Non proprio per bambini, ma per bambini: Mario Tobino (1910-1991)
Studioso di biblioteconomia
Abstract
L'articolo è il primo di una serie di contributi che si propongono di analizzare le opere di grandi scrittori rivolte a un pubblico di bambini. In particolare, questo lavoro è dedicato a Mario Tobino e intende dimostrare, attraverso un esame interpretativo e filologico, come alcuni contenuti siano simili tra le opere per adulti e quelle scritte per bambini.
English abstract
The article is the first in a series of contributions that aim to analyze the works of great writers aimed at an audience of children. In particular, this work is dedicated to Mario Tobino and intends to demonstrate, through an interpretative and philological examination, how some contents are similar between works for adults and those written for children.
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Con questo breve contributo, inauguro quella che – almeno negli intenti – si prefigge di essere una rassegna di approfondimenti riservata a numerosi scrittori italiani che, seppur noti al grande pubblico per una produzione schiettamente indirizzata a lettori adulti, si sono cimentati almeno una volta nella loro carriera nella scrittura di un libro per bambini o ragazzi.
Allo stato attuale, sono riuscito a rintracciare un numero consistente di autrici e autori, alcuni dei quali oserei dire insospettabili, che si sono avvalsi del loro talento per dare alle stampe albi illustrati, racconti brevi, e romanzi destinati all’infanzia.
Data la vastità del patrimonio e la varietà del materiale reperito, non è stato affatto semplice immaginare e poi costruire un piano di studi in grado da un lato di preservare la complessità e la specificità di generi e autori, dall’altro di garantire omogeneità al lavoro, inteso nella sua visione d’insieme. Per riuscirci, quindi, ho ritenuto opportuno innanzitutto stabilire dei limiti di indagine circoscrivendola al patrimonio letterario italiano e scegliendo opere adatte a una fascia d’età compresa tra i 3 e i 14 anni scritte da scrittrici e scrittori noti soprattutto per la creazione di contenuti rivolti agli adulti. Ho tralasciato quindi altri artisti la cui fortuna è distribuita in egual misura tra narrativa indirizzata a lettori maturi e all’infanzia. Spesso ho tralasciato le rielaborazioni di testi adattate per le edizioni scolastiche, specialmente quelle che ho ritenuto disallineate rispetto all’economia di questo lavoro, e anche libri di cui non sono riuscito a individuare con disinvoltura una collocazione specifica. Mi riferisco ad autori le cui opere sono da considerarsi consacrabili a un pubblico di ampio respiro e per le quali ogni tentativo di includerle entro confini anagrafici risulta a dir poco fallace. Tra questi, ad esempio, posso citare l’Italo Calvino della trilogia de I nostri antenati o di Marcovaldo, capolavori che ancora oggi, personalmente, faccio fatica a classificare in tal senso. Sotto il profilo esegetico, invece, devo ammettere che le scelte da me operate si sono rivelate relativamente più semplici perché ben impiantate in un terreno filologico che mi ha permesso di muovermi con maggiore dimestichezza e, là dove possibile, con rigore scientifico. In particolare, penso a delle disamine interpretative che tengono conto di analisi intertestuali e comparative tra le opere per adulti e per bambini uscite dalla penna di uno stesso autore/autrice, dello stile, dell’onomastica letteraria, del contesto storico e socioculturale, delle note biografiche, e via dicendo. Rispetto quindi all’operazione abrasiva riconducibile alla necessità di delimitare la struttura dell’opera, l’approccio di stampo filologico può forse essere giudicato in un certo senso più libero, seppur circostanziato entro i confini della materia. Tuttavia, quest’ultima affermazione non deve essere stimata da chi legge come un alibi per giustificare, in talune circostanze, la presenza di sovrainterpretazioni, la cui esistenza però – e lo dico in questo caso a mia discolpa – è dovuta sia alla lacunosità delle fonti che al desiderio di avviare un dibattito. Nell’avvicinarsi alla lettura di questo come di altri articoli che saranno, è necessario ricordare che le opere per bambini/ragazzi edite dall’immaginazione di grandi scrittori sono forse giudicate il più delle volte alla stregua di divertissements letterari, e per questo ignorati o comunque sottovalutati dalla critica.
Un riscontro pratico di quanto appena affermato lo si ritrova proprio nel primo autore a cui ho deciso di rivolgere la mia attenzione, vale a dire Mario Tobino, il quale, a quanto mi risulta, ma sono ben felice di essere smentito, ha pubblicato soltanto due storie per bambini, talaltro molto simili nei contenuti a tal punto da poter essere considerate due varianti di una medesima trama.
Premetto col dire che le notizie a riguardo sono davvero scarse, anzi addirittura nulle; malgrado abbia sfogliato diverse monografie dedicate allo scrittore non sono riuscito a reperire alcuna indicazione utile se non la data di pubblicazione delle due opere, vale a dire di Eolina la fata dei mozzi uscito per la Lisciani & Giunti nel 1980 nella collana “C’era non c’era”, e di Truppino pubblicato da Cartedit Junior nel 1999 (quindi postumo) nella collana “Racconti del castello senza tempo”. Entrambe le collane sono risultate indispensabili per questo e per i lavori che saranno.
Eppure, le due storie appena citate presentano aspetti interessanti, soprattutto perché in poche e semplici pagine parrebbero condensare l’intera poetica dello scrittore viareggino e sintetizzare i temi già ampiamente trattati nelle sue opere per adulti.
Nella fattispecie, mi riferisco a contenuti esplicitati nelle raccolte poetiche e nella narrativa che sono valsi allo scrittore premi prestigiosi quali lo Strega e il Campiello e che possono ormai essere certificati come dei punti fermi della sua produzione letteraria. Mentre scrivo, penso ad esempio alla passione viva dell’autore per il mare e la navigazione, all’amore viscerale nutrito per la madre, e alla profonda attenzione per la malattia mentale, quest’ultima spesso vista e analizzata attraverso le lenti dello psichiatra, ovvero la principale professione di Tobino.
Entrando più nel dettaglio, comincio col dire che Eolina la fata dei mozzi è una favola a lieto fine il cui intreccio ha come protagonista un ragazzino di dodici anni, Maurizio, imbarcato come apprendista mozzo su una nave durante un viaggio. Giunta sulle coste del litorale laziale, l’imbarcazione però è colta di sorpresa da una tempesta, e il capitano, per salvaguardare la vita del piccolo, decide di rinchiuderlo nella sua cabina evitandogli quindi spiacevoli incidenti. Una volta al sicuro, Maurizio si addormenta beatamente, ma il mattino dopo si rende conto che la nave si è arenata chissà dove lasciandolo intrappolato nella stanza. L’unico modo per tentare di comunicare con il mondo esterno è rappresentato da un piccolo oblò dal quale il ragazzino prova a chiedere aiuto. La vicenda però volge al meglio quando la fata Eolina, sua protettrice, riesce a liberarlo con la complicità di un pastore. Non è dato sapere invece circa le sorti dell’equipaggio, anche se gli indizi disseminati nel testo non sembrano suggerire esiti positivi.
Come ho affermato poc’anzi, la storia è in realtà una favola, e come tale rispetta alcune delle trentuno funzioni individuate da Propp nel suo celebre Morfologia della fiaba. Tra queste ad esempio:
- Allontanamento: Maurizio abbandona la sua città per avventurarsi in un viaggio per mare.
- Danneggiamento o mancanza: anche se presumibilmente a fin di bene, il capitano richiude a chiave il protagonista, negandogli di fatto la libertà di movimento.
- Inizio della reazione: il ragazzino si rende conto del suo stato di prigionia e prova a chiedere aiuto.
- Rimozione: Maurizio viene liberato.
- Salvataggio: il fanciullo riesce ad uscire dalla cabina e a mettersi in salvo.
A quanto appena detto va inoltre aggiunta la presenza di uno fra i sette personaggi tipo indicati sempre nello studio del linguista e antropologo russo, ossia l’Aiutante Magico, in questo caso impersonificato dalla fata Eolina. Per quanto riguarda quest’ultima, appare evidente la volontà dell’autore di rifarsi alla mitologia greca, e in particolare al dio Eolo. È tuttavia forse interessante sottolineare un altro aspetto che può essere sintetizzato nella probabile intenzione dello scrittore di favorire l’incrocio tra due mondi, vale a dire quello afferente alla mitologia classica, messo in luce dalla scelta dell’antroponimo Eolina, con quello caratteristico di una dimensione più popolare, legato invece alla figura della fata.
Non deve neanche meravigliare la scelta di Tobino di trasformare il dio del vento in una ragazzina non solo perché di fatto incarna una fata, ma anche per la sensibilità dello scrittore per l’universo femminile attestata più volte nei suoi lavori, a cominciare da Le libere donne di Magliano. Eolina nella sua caratterizzazione di creatura buona e misericordiosa ricorda inoltre i tratti distintivi tracciati dallo psichiatra toscano a proposito della madre, un affetto celebrato nei componimenti poetici e figura centrale del romanzo autobiografico Le braci dei Biassoli:
Distinguevo subito il bianco dei capelli di mia madre, nella prima panca a sinistra, che, subito avvertita, si alzava, mi sorrideva, e il cuore, qualsiasi cosa avessi fatto, mi rifaceva innocente.
Non so se ho avuto molti favori, quello della madre sì: intenderci senza parlare, non covare il più lontano dei dubbi, vederla come la bellezza che non ha il peso della carne, per lei esser sicuro della esistenza dell’anima.
E ancora, a più riprese nei Diari, leggiamo espressioni quali: “Che luce, aver avuto una madre onesta e santa come la mia”; “Il segreto, che rimarrà forse segreto, è che mia madre aveva il modesto (e sublime) animo di santa”.
Nella fiaba la nostalgia per la madre scomparsa accompagna i giorni dell’orfanello Maurizio, un sentimento che la sera, dopo il duro lavoro sulla nave, si fa consolazione per la stanchezza e forza vitale per non cedere alla fatica. Una mancanza, quella della figura materna, che viene tuttavia colmata proprio dalla presenza benevola di Eolina, la quale veglierà sul piccolo e lo condurrà alla salvezza:
Correva tutto il giorno, tutti lo comandavano; la sera si buttava sulla cuccetta, per un attimo riusciva a pensare a sua madre e già era sprofondato nel sonno.
[…] La fata Eolina, che protegge i bambini costretti a lavorare sui bastimenti, che è amica dei mozzi specie se sono orfani, dall’alto lo seguiva ed era contenta per quanto era bravo.
L’immagine di una madre, e per l’esattezza la sua, protettrice e benevola come Eolina, è in sostanza quella che Tobino disegna anche in vari luoghi della sua produzione letteraria, spesso arricchendone l’immagine di un potere simbolico che rimanda inevitabilmente all’idea di salvezza. Nell’analisi che Massimo Grillandi compie sull’argomento sembra piuttosto semplice dedurre la possibile somiglianza tra lo scrittore e il giovane Maurizio della fiaba:
Poiché lo scrittore ha eletto di avere come professione quella di curare i malati di mente, egli deve esorcizzare i fantasmi che da ogni lato lo circondano. Le urla notturne, le risate agghiaccianti, lo spettacolo della dissoluzione psichica ancora più grave di quella fisica. Nella sua fossa dei serpenti, il poeta doveva trovare un punto di appoggio, una valvola di sicurezza che desse alla sua vita quello slancio vitale che la prosaicità quotidiana, il male elevato a sistema, le brutture, quanto di più laido è in un manicomio, residuo medioevale nel pieno della nostra epoca, sembravano a ogni istante dover elidere. Così il fantasma della madre, il suo ricordo, costituiscono una specie di rifugio che il poeta idealizza e perfeziona lungo tutta la sua carriera, sembrandogli anche di avere mancato – lui lontano, lui indifeso, lui debole di fronte alla vita – a quel dovere di protezione che ogni figlio dovrebbe […].
Ma Eolo, figlio di Poseidone, padrone dei venti, è soprattutto una figura in stretta connessione con il mare, tant’è che Virgilio nell’Eneide gli affida un ruolo decisivo in qualità di agente della terribile tempesta scatenata contro la flotta di Enea e placata poi da Nettuno.
Il mare e coloro che lo vivono ogni giorno, così come la realtà agricola e la follia sono temi ricorrenti nelle opere dello scrittore toscano, anzi, rappresentano elementi costituzionali che rendono la sua produzione immediatamente riconoscibile. Sono mondi che Tobino conosce bene, scenografie e universi culturali che ne hanno accompagnato la giovinezza contaminandola di un sapere esperienziale e di un gergo specialistico riversati poi con un certo automatismo nella sua creatività di narratore:
Viareggio e il mare rappresentano dunque l’infanzia e la giovinezza di Tobino: le esperienze dirette di vita, senza intralci di convenzione, senza eccessive implicazioni sociali, di una vitta piuttosto elementare e franca, senza sottintesi condotta tra estremi sentimenti eccessivi, sempre per un’esuberante disposizione ad amarla.
Nella formazione culturale di Tobino questi dati di fatto appaiono fondamentali, decisivi nel determinare le scelte, nell’indirizzare il gusto, nella creazione di una poetica altrettanto semplice, alla cui base sta la necessità razionale di inserire nella vita di tutti i giorni questa somma di forti passioni, questa naturale e generosissima violenza.
Il mare, ad esempio, è il vero protagonista di racconti come La gelosia del marinaio (1942), L’angelo del Liponard (1951), Sulla spiaggia e di là dal molo (1966), e, ovviamente, delle due favole in esame. Tuttavia, le distese d’acqua salata non evocano soltanto scenari confortanti né si limitano a simboleggiare quel sentimento di profonda libertà di cui l’animo di Tobino è pregno fin dai primi anni della sua esistenza; il mare – in piana sintonia con la tradizione classica – è spesso nelle opere dello scrittore viareggino assimilabile a quello affrontato da Ulisse o dalla Provvidenza della famiglia Malavoglia: uno strumento di salvezza, ma anche un contenitore colmo di insidie. Con tale accezione, lo ritroviamo ad esempio in Addio a un marinaio, uno dei più noti racconti brevi di Tobino inserito nella raccolta “Per le antiche scale”, in cui il mare è responsabile di eventi funesti e forse un acceleratore per la follia di Brugi:
“Diceva che c’erano angioli dietro le vele, li vedeva apparivano e sparivano, che il pescecane era il diavolo, il diavolo nero.”
“E poi?”
“Gli angioli parlavano… Bongi era un bravo marinaio, non c’era nessuno svelto come lui a montare a riva.”
“Ma che diceva?”
“Vaneggiava. Dovremmo legarlo in cuccetta”.
D’altro canto, sia in Eolina la fata dei mozzi che in Truppino le vicende prendono le mosse da un naufragio di cui l’autore, consapevole del pubblico destinatario, evita di descriverne i particolari più drammatici, lasciando ai lettori l’intuizione di un esito non proprio felice almeno per quanto riguarda l’equipaggio.
Il mare, quindi, si rivela anche qui un elemento essenziale anche se destabilizzante per i personaggi, l’ostacolo che innesca l’intreccio, che costringe alla cattività sia Maurizio che Truppino, quest’ultimo anche lui un piccolo mozzo, protagonista dell’omonima favola. È impossibile affermare con certezza se nelle intenzioni di Tobino fosse presente anche quella di assimilare allegoricamente il tema della tempesta alla follia. Non sussistono prove certe, eppure, a ben pensarci, entrambe sono in fondo accumunate dal senso di squilibrio e agitazione di cui si fanno portatrici, e inoltre la somiglianza tra le cabine in cui vengono rinchiusi i piccoli mozzi e le celle che formano i reparti del manicomio descritte ne Le libere donne di Magliano concede spazio a una suggestione interpretativa. Nel romanzo appena citato, si legge infatti:
Le celle sono piccole stanze dalle pareti nude; in un angolo v’è un reticolato, dal quale, d’inverno, proviene l’aria calda del termosifone.
La porta ha nel mezzo una spia con un vetro molto spesso sì che non si può rompere nemmeno coi pugni; attraverso questa spia ogni tanto l’infermiera sorveglia l’ammalata.
Le celle si dividono in semplici e di sicurezza, quelle semplici hanno una finestra alla solita altezza e di grandezza normale (però con i veri molto spessi e con una serratura da potersi chiudere a chiave); la cella di sicurezza ha invece una finestrella in alto alla quale non si può arrivare neppure saltando.
Mentre nelle favole:
Il mare cominciò a calmarsi, il vento non soffiò più così forte e allo spuntare del giorno, attraverso l’oblò, la finestrella della cabina del capitano, entrarono i raggi del sole.
Ora, chiuso a chiave, Truppino capisce che anche la cuccetta del capitano è piccola […] Ma non c’è lume, in piedi non si può stare ché si batte contro le pareti.
I punti di contatto tra le opere non si esauriscono però nella descrizione degli ambienti di reclusione ma contemplano anche altri aspetti, tra cui la caratterizzazione dei personaggi. Nel dettaglio mi riferisco agli infermieri che popolano i manicomi nei libri di Tobino, i quali parrebbero provenire dal medesimo contesto rurale a cui appartiene anche il pastorello sprovvisto di nome che aiuterà Eolina a liberare Maurizio. Un altro elemento in comune, seppur con gradi di drammatizzazione e scelte lessicali differenti, è dato dai sentimenti di solitudine, disperazione e abbandono che avvolgono sia i pazienti degli ospedali psichiatrici che entrambi i bambini intrappolati nelle rispettive imbarcazioni. Come accennato in precedenza, Eolina la fata dei mozzi (1980) e Truppino (1999) sembrerebbero essere le uniche due storie per bambini uscite dalla penna di Tobino, o perlomeno a essere state pubblicate. Confrontando le due opere, la prima doverosa considerazione da avanzare in merito riguarda la netta sovrapponibilità delle trame, anche se con talune differenze evidenti. Innanzitutto, è necessario ricordare che i protagonisti sono entrambi bambini e alle prime esperienze da mozzo. D’altro canto, l’immagine del piccolo marinaio non è nuova all’autore, il quale già molto tempo prima ne Il deserto della Libia (1951) presenta al lettore un personaggio dalle caratteristiche simili:
A bordo, in uno di questi, a Tripoli, custode, c’era Favaccia, il quale era un mozzo di quindici anni, con gli occhi assonnati e la voce cantilenata tale un marinaio avvezzo a ogni corda (ma non era vero). Dormiva a bordo, solo, con tre gattini appena nati, che aveva raccolti su una porta, e che dormivano vicino a lui, nella stessa cuccetta, tre gattini da soppesare tutti e tre in una mano. La notte a Tripoli si sentiva la sirena perché il bombardamento si iniziava. Favaccia si svegliava, il porto era illuminato dai razzi che i volatori notturni avevano lanciato, poi tiravano giù le bombe. I bastimenti erano in mezzo alla luce. Allora Favaccia spingeva la schiena nell’angolo oscuro della cuccetta, si apriva i bottoni della camicia, prendeva i tre gattini e si li metteva nel tepore del seno, e attentissimo, alla morte che si poteva avvicinare in brevi attimi, li cullava teneramente. Era un ragazzo di quindici anni.
Dei due marinai in erba, conosciamo con esattezza soltanto l’età di Truppino, ossia un dodicenne che, come il personaggio di Eolina la fata dei mozzi è alle prime armi, orfano, e decisamente nostalgico a causa della dipartita della madre. Il suo nome inoltre giunge direttamente dall’infanzia dello scrittore, così come è lui stesso a testimoniarlo nel suo Sulla spiaggia e di là dal molo:
Il mio segreto, e modesto segreto, è tutto qui: perché ero, sono stato della teppa del Piazzone [cors. nel testo], e Ganzù, Adriatico, Truppino, Tanacca, Tono, Osvaldo, all’improvviso, uno dopo l’altro un giorno non c’erano più, erano andati in mare come mozzi, ragazzi di bordo. I loro padri erano marinai, qualcuno padrone di barca, e a loro insaputa li imbarcavano, li avviavano al loro cammino. Con doloroso stupore un giorno domandai:
“Ma dov’è Truppino?”
“È andato in mare”.
Il mio segreto, e modesto segreto, è tutto qui: perché ero, sono stato della teppa del Piazzone [cors. nel testo], e Ganzù, Adriatico, Truppino, Tanacca, Tono, Osvaldo, all’improvviso, uno dopo l’altro un giorno non c’erano più, erano andati in mare come mozzi, ragazzi di bordo. I loro padri erano marinai, qualcuno padrone di barca, e a loro insaputa li imbarcavano, li avviavano al loro cammino. Con doloroso stupore un giorno domandai:
“Ma dov’è Truppino?”
Ciò denota ancora una volta di quanto l’ambiente, la familiarità dei luoghi in cui Tobino ha vissuto e gli abitanti con cui è venuto a stretto contatto abbiano inciso profondamente sui contenuti della narrazione e sulla costruzione dei personaggi descritti nelle sue opere.
Prima di procedere con l’analisi comparativa tra le due favole, mi sembra giusto evidenziare la differenza di pubblico a cui esse sono rivolte, soprattutto per ciò che concerne l’età dei destinatari. Nell’edizione del 1990 di Eolina la fata di mozzi, la casa editrice Lisciani & Giunti ne suggerisce la lettura a bambini di sette anni, mentre sulla copertina di Truppino l’età consigliata da Cartedit è di nove. Questa discrepanza anagrafica, seppur quasi impercettibile se tarata sulla durata della vita, appare invece piuttosto significativa per comprendere alcune lampanti differenze tra i due testi.
Sul piano sintattico, ad esempio, il racconto del 1999 presenta una struttura ben più complessa; le proposizioni sono perlopiù articolate e riflettono la scelta di uno stile maggiormente elaborato rispetto a quanto invece si registra in Eolina la fata dei mozzi. A mutare in modo sensibile sono anche la semantica e il registro linguistico che in Truppino rinviano a una dimensione più specialistica e settoriale riconducibile – come intuibile – al contesto marinaresco: “[…] però il mare ha un colore molto più fondo”; “Il bastimento che in darsena sembrava […]”; “Tiene poco il mare” [virgolette nel testo]; “tra un’onda e l’altra attraversano il bastimento andando verso poppa […]”; “[…] come se si fosse sulla spiaggia quando è mare calmo e sulla battima ci rotola […]”; “Però sopra coperta non si sente nessun passo”.
Sotto il profilo dei contenuti, entrambe le favole narrano di un naufragio, esperienza vissuta in prima persona da Tobino e ricordata in una intervista a Felice Del Beccaro:
Durante un viaggio su un motoveliero si guastò il motore e il vento mancava; la barca per tre giorni rimase ferma in mezzo alla distesa abbacinata. Una notte ero sulla prua con un vecchio marinaio e questo si mise a raccontare una storia, di una bonaccia al tempo della vela, durata molti giorni e c’era a bordo la giovane moglie del capitano.
Anche se non è stata mia facoltà riuscire a risalire con certezza al periodo di stesura di Truppino, è evidente che quest’opera, rispetto alla precedente, presenta dei tratti più realistici che trovano concretezza, ad esempio, nell’abbandono di quell’elemento fantastico invece così spiccato in Eolina la fata dei mozzi. Il ruolo di deus ex machina è infatti affibbiato a un vecchio marinaio dalle caratteristiche e dalle fattezze umane, vere, perfettamente sovrapponibili a quelle di un individuo in carne e ossa con cui Tobino ha senza dubbio interagito nella sua vita. Animali in grado di comprendere il linguaggio degli uomini, fate, epifanie e sparizioni improvvise, camuffamenti: tutto quanto presente nelle pagine della prima fiaba si dissolve invece in Truppino, disinnescando quindi il racconto della magia tipica delle favole. Il risultato è una storia possibile, svincolata dall’incanto, affrancata dal trucco, proiettata al contrario all’evidenziazione del particolare e del dato, così come dimostrano le informazioni dettagliate fornite dall’autore sulla vicenda. A differenza di quanto può leggere in Eolina la fata dei mozzi, qui il lettore è a conoscenza dell’età esatta del protagonista (12 anni), può ripercorrere nella mente il tragitto preciso dell’imbarcazione (da Genova a Napoli), riesce a individuare le qualità fisiognomiche del marinaio liberatore, assorbe per osmosi le emozioni del ragazzino espresse con una profondità psicologica soltanto lambita nella prima delle due favole. Tra queste, c’è senza dubbio la speranza nutrita dal piccolo di diventare un giorno un esperto uomo di mare. A nessuno è dato sapere cosa ne sarà in realtà del protagonista dopo l’avventura vissuta: se deciderà di insistere in tale carriera oppure se si dedicherà ad altro. Ciò che si può dire però è che, prendendo in prestito un termine cinematografico, la favola di Truppino parrebbe essere una sorta di spin-off de Sulla spiaggia e al di là del molo. Inoltre, quest’ultima opera fornisce anche degli elementi per immaginare le sorti future del bambino, le quali, per proprietà transitiva, non dovrebbero differire dal destino comune che lo scrittore riserva a tutti gli amici d’infanzia del Piazzone:
I miei amici erano partiti; riapparivano per pochi giorni, dopo tanti mesi; erano diventati affettuose immagini fluttuanti tra lontane onde. […] Li miravo da distante e forse di più afferravo tutto. Da mozzi erano diventati marinai.
Concludendo, ribadisco l’ipotesi secondo cui nella stesura delle storie appena prese in esame possa rintracciarsi l’intenzione di Tobino di mantenersi fedele alla volontà di esternare gli stessi mondi e contenuti descritti e trattati nei volumi per adulti. Sono persuaso a ritenere che le favole siano infatti la sintesi del suo percorso narrativo, e per questo in continuità con opere più strutturate. In queste brevi storie, sembrerebbe che lo scrittore renda omaggio alla sua vita, riassumendo con stile semplice le tappe che lo hanno segnato: dalle esperienze dell’infanzia alle scelte professionali. Non un altro Tobino, quindi, ma solo la sua versione esemplificata, resa tale per essere divulgata a un pubblico di bambini, così da garantirne più diffusamente l’universalità del messaggio.