteca del mondo. Il mio compito era quello di sorvegliare i dodici libri o giù di lì che costituivano la biblioteca. I libri erano una collezione dettata dal caso. Sulla rampa arrivavano ogni giorno migliaia di ebrei che venivano portati via, ma i bagagli restavano lì. Un gruppo di fortunati aveva l’incarico di smistarne il contenuto. Quando trovavano un libro riuscivano in qualche modo a farlo arrivare nel Kinderblock. Ne ricordo uno intitolato Breve storia del mondo di H.G. Wells. Un altro era un atlante con le cartine. Ho dimenticato gli altri titoli, ma Ruth Bondy sostiene che ci fosse una grammatica russa, mentre Eva Merová ricorda un libro di Karel Čapek. Fra le attività del Kinderblock c’erano i “libri parlanti”. Gli educatori che ricordavano bene un libro si spostavano da un gruppo all’altro per raccontarne la storia a puntate. Per esempio, Ruth raccontava L’anno del giardiniere di Čapek.
Dita Kraus in un'immagine del 2007
Per il seguito di questo articolo attingeremo solo al romanzo, che con l’artificio riesce a colmare i vuoti di memoria di Dita e degli altri protagonisti, e nel quale peraltro tutti i riferimenti sono a personaggi realmente esistiti. L’attività della biblioteca nel Blocco 31 è ovviamente segreta, e la bibliotecaria Dita rischia la vita se la scoprono, poiché, racconta Iturbe,
ad Auschwitz è categoricamente proibito, se vengono scoperti rischiano la condanna a morte. Questi oggetti così pericolosi, che già solo a possederli si rischia la vita, non sparano, non sono appuntiti, taglienti o contundenti. Sono semplici libri: vecchi, squadernati, con le pagine strappate, quasi completamente a pezzi. Eppure i nazisti ne vanno a caccia in modo ossessivo, e quando li trovano li bruciano. Nel corso della Storia i dittatori, i persecutori e i tiranni di qualsiasi credo, razza, colore o ideologia, che difendessero la rivoluzione popolare, i privilegi delle classi benestanti, il mandato di Dio o la disciplina sommaria dei militari, hanno avuto questo in comune: la vocazione a censurare e a distruggere i libri. Perché i libri sono pericolosi: fanno pensare.
Non solo i libri fanno pensare. In quella situazione in cui aleggiano morte e disperazione, i libri consentono ai prigionieri di allontanarsi con la mente e vivere un’altra vita, sia la loro prima della deportazione, poiché i libri “sono un ricordo della vita prima delle recinzioni di filo spinato e della paura”, sia quella di altri, in quanto i libri “amplificano la vita e permettono di conoscere persone”, i loro protagonisti, e raccontano una realtà “molto più autentica e comprensibile di quella che [Dita] aveva intorno”, una realtà immaginaria alternativa in cui rifugiarsi. Dita legge e così si allontana con la mente, soprattutto nei momenti più duri della prigionia, prima con La montagna incantata di Thomas Mann, un’opera scoperta quando era nel ghetto di Theresienstadt, e poi con i libri della biblioteca di Auschwitz, che legge nascosta nelle latrine del campo. I libri vengono tenuti nascosti dal kapò in un buco scavato nella terra all’interno della baracca del Blocco 31, dove si svolgono attività scolastiche volute da Hirsh, che ha organizzato anche il “servizio bibliotecario” e Dita li trasporta non più su un carrello come faceva a Theresienstadt, quando aiutava la bibliotecaria di una grossa biblioteca, ma nascosti in una tasca interna cucita nel vestito. La biblioteca della città-ghetto “raccoglieva circa sessantamila volumi, provenienti tutti dallo smantellamento e dal saccheggio fatto dai nazisti di centinaia di biblioteche pubbliche e private della comunità ebraica. Non c’era ancora una sala lettura, perciò la biblioteca era ‘mobile’: portavano i libri nei diversi padiglioni del campo e li davano in prestito”. La biblioteca di Auschwitz contava invece “otto volumi cartacei e una mezza dozzina di libri viventi”, ovvero libri raccontati a voce da persone che li avevano letti in passato e ne ricordavano le trame. Gli otto volumi sono “un atlante squadernato a cui mancava qualche pagina e che mostrava un’Europa con paesi e imperi che non esistevano più da tempo”; un Trattato elementare di geometria; una copia di Breve storia del mondo di H.G. Wells; Il Conte di Montecristo di Dumas; Nuove strade della terapia di Freud; Le vicende del bravo soldato Svejk di Jaroslav Hašek e un altro romanzo in russo senza copertina, una grammatica russa. In pratica, quei libri rappresentavano “la saggezza raccolta in secoli di civiltà” che però non è stata sufficiente per fermare un genocidio come quello perpetrato dal Nazismo e la regressione alla brutalità e violenza ingiustificata degli uomini verso altri uomini. I libri del Blocco 31 possono essere presi in prestito di giorno, ma ogni sera devono essere riposti nel nascondiglio. Sono necessari soprattutto agli insegnanti che fanno lezione ai bambini e che devono restituirli “a ogni cambio d’ora perché possano passare a un’altra persona e lei possa controllare che sia tutto in ordine”. Infatti, Dita “quando li ritira li controlla, come una madre severa che passi in rassegna i graffi sul ginocchio di un bambino che torna a casa dopo aver giocato per strada”. Si prende cura dei libri “come fossero feriti di guerra”. Il Blocco 31 serve alle SS come vetrina per mostrare al mondo che ad Auschwitz le cose non vanno così male come raccontano certe voci e dunque l’attività in quella baracca viene tollerata e i 521 alunni che la frequentano sono salvi. Almeno per un po’ di tempo, fino a quando i tedeschi pressati dalle prime avvisaglie della sconfitta diventano ancora più feroci. Dita è una sopravvissuta. Verrà liberata dai soldati britannici nell’ultima tappa degli spostamenti dopo Auschwitz, il campo di Bergen-Belsen. Ha pagato un prezzo altissimo e visto morire i suoi genitori e i suoi amici. Ma quando vede un infermiere inglese leggere dei libri, ne rimane incantata, tanto che l’uomo gliene regala due. Sono in inglese e Dita non capisce una parola ma “tenere di nuovo in mano dei libri vuol dire che la vita ricomincia a funzionare, che i pezzi del puzzle che qualcuno ha disfatto a calci tornano piano piano al loro posto”.