N.6 2021 - Biblioteche oggi | Settembre 2021

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Dei muri con le bocche

Claudia Bocciardi

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In biblioteca anche i muri hanno orecchie – spesso se le tappano per non udire le scempiaggini della “Fracassi” di turno – ma, a onor del vero, in biblioteca i muri hanno soprattutto bocche. 

Bocche che raccontano, esattamente come quelle degli scaffali zeppi di libri. E cosa raccontano? Vi chiederete. Raccontano storie e, dietro le storie, ci sono sempre le persone. Le vecchie locandine appese parlano di eventi e giorni ormai passati, gli avvisi (Ah! Quanto scotch! Che orrore!) urlano divieti o cortesi richieste, parlano di nuovi orari che soppiantano quelli vecchi e annunciano la “Wi-fi Zone” (quasi sempre, va detto, si tratta di una linea interna lenta come una mucca al pascolo che fa venire il latte alle ginocchia). I muri raccontano di un’era pre-Covid, dove persino la riunione del gruppo di lettura con quattro gatti, oggi, sarebbe un evento pazzesco. Parlano di assembramenti alle rassegne di promozione della lettura e code al bancone prestiti. Allora avevano altre parole. I muri hanno voci colorate di ogni tipo: luci di sicurezza, rilevatori di fumo, altoparlanti, telecamere. I muri parlano con i colori sgargianti dei naspi antincendio e degli estintori. Tra tutte queste cose che dialogano sommessamente tra loro, abitano presenze solenni e silenziose. 

Per esempio il DAE (Defibrillatore automatico esterno). Solitamente campeggia defilato su una porzione di muro, non lontano dall’ingresso, e se per caso la vostra biblioteca ne possiede uno, allora è proprio una biblioteca fortunata. Da noi il DAE ha la faccia sorridente di Franco, un collega comunale che se n’è andato in una mattina di maggio di qualche anno fa, sul tragitto casa-lavoro. Sulla targhetta che lo ricorda, vicino allo sportello del mobiletto, c’è proprio la sua foto. Un momento felice fermato nel tempo che parla di un uomo mite e bonaccione. Il DAE, da noi, è Franco. Scommetto che molti tra voi che hanno il defibrillatore nella propria biblioteca hanno seguito il corso per imparare a utilizzarlo, in caso di necessità. Già. I corsi di primo soccorso: vogliamo parlarne? Se per caso siete attempati come me, ne avrete senza dubbio fatti più d’uno. Sicuramente avrete più volte maltrattato il manichino della prova pratica, quel mezzo busto che fa un po’ senso – diciamolo – così, senza braccia né gambe, alla mercè di chiunque. Gli avrete senz’altro sfondato il petto per la troppa foga nel praticare il massaggio cardiaco, oppure fatto il solletico, gli avrete insufflato aria nei polmoni finti, attraverso la bocca di poliuretano espanso, ridacchiando svagati – l’aria smargiassa – come si fa di solito ai corsi, tra le battute dei colleghi e gli sguardi canzonatòri. Il tutto sotto gli occhi di qualche medico disincantato o di qualche infermiere permaloso che vi hanno guardato con aria stanca. Si sa come vanno queste cose, vero? Questi corsi sono sovente presi sottogamba, sono perlopiù occasioni per rompere la routine lavorativa. Nessuno di voi ha mai pensato seriamente che tutte quelle manovre potrebbero tornare utili per davvero né che le domande teoriche dell’intervista di un operatore del 112 possano concretizzarsi in una reale richiesta di soccorso, nella vostra biblioteca. 

Succede sempre altrove. Non qui. Non da noi.
Eppure, alle volte, la sorte gioca certi tiri mancini, destinati a cambiare il corso di una giornata e di un’esistenza, persino a cambiare la percezione dello spazio fisico di un ufficio. Succede, in biblioteca, che una collega, d’improvviso si spenga, come spegnere un interruttore, si accarezzi le mani con aria assente e non riesca più a parlare. 

E tu rimani lì, incerto sul da farsi, per qualche frazione di secondo lunga un anno.
Ed ecco che capisci che quel momento è arrivato e che non è per finta: tocca darsi da fare e chiamare il soccorso. Tocca essere lucidi nelle spiegazioni quando la mente è un vortice ruggente, tocca aprire le porte d’emergenza per far entrare i militi di un’ambulanza, fare largo e mantenere il sangue freddo. 

E mentre lei, la collega, ti guarda e non parla, issata sulla barella, tu comprendi in una frazione di secondo che nulla per lei sarà mai più come prima. E neppure per te. Ecco che allora i muri potranno raccontare anche questo. La storia di una donna, alta e forte come un torrione, che ha smesso di parlare in una mattina di giugno. 

Questa puntata della rubrica è dedicata a Iliana che, mentre scrivo, si sta impegnando nella rieducazione alla parola in una struttura specializzata.