Scienza aperta: una rivoluzione incompiuta
Politecnico di Torino, Servizio Programmazione Sviluppo e Qualità rossana.morriello@polito.it
Abstract
Partendo dal volume di recente pubblicazione La rivoluzione incompiuta: la scienza aperta tra diritto d'autore e proprietà intellettuale, che raccoglie cinque saggi di Roberto Caso, professore di diritto comparato all'Università di Trento, l'articolo affronta alcune delle principali problematiche della comunicazione accademica. Caso esamina i punti chiave dei temi in continua evoluzione, con particolare attenzione all'Italia, e ad essi l'autrice dell'articolo aggiunge le sue considerazioni, che riguardano gli attuali sistemi di valutazione della ricerca, la bibliometria, l'open access, il diritto d'autore e il ruolo delle biblioteche accademiche.
English abstract
Starting from the recently published book La rivoluzione incompiuta: la scienza aperta tra diritto d’autore e proprietà intellettuale, which collects five essays by Roberto Caso, professor of comparative law at the University of Trento, the article faces some of the main issues in scholarly communication. Caso examines the key points of the constantly evolving topics involved, with a particular emphasis on Italy, and to them the author of the article adds her considerations, covering current systems for research evaluation, bibliometrics, open access, copyright and the role of academic libraries.
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Considerazioni a margine del libro di Roberto Caso
Il volume La rivoluzione incompiuta: la scienza aperta tra diritto d’autore e proprietà intellettuale raccoglie cinque contributi di Roberto Caso, professore associato di Diritto privato comparato all’Università di Trento, pubblicati in varie sedi tra il 2017 e il 2019 e disponibili singolarmente ad accesso aperto, come anche l’intero volume sul sito dell’editore. Caso è uno studioso e sostenitore dell’open science da molti anni ed è tra i fondatori, nel 2015, dell’Associazione italiana per la promozione della scienza aperta (AISA). La scelta di affiancare i contributi in un unico volume offre un doppio valore aggiunto. In primo luogo, la presenza di un’introduzione e di un breve capitolo conclusivo dell’autore nei quali vengono evidenziate le linee portanti del dibattito sull’open science. Inoltre, l’insieme dei capitoli offre al lettore un ampio quadro delle dinamiche della comunicazione scientifica. Nonostante il complemento del titolo faccia riferimento alla scienza aperta e al diritto d’autore, infatti, il volume dedica ampio spazio a diverse questioni correlate, e soprattutto alla valutazione della ricerca contestualizzata nella dimensione sociologica della scienza. La sequenza dei saggi restituisce una visione complessiva delle concatenazioni tra i numerosi fattori, a dimostrazione di come non si possa pensare di affrontarne uno senza considerare gli altri, e non si possa parlare di scienza aperta senza prendere in esame ciascuno dei fattori in gioco. La scienza aperta implica un cambiamento di mentalità e di cultura per nulla banale e non facile da realizzare. Gli approcci semplicistici e i diktat perentori che immaginano di poter cambiare il paradigma da un giorno all’altro, pensando di poter importare in Italia modelli nati in contesti diversi in un batter di ciglia, non solo dimostrano una limitata percezione dei fenomeni nella loro interezza, ma rischiano di trasformare l’obiettivo della scienza aperta in un miraggio utopistico agli occhi di molti, e quindi di ottenere un effetto boomerang. Nel nostro paese in modo particolare, lo scenario appare come un domino in cui occorre muovere le tessere con estrema cautela.
Non è questo l’approccio di Roberto Caso, al contrario realistico e concreto nel trattare i diversi argomenti. Un approccio che si fa apprezzare fin dalle prime pagine, quando specifica che l’open access “non coincide né con accesso ‘universale’ – ad esempio, l’accesso aperto non abbatte le barriere in termini di disabilità e possibilità di connettersi a internet – né con un sistema di comunicazione privo di costi”. Il tema dell’accessibilità alle risorse documentarie va declinato innanzitutto in termini di accessibilità tecnologica e di barriere all’accesso a internet, che continuano a permanere e che non solo dividono il nord e il sud del mondo ma anche, rimanendo all’interno del nostro paese, regioni diverse e comunità diverse. Il problema è emerso in tutta la sua drammaticità durante la pandemia per varie fasce di popolazione. Molti studenti, anche universitari, non hanno potuto accedere agevolmente agli strumenti e alle risorse online da casa. Il rapporto BES ha evidenziato le barriere in parte tecnologiche e in parte dovute alla mancanza di competenze digitali. Se anche solo riuscire ad accedere a internet con una connessione stabile diventa complicato, il fatto che una risorsa sia open access non offre nessun vantaggio. L’altro punto fermo è che l’open access non è un sistema privo di costi. Le attuali modalità con le quali si cerca di affrontare il problema dei costi, per esempio i modelli contrattuali transformative agreements, nelle modalità read&publish o publish&read, non risolvono efficacemente il grosso nodo scorsoio dell’editoria scientifica, poiché non spostano gli equilibri del mercato, né riducono la spesa che le biblioteche devono sostenere. SCONUL e RLUK (Research Libraries UK) il 20 agosto 2020 hanno inviato una lettera aperta all’associazione degli editori britannica in cui, alla luce del lockdown e delle conseguenze della diffusione del coronavirus, chiedevano delle agevolazioni nell’accesso alle risorse documentarie per gli studenti costretti a studiare a distanza, e che la contrattazione degli accordi trasformativi con le biblioteche non si basasse più sulla spesa storica ma prevedesse invece una riduzione dei costi. La lettera è stata rilanciata il 5 febbraio 2021, a testimonianza di come, nonostante la pandemia, nulla sia cambiato. Questi contratti rischiano di tagliare fuori dall’accesso i paesi del sud del mondo non in grado di sostenerli, ma anche gli atenei meno ricchi o le istituzioni più piccole, e continuano a basarsi su modelli che non smuovono l’assetto del mercato dominato da pochi grossi editori commerciali. La concentrazione del mercato editoriale, incentivata dal passaggio al digitale, si è rafforzata con l’introduzione dei sistemi di valutazione della ricerca basati sulle banche dati prodotte dagli stessi grossi editori. Nelle mani di questi colossi editoriali si accentrano sempre nuovi strumenti e risorse in uso nella ricerca scientifica, in un circolo vizioso da cui diventa difficile uscire. Si tratta di uno dei temi cruciali affrontati nel volume di Roberto Caso, anche rispetto al ruolo delle biblioteche. I ricercatori cercano di pubblicare sulle riviste con alto impact factor e le biblioteche devono acquisire quelle riviste ritenute importanti dai ricercatori. Inoltre, spesso utilizzano gli stessi strumenti forniti dagli editori per lo sviluppo delle raccolte. Senza dubbio, l’insieme di questi meccanismi, come scrive Caso, “rende la domanda anelastica, vale a dire insensibile alle variazioni del prezzo ed eleva barriere all’entrata nel mercato, facilitando la progressiva occupazione della scena da parte dei grandi editori commerciali”.
Il tema della valutazione della ricerca è ovviamente ricorrente nel libro, con un approccio, anche in questo caso, molto pragmatico e diretto, fino a sfociare, nel secondo capitolo, in un’invettiva contro Andrea Bonaccorsi, dal 2011 al 2015 membro del Consiglio direttivo dell’ANVUR (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), e il suo libro La valutazione possibile. Teoria e pratica nel mondo della ricerca. Una personalizzazione che però rischia di distogliere l’attenzione da un tema che in realtà è di portata generale. L’ANVUR continua a operare, indipendentemente da Bonaccorsi. Sebbene si possa essere d’accordo o meno sulla necessità di una valutazione della ricerca, è indubbio che il modo in cui viene condotta oggi in Italia, pesantemente sbilanciato verso la misurazione quantitativa, presenta alcuni limiti che Caso opportunamente richiama in questo capitolo. Inoltre, si caratterizza per la poca trasparenza e la tendenza dell’ANVUR a dettare le regole a posteriori, a volte cambiandole in corso d’opera, ovvero durante gli esercizi di valutazione. L’ANVUR, a differenza di quanto avviene in altre nazioni, come per esempio i Paesi Bassi (del cui sistema di valutazione della ricerca ho avuto modo di scrivere qualche tempo fa su questa rivista) – dove sono i rappresentanti degli atenei a formare l’organo di valutazione e ciascun ateneo può adottare i criteri di valutazione che ritiene appropriati all’interno di un protocollo condiviso –, è un’agenzia non indipendente, incardinata nel Ministero dell’Università, le cui norme vengono imposte dall’alto, in maniera uniforme per tutti gli atenei e senza la possibilità di venirne a conoscenza in anticipo. Per tali ragioni, la trasparenza per ANVUR dovrebbe essere una priorità, ai fini della creazione di una base di fiducia. Analogamente, la comunicazione puntuale e precisa dovrebbe rappresentare un proposito fondamentale mentre, come giustamente sottolinea Caso, spesso non accade, ma anzi si realizza tramite comunicati senza data, modificati senza indicare chiaramente le parti cambiate, oppure cancellati del tutto e non più recuperabili, quindi senza un minimo di documentazione storica. Tuttavia, la differenza principale con gli altri paesi risiede soprattutto ella mancanza di una strategia a livello nazionale, nell’assenza di una politica generale rispetto al sistema della ricerca, di piani concreti a sostegno della ricerca scientifica, e ancor meno per lo sviluppo dell’open science.
Nei Paesi Bassi, nel giugno 2020 è stato lanciato il SEP (Strategy Evaluation Protocol) 2021-2027 contenente i criteri per la valutazione nei sei anni successivi. La lettura del SEP evidenzia il posizionamento preciso fin dalle prima pagine in cui le agenzie di valutazione dichiarano di aderire alla San Francisco Declaration on Research Assessment (DORA).
Con il SEP le agenzie di valutazione e per il finanziamento della ricerca definiscono il quadro d’insieme e gli obiettivi della valutazione, individuano una serie di criteri di valutazione nell’ambito dei quali i singoli atenei possono scegliere quali adottare, anche differenziandoli per dipartimento, gruppo di ricerca o tipologia di prodotto. Recentemente l’Università di Utrecht ha reso nota la decisione di non usare più l’impact factor e gli indici correlati come l’h-index nelle procedure di valutazione e per l’avanzamento di carriera. È solo l’ultimo in ordine di tempo dei tanti atenei che stanno andando in questa direzione. Anche in un paese come la Gran Bretagna, a cui l’AVNUR dichiara esplicitamente di ispirarsi per gli esercizi di valutazione, il sito del REF (Research Excellence Framework) non solo è ricco di informazioni, ma si rifà ai principi di uguaglianza, diversità e di interdisciplinarietà. Gli esempi di Paesi Bassi e Gran Bretagna mostrano l’esistenza di una politica supportata da azioni di sostegno, come la creazione di una piattaforma nazionale per l’open science nel primo caso e gli accordi preliminari che il REF prende con gli editori rispetto all’accesso aperto obbligatorio dei prodotti sottoposti a valutazione nel secondo.
L’accesso aperto è stato introdotto nell’ultima VQR (Valutazione della qualità della ricerca) italiana, la cui fase di conferimento prodotti si è conclusa nella prima metà del 2021, in maniera incoerente e confusa. I prodotti della ricerca da conferire coprivano gli anni tra il 2015 e il 2019. Il bando prevedeva che i quattro prodotti presentabili come numero massimo dai ricercatori e docenti dovessero essere ad accesso aperto entro il 15 luglio 2022, se la ricerca è stata finanziata per una quota pari o superiore al 50% con fondi pubblici. Una clausola che se da un lato ha mostrato un primo, piccolo segno di apertura dell’ANVUR verso il tema dell’open access, dall’altro ha creato problemi ai ricercatori e agli uffici di supporto degli atenei, poiché chiedeva a posteriori una condizione che molti non avevano concordato in fase di pubblicazione. La VQR era relativa agli anni 2015-2019 e chiedere nel 2021 che articoli e libri pubblicati fino a sei anni prima fossero disponibili ad accesso aperto è stato quanto meno improvviso. La versione finale del bando ha cercato di porre rimedio con la possibilità di indicare la motivazione per la quale la pubblicazione non era ad accesso aperto, tra cui un molto generico, e molto utilizzato, “non concesso dall’editore”. È palese che azioni di questo tipo non rappresentino un grande sostegno alla diffusione della cultura dell’accesso aperto. L’imposizione di regole e requisiti senza che vengano creati i presupposti per la loro realizzazione contribuisce alla percezione della valutazione come una forma di controllo dei ricercatori invece che, come dichiarato nel SEP olandese, un modo di rendere conto agli stakeholders dei risultati degli investimenti pubblici nella ricerca e confermare la qualità e la rilevanza della ricerca nei confronti della società, nonché migliorarle laddove necessario. L’open access viene trascinato in questo pregiudizio e rischia di divenire per molti ricercatori l’ennesima noia burocratica. Un contesto ben diverso si creerebbe se in Italia, come in altri paesi, si dichiarasse in anticipo che la prossima procedura di valutazione della ricerca avrà come requisito l’open access e con quali modalità, e ovviamente ancora meglio se si operasse per rendere tale requisito praticabile. Pensare a una piattaforma italiana per l’open science come quella dei Paesi Bassi appare futuribile, ma se pillole di cultura sull’accesso aperto e incentivi veri arrivassero dall’agenzia nazionale di valutazione della ricerca qualcosa potrebbe davvero cominciare a cambiare. Nel secondo capitolo del libro, Roberto Caso riprende alcune tematiche di sociologia della scienza dalle quali non si può prescindere per affrontare tali argomenti e che vengono poi approfondite nel capitolo successivo. Innanzitutto gli scritti di Robert Merton, la sua teoria dell’effetto San Matteo e l’individuazione dei principi fondamentali della scienza. Merton parla del carattere universalistico, comunista, disinteressato e scettico della scienza. L’universalismo è ciò che condivide con la democrazia, ovvero l’essere basata su criteri impersonali prestabiliti che partono dalla conoscenza precedentemente confermata e condivisa. La condivisione, l’aspetto di comunismo, è fondamentale per l’avanzamento della scienza e intrinseco poiché la scienza opera per il bene comune e dunque i risultati sono di proprietà collettiva. Questo la pone in una posizione di incompatibilità “con la concezione privata dell’economia capitalistica che la tecnologia sia ‘proprietà privata’”. La pubblicazione di fatto non è proprietà privata dell’autore ma solo un modo di indicare che è arrivato per primo a un determinato risultato, e lo mette a disposizione della collettività. Il disinteresse dovrebbe muovere gli uomini e le donne di scienza poiché l’unica remunerazione importante per loro è il riconoscimento dei pari e questo è garanzia di integrità. La citazione e il premio scientifico sono forme di riconoscimento. Il dubbio sistematico o scetticismo organizzato è “variamente interconnesso con gli altri elementi dell’ethos scientifico. Esso è un mandato istituzionale oltre che metodologico. La sospensione del giudizio fino a che i fatti non siano provati e l’esame distaccato di credenze secondo criteri logici ed empirici hanno condotto la scienza a conflitti con altre istituzioni”. Laddove le istituzioni impongono un controllo centralizzato la libertà della scienza ne risulta limitata.
Il passaggio dalla piccola scienza alla grande scienza teorizzato da Derek de Solla Price negli anni Sessanta del XX secolo avvia diversi dei fenomeni cui assistiamo oggi. Con la grande scienza i governi comprendono la rilevanza strategica della ricerca scientifica e aumentano i finanziamenti. Aumenta anche il numero di ricercatori e quindi le pubblicazioni scientifiche, e soprattutto l’editoria scientifica passa nelle mani degli editori commerciali che ne intuiscono il potenziale economico. In quel contesto si pongono le riflessioni di Merton e di Michael Polanyi sulla scienza e sul metodo scientifico. Anche quest’ultimo, come Merton, individua un nesso tra l’organizzazione della scienza e l’organizzazione della società. E, aggiunge Caso, per Polanyi “l’idea di fondo è che la migliore forma di organizzazione si incentra sul coordinamento spontaneo tra le iniziative di singoli individui che scelgono autonomamente i problemi da risolvere”. Le sue parole sostengono la libertà dello scienziato di perseguire i propri interessi di ricerca che in maniera naturale si indirizzano verso il bene collettivo e l’avanzamento della scienza, e in questo senso sono in linea con il concetto di comunismo mertoniano. Difatti, secondo la concezione di Polanyi, “nessun singolo scienziato è responsabile individualmente dell’avanzamento della scienza, che è frutto invece di una moltitudine di contributi frammentati nei campi di specializzazione della ricerca”. Agli stessi anni risalgono anche le intuizioni di Eugene Garfield, l’ideatore dell’impact factor e del primo Science Citation Index, cui seguiranno gli altri indici che sono inglobati nella piattaforma Web of Science. Oggi di proprietà di Clarivate Analytics, Web of Science è, insieme a Scopus di Elsevier, la banca dati usata per la valutazione della ricerca in Italia nei settori cosiddetti bibliometrici. Roberto Caso sottolinea come Garfield avesse creato l’Intitute for Scientific Information (ISI), che produceva gli indici citazionali, per fini commerciali e non certo per motivi benefici. In prima battuta, gli indici citazionali dovevano servire per definire la core collection nei diversi settori scientifici a beneficio dei bibliotecari, per consentire loro di acquisire nelle collezioni le riviste fondamentali in un settore, certificate dal numero di citazioni ricevute, e anche dei ricercatori per permettere loro di comprendere a quali riviste fare riferimento nella propria disciplina. De Solla Price e lo stesso Merton si interessarono al citation index proprio per tali ragioni.
Tutto ciò serve all’autore di La rivoluzione incompiuta per dimostrare i limiti della bibliometria che si pone in aperto contrasto con i principi di scienza come bene comune basata sulla pubblicazione dei risultati ai fini della condivisione e dell’avanzamento della conoscenza. La valutazione dei ricercatori su base bibliometrica trasforma tali principi, e la pubblicazione scientifica, in un bene privato, persino patrimoniale se legato ai finanziamenti. Inoltre, la libertà del ricercatore viene meno poiché non è libero di dedicarsi ai temi di ricerca di proprio interesse, soprattutto se sono di nicchia o innovativi e quindi attirano meno citazioni. Le liste di riviste scientifiche, come quelle stilate dall’ANVUR per i settori non bibliometrici, presentano criticità simili, poiché costringono i ricercatori a pubblicare non sulla rivista appropriata al tema della ricerca, magari internazionale e molto specializzata, ma sulle riviste prescritte. Com’è ben noto, non solo il sistema di valutazione induce i ricercatori a puntare alla quantità a scapito della qualità, ad affrontare argomenti mainstream e quindi più facilmente citabili dagli altri, ma li spinge a cercare ogni genere di escamotage per volgere le metriche a proprio favore, nell’obiettivo di beffarle, noto con l’espressione inglese gaming the metrics. Queste azioni includono varie pratiche eticamente dubbie e spesso fraudolente che minano l’integrità della ricerca e di conseguenza intaccano la sua autorevolezza agli occhi dell’opinione pubblica. Il sistema delle metriche alla base della valutazione della ricerca in Italia rafforza le dinamiche illustrate, spingendo verso una visione personale e privatistica, in contrasto con i principi alla base del lavoro scientifico.
Inoltre, gli indici bibliometrici usati nella valutazione sono prodotti commerciali elaborati dai grossi editori scientifici. I modelli di contrattazione delle risorse digitali con le biblioteche di università, come i big deal, di cui dagli anni Novanta del secolo scorso si è ampiamente parlato nella letteratura scientifica e professionale di ambito biblioteconomico, hanno portato tali editori su posizioni di forza. Il loro campo di azione si è andato progressivamente estendendo dalle risorse documentarie ai dati, dalle piattaforme editoriali a quelle che offrono servizi avanzati per tutto il ciclo della ricerca scientifica. Di fatto, come scrive Caso, si è assistito a una progressiva commercializzazione della ricerca scientifica. E, aggiungiamo, la definizione dei risultati della ricerca pubblicati come “prodotto” si colloca in questa linea. La deriva commerciale è andata in parallelo con le trasformazioni del diritto d’autore, il cui oggetto di applicazione si è sposato dal contenitore al contenuto. La legge sul diritto d’autore, scrive Caso, “si concentra sulla forma espressiva dell’opera dell’ingegno (il testo scientifico). Le idee, i fatti e i dati – secondo il principio tradizionale della distinzione tra forma protetta e idea non protetta – rimangono in pubblico dominio. Le norme della scienza focalizzano, all’opposto, la loro attenzione sul contenuto della teoria”. Una revisione della legge sul diritto d’autore in Italia è ormai richiesta da più voci. Nel mese di marzo 2020, poco dopo l’inizio della pandemia di Covid-19, AISA ha inviato una lettera aperta al presidente Mattarella che individua nella riforma del diritto d’autore e della proprietà intellettuale, insieme al cambiamento del sistema di valutazione della ricerca, le due priorità per rinnovare il sistema scientifico in Italia e indirizzarlo verso una maggiore apertura. La lettera di AISA si è andata ad affiancare ad altri appelli sottoscritti in quei mesi da altre istituzioni internazionali, come ICOLC, per chiedere agli editori commerciali di aprire l’accesso alle pubblicazioni digitali in una fase in cui le sedi fisiche delle biblioteche erano chiuse per il lockdown e l’accesso online era l’unica strada per ricercatori, studenti, cittadini per poter fruire delle risorse documentarie. Peraltro la possibilità di accedere alla letteratura scientifica sul Covid a livello internazionale avrebbe rappresentato un importante supporto a favore della ricerca di vaccini e cure. Com’è noto, gli editori hanno aperto una selezione delle loro raccolte, raramente l’intera collezione, solo per qualche mese e poi le hanno richiuse, come evidenziato anche nel già citato appello di SCONUL - RLUK. Nessun obbligo di legge esistente poteva impedire loro di operare in questo modo. La posizione di Caso su questo aspetto è netta e condivisibile quando sostiene che “senza una modifica a monte della legge sul diritto d’autore, qualsiasi obbligo di pubblicare in accesso aperto si traduce inevitabilmente in una limitazione della libertà scientifica dell’autore”.
La rivendicazione della libertà dell’autore è strettamente legata a quella della libertà di stampa. Si tratta di un dibattito che nasce all’indomani dell’invenzione della stampa a caratteri mobili, si sviluppa in Inghilterra nel XVII secolo, peraltro in concomitanza con la nascita della scienza moderna, dove conduce a quella che è considerata la prima legge sul copyright (sebbene la parola copyright non venga mai usata nel testo ma comparirà solo attorno al 1730), ovvero lo Statuto della Regina Anna del 1710. La controversia prosegue durante l’Illuminismo in maniera estesa anche in altri paesi come la Francia e l’Italia. Nel nostro paese la prima legge unitaria sulla proprietà intellettuale arriverà nel 1865, dopo un lungo e intenso dibattimento pubblico.
Le tensioni che nei secoli passati opponevano parte degli intellettuali ai tentativi di controllo del potere politico, trovano un’eco nella rivendicazione odierna della libertà di ricerca scientifica che si indirizza lungo due traiettorie. Da un lato, la libertà di diffondere apertamente i contenuti scientifici e, dall’altro, la libertà di fare ricerca su qualsiasi argomento, senza i vincoli imposti dalle procedure di valutazione. Oggi come in passato l’intellettuale aspira al riconoscimento pubblico, al prestigio e a una reputazione autorevole che gli consentano di acquisire uno status all’interno della comunità scientifica e della società, e la pubblicazione scientifica rimane il modo migliore per ottenerli. Robert Merton ha ampiamente descritto tale meccanismo alla base della conoscenza scientifica e la valenza del capitale simbolico. Caso richiama spesso nel libro i principi mertoniani, e in particolare traccia un filo tra la naturale vocazione verso l’apertura e la condivisione ai fini dell’acquisizione di prestigio e gli ostacoli posti dal sistema dell’editoria commerciale chiusa, oltre che dalla valutazione. Scrive: “l’autore scientifico non guadagna dalla gestione dei diritti economici d’autore, ma è invece interessato all’acquisizione di una buona reputazione scientifica. Si provi a vestire i panni di un giovane ricercatore che vede finalmente materializzarsi la possibilità di pubblicare su una blasonata rivista scientifica o con una prestigiosa casa editrice. Con tutta probabilità non tenterà nemmeno di negoziare un diverso assetto del diritto d’autore e accetterà le clausole che determinano la cessione piena ed esclusiva all’editore”. La cessione del copyright agli editori (con la possibilità di riproduzione in qualsiasi versione e formato) ostacola la libertà scientifica dell’autore e, aggiunge Caso, influisce anche sulla libertà didattica.
In campo didattico le restrizioni poste dagli editori sono maggiori e le eccezioni al diritto d’autore circoscritte, per cui è difficile anche solo far circolare un proprio testo tra gli studenti dei corsi universitari.
Da queste considerazioni emerge un nesso importante tra le attività bibliotecarie, in particolare di chi si occupa della gestione delle raccolte nelle biblioteche delle università, e le aspirazioni alla libertà scientifica. Le biblioteche sono da tempo attive per cercare di cambiare i sistemi di acquisizione dominanti e per sostenere modelli basati sull’accesso aperto. Come già detto, il mercato editoriale scientifico è oligopolistico, con pochi grossi editori che controllano gran parte della produzione e i canali di disseminazione. Oltre alle pubblicazioni, i big player dell’editoria scientifica controllano le banche dati citazionali utilizzate per la valutazione della ricerca nei settori bibliometrici e si stanno progressivamente espandendo su altri aspetti della ricerca scientifica. Il risultato è che molte delle attività tradizionalmente in capo alle biblioteche si stanno trasferendo ai privati, con un chiaro spostamento verso dinamiche di tipo commerciale che nulla hanno a che fare con la missione della biblioteca e dell’università. La speranza iniziale del movimento open access che il sistema editoriale sarebbe cambiato, modellandosi sull’apertura attraverso la via verde o la via aurea, che il potere dei colossi editoriali sarebbe finito e la ricerca scientifica tornata nelle mani delle università, non si è realizzata. La causa principale, sostiene Roberto Caso, è l’aver imposto obblighi sull’open access senza prima aver cambiato le leggi sul copyright e sui sistemi di valutazione della ricerca. Affermazione assolutamente centrale, che invece spesso si dimentica nel dibattito scientifico da parte di chi vorrebbe l’accesso aperto hic et nunc. L’imposizione di tali obblighi, come accade per esempio nei progetti europei come Horizon 2020, produce effetti distorsivi. Lo spiega bene l’autore nel capitolo quinto quando afferma che alimenta la speculazione degli editori commerciali e il rischio di double dipping con pagamento degli abbonamenti alle riviste e anche di quote per le APC; non risolve il problema della configurazione oligopolistica del mercato; non riduce i costi per le biblioteche che continuano a dover pagare abbonamenti, APC o transformative agreements agli editori e non possono investire in altre infrastrutture di supporto alla ricerca; condiziona le scelte degli autori costretti a pubblicare su riviste che consentono l’archiviazione o l’OA, ma magari dietro pagamento.
A ciò occorre aggiungere un altro elemento di riflessione. L’evoluzione dell’open access a cui stiamo assistendo, con i grossi editori che continuano a mantenere il controllo, ha di fatto distolto l’attenzione dalla green road all’open access. La via verde è un’alternativa solida che consentirebbe di far tornare parte del potere nelle mani delle università attraverso il deposito delle pubblicazioni negli archivi istituzionali. Nella contrattazione editoriale i consorzi di biblioteche devono porre grande enfasi su questo aspetto. Inoltre, le biblioteche hanno il compito di garantire un’informazione costante ai ricercatori su tutti i risvolti e le opportunità della scienza aperta, soprattutto ai giovani ricercatori. Molte lo fanno già, ma per essere efficace l’attività dovrebbe essere incardinata nei percorsi formativi alla ricerca, a cominciare dai corsi di dottorato, in tutte le discipline. Naturalmente il riferimento è soprattutto all’Italia dove in generale sembra mancare una consapevolezza diffusa su tali temi, e la situazione è piuttosto complessa anche per l’assenza di una legislazione adeguata.
In Germania, Paesi Bassi, Francia, Belgio negli ultimi anni sono state emanate normative di modifica della legge sul diritto d’autore con l’obiettivo di rendere disponibili pubblicamente ad accesso aperto alcune tipologie di opere scientifiche. Tali norme rendono nulli gli accordi tra editori e autori se divergenti dalla legge. Caso si sofferma sulle loro specificità e sugli elementi che le differenziano, per esempio rispetto al grado di apertura o alla tipologia di opere, e ad aspetti critici come la tendenza degli editori a eleggere come sede di competenza giurisdizionale il proprio paese che potrebbe essere diverso da quello dell’autore e quindi avere normative differenti, oppure il coautoraggio di una pubblicazione con autori di nazionalità diverse. Sulla scia di quanto avvenuto in altri paesi, AISA ha proposto una modifica alla legge italiana sul diritto d’autore con l’analogo intento di rendere disponibile ad accesso aperto la ricerca finanziata pubblicamente. La sollecitazione è stata parzialmente accolta nella proposta di legge Gallo nel 2018, sulla quale Caso di sofferma nell’ultimo capitolo del libro in cui approfondisce anche le tappe principali di evoluzione della legge sul diritto d’autore in Italia. Il discorso sul copyright evolve verso le considerazioni conclusive del libro che rimarcano come le azioni finora condotte non siano riuscite a stimolare il cambiamento culturale necessario. Molti atenei si sono dotati di policy per l’accesso aperto che rimangono sulla carta, imponendo teoricamente degli obblighi la cui violazione però non conduce a nessuna sanzione. I docenti preferiscono caricare le loro pubblicazioni su siti privati come Academia o ResearchGate invece che nei repository istituzionali delle università. La considerazione che tali siti potrebbero chiudere da un giorno all’altro, come già successo in passato per esempio per Connotea, Delicious, CiteULike, non sembra preoccupare gli autori a fronte della libertà percepita (ma non reale) di poter caricare tutto sui siti privati senza preoccupazione per il copyright. La valutazione della ricerca viene vista come un’imposizione burocratica e dunque anche il caricamento dei dati nel repository istituzionale diventa un inutile atto burocratico. Non sempre ci si rende conto nel dibattito generale di come la funzione dei repository istituzionali di aprire la via verde all’open access sia venuta meno per il loro essere diventati strumenti per la valutazione della ricerca, piegati alle logiche della valutazione della ricerca invece che all’apertura della scienza.
Accanto a questo ci sono altri fattori che rallentano la diffusione dell’open science, la cui portata esula dal solo ambito scientifico e accademico, e riguardano la trasformazione della società nel suo complesso. Caso li affronta dettagliatamente nel capitolo conclusivo, ma vale la pena riportarli almeno sinteticamente: l’accentramento del controllo privato dei dati e delle informazioni su internet con leggi sulla proprietà intellettuale che non solo lo consentono ma a volte lo agevolano; il datismo e il dominio degli algoritmi che sembra sopraffare il metodo scientifico classico; la mercificazione della scienza e l’aziendalizzazione delle università con la conseguente maggiore attenzione per la ricerca applicata rispetto alla ricerca di base; un generale indebolimento della democrazia. Sono alcune delle ragioni per le quali la scienza aperta rimane una rivoluzione incompiuta.