N.5 2021 - Biblioteche oggi | Luglio-Agosto 2021

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Scegliere un libro in biblioteca, ovvero l’illusione (forse) di poterlo fare

Francesco Barone

francescobarone.fb@libero.it

Abstract

Scegliere un libro in biblioteca può non essere una decisione libera. La mente, infatti, potrebbe essere condizionata da alcuni pregiudizi ingestibili. Il presente contributo, quindi, si propone di evidenziare questa possibilità, avvalendosi di un approccio multidisciplinare che spazia da Kant alla meccanica quantistica, fino alla psicologia cognitiva, e in particolare ai cosiddetti bias.

English abstract

Choosing a book in the library may not be a free decision. The mind, in fact, could be conditioned by certain unmanageable prejudices. The present contribution, therefore, aims to highlight this possibility, making use of a multidisciplinary approach that ranges from Kant to quantum mechanics, up to cognitive psychology, and in particular to the so-called bias.

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Da Kant ai bias cognitivi

Se non sbaglio, potrebbe non esserci alcuna possibilità per un utente di poter scegliere un libro in biblioteca. L’ingresso, la passeggiata tra gli scaffali, l’allungamento del braccio e la decisione di prendere in prestito un volume potrebbero in un certo qual modo non rivelarsi azioni del tutto libere, finanche quando nel lettore albergasse la solida convinzione di poterlo fare, e costui fosse svincolato da qualsivoglia impedimento tale da negargli la rivendicazione dell’indiscutibile diritto. Mi rendo conto che tale affermazione possa sembrare a primo acchito parossistica e paradossale, perché di fatto contravverrebbe in maniera esplicita ad alcuni dei principi fondamentali del Manifesto Unesco, oltre che – fattore di non poco conto – della Costituzione italiana. Di fatto, accettare per buona la veridicità dell’esordio di questo contributo vorrebbe dire suffragare una sentenza definitiva e fin troppo sbrigativa sulla annosa e vexata quaestio del libero arbitrio, lì dove finanche la teologia e la filosofia sono riuscite. Inoltre, procedere in tal senso, magari compiendo una ricognizione dettagliata sull’argomento, equivarrebbe a discostarsi troppo dalla tesi centrale di questo lavoro, il quale si pone invece l’obiettivo di dimostrare l’attendibilità dell’incipit, ricorrendo alla solidità di discipline scientifiche che da tempo provano a formulare risposte, sebbene in alcuni casi più simili a delle ipotesi che a delle certezze. Data la trasversalità del tema e il suo peso specifico, non potrò però astenermi da un confronto multidisciplinare, utile ad avvalorare la legittimità di quanto esplicitato in apertura. Mi scuso fin da subito se il contributo potrà sembrare a prima vista dispersivo, tuttavia il lavoro si regge su una architettura ben definita, resa a mano a mano manifesta con il susseguirsi delle pagine e dei concetti. 

Entrando nel vivo del discorso e calandolo in una dimensione più concreta, si pensi adesso alla reiterata scena – ben nota ai bibliotecari – del tipico utente privo di ispirazione o idee chiare su cosa leggere. Poniamo anche il caso che in quel momento i bibliotecari siano indaffarati, oppure che la persona preferisca muoversi in autonomia piuttosto che affrontare l’interrogatorio degli impiegati pronti a disegnare l’anamnesi delle sue passate letture per indirizzare al meglio quelle future. È piuttosto naturale ritenere che le scelte dell’utente cadranno in funzione dei suoi gusti, e ciò lo esorterà a muoversi entro il perimetro della sua personale comfort zone i cui recinti sono individuabili nelle preferenze nutrite nei confronti di un particolare autore, del genere letterario, ma anche – e non è raro che capiti – dal fascino esercitato dalla copertina. Stando così le cose, la scelta quindi avverrebbe nell’ambito di limitate categorie perlopiù dettate dall’esperienza e quindi sulla base di una conoscenza che Kant avrebbe definito come a posteriori. Ipotesi legittima, certo, ma non del tutto esaustiva per cogliere il meccanismo logico alla base della scelta originaria operata dal lettore riguardo a quel preciso autore, quel genere ecc., né utile a spiegare su quali criteri la medesima potrebbe avvenire qualora – altro comune accadimento – l’utente indeciso avesse a disposizione soltanto pochi minuti per accaparrarsi un libro. Il ragionamento ha ovviamente validità riconoscendo la fondamentale differenza tra lo scegliere un volume dal portarselo semplicemente a casa. 

Per addentrarmi maggiormente nella questione, sfrutto fin da subito un riferimento letterario che ben dimostra la titubanza di un essere umano dinnanzi a una scelta. In particolare, ho in mente un noto racconto di Italo Calvino incluso nell’opera Palomar, in cui lo strumento narrativo diviene per il personaggio e per lo scrittore un espediente idoneo ad avviare una indagine più approfondita sulla conoscenza, ossia su di un sapere non esclusivamente empirico, in grado di determinare una preferenza. Il racconto in questione è Il museo dei formaggi

Il signor Palomar fa la coda in un negozio di formaggi, a Parigi. Vuole comprare certi formaggini di capra che si conservano sott’olio in piccoli recipienti trasparenti, conditi con varie spezie ed erbe. [...]. È un negozio il cui assortimento sembra voler documentare ogni forma di latticino pensabile; già l’insegna “Spécialités froumagères” con quel raro aggettivo arcaico o vernacolo avverte che qui si custodisce l’eredità d’un sapere accumulato da una civiltà attraverso tutta la sua storia e geografia. Tre o quattro ragazze in grembiule rosa accudiscono i clienti. Appena una è libera, prende a carico il primo della fila e l’invita a dichiarare í suoi desideri; il cliente nomina e più spesso indica, spostandosi per il negozio verso l’oggetto dei suoi appetiti precisi e competenti.

Pur non potendo certificare con sicurezza i propositi di Calvino, anche per un lettore disattento è semplice scorgere la somiglianza sussistente tra il negozio di formaggi e una biblioteca, o più in generale con un luogo deputato a ospitare non un numero disparato e variegato di oggetti di diversa tipologia – così come avviene in un supermercato o in una cartoleria – ma innumerevoli specialità di un singolo articolo, il cui acquisto (o il prestito, nel nostro caso) può avvenire liberamente oppure vincolato al consiglio delle commesse (si legga pure del personale bibliotecario). Tale consonanza appare ancora più chiara con il procedere della lettura:

C’è chi dagli incontri di queste fortuite tappe trae ispirazione per nuovi stimoli e nuovi desideri: cambia idea su quel che stava per chiedere o aggiunge una nuova voce alla sua lista; e c’è chi non si lascia distrarre nemmeno per un istante dall’obiettivo che sta perseguendo e ogni suggestione diversa in cui s’imbatte serve solo a delimitare, per via d’esclusione, il campo di ciò che lui testardamente vuole. L’animo di Palomar oscilla tra spinte contrastanti: quella che tende a una conoscenza completa, esaustiva, e potrebbe essere soddisfatta solo assaporando tutte le qualità; o quella che tende a una scelta assoluta, all’identificazione del formaggio che solo è suo, un formaggio che certamente esiste anche se lui ancora non sa riconoscerlo (non sa riconoscersi in esso).

Lo stralcio evidenzia ulteriormente le note di somiglianza a tal punto da ritenere superfluo qualsiasi altro commento in merito. Al contrario, trovo più stimolante soffermarmi sulle riflessioni di natura epistemologica che in questo luogo del testo, così come in tutto il romanzo, Calvino maschera debolmente dietro l’artificio letterario. Nello specifico, mi riallaccio alla dicotomia di approccio alla conoscenza che lo scrittore ligure divide in metodo esperienziale e un altro di diversa natura, forse definibile come trascendentale, o addirittura metafisico. Quest’ultimo lo ritroviamo in particolare nelle parole conclusive riportate – non a caso – tra parentesi: (non sa riconoscersi in esso). Mi sono interrogato a lungo su come interpretare al meglio questa frase, e devo ammettere che ancora una volta mi sono rifugiato in Kant, e propriamente in quella che è stata la sua rivoluzione copernicana in campo filosofico, in virtù della quale il percorso gnoseologico non può limitarsi al fenomeno, ma risulta in stretta connessione al soggetto che lo osserva. Quest’ultimo, per mezzo della sensibilità (a priori) e dell’intelletto (categorie), interviene attivamente nel processo di apprendimento, addomesticando il fenomeno in forme e leggi indispensabili alla comprensione. Tale interdipendenza garantisce l’acquisizione della conoscenza, così come anche Palomar sembra aver recepito:

Oppure, oppure: non è questione di scegliere il proprio formaggio ma d’essere scelti. C’è un rapporto reciproco tra formaggio e cliente: ogni formaggio aspetta il suo cliente, si atteggia in modo d’attrarlo, con una sostenutezza o granulosità un po’ altezzosa, o al contrario sciogliendosi in un arrendevole abbandono [...]. Non è questo il tipo di conoscenza che il signor Palomar è più portato ad approfondire: a lui basterebbe stabilire la semplicità d’un rapporto fisico diretto tra uomo e formaggio. Ma se lui al posto dei formaggi vede nomi di formaggi, concetti di formaggi, significati di formaggi, storie di formaggi; contesti di formaggi, psicologie di formaggi, se – più che sapere – presente che dietro a ogni formaggio ci sia tutto questo, ecco che il suo rapporto diventa molto complicato. La formaggeria si presenta a Palomar come un’enciclopedia a un autodidatta; potrebbe memorizzare tutti i nomi, tentare una classificazione a seconda delle forme – a saponetta, a cilindro, a cupola, a palla –, a seconda della consistenza – secco, burroso, cremoso, venoso, compatto –, a seconda dei materiali estranei coinvolti nella crosta o nella pasta – uva passa, pepe, noci, sesamo, erbe, muffe –, ma questo non l’avvicinerebbe d’un passo alla vera conoscenza, che sta nell’esperienza dei sapori, fatta di memoria e d’immaginazione insieme, e in base ad essa soltanto potrebbe stabilire una scala di gusti e preferenze e curiosità ed esclusioni [...].

Memoria e immaginazione, scrive Calvino. Tuttavia, da sole non sembrano bastare, tant’è vero che, per aspirare a una sincera governabilità di quanto gli appare davanti agli occhi, il protagonista non può esimersi dal catturare e circoscrivere l’esperienza del vedere entro i confini degli strumenti e dei metodi di cui egli, in quanto soggetto conoscente e attivo, dispone. Con ogni probabilità, e grazie all’ausilio della geometria, in questo modo riuscirà a formulare quello che Kant battezza come giudizio sintetico a priori, vale a dire un sapere illuminato dalla comunione di prerogative legate al soggetto (sensibilità, intelletto, razionalità) e di nozioni assorbite dall’esperienza:

Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma [...]. È una lingua fatta di cose; la nomenclatura ne è solo un aspetto esteriore, strumentale; ma per il signor Palomar impararsi un po' di nomenclatura resta sempre la prima misura da prendere se vuole fermare un momento le cose che scorrono davanti ai suoi occhi. Estrae di tasca un taccuino, una penna, comincia a scriversi dei nomi, a segnare accanto a ogni nome qualche qualifica che permetta di richiamare l'immagine alla memoria; prova anche a disegnare uno schizzo sintetico della forma. Scrive pavé d’Airvault annota “muffe verdi”, disegna un parallelepipedo piatto e su un lato annota “4 cm circa”; scrive St. Maure, annota “cilindro grigio granuloso con un bastoncino dentro” e lo disegna, misurandolo a occhio “20 cm”; poi scrive Chabicholi e disegna un piccolo cilindro.

E a tal proposito, il pensatore tedesco:

[...] Finora si è creduto che ogni nostra conoscenza debba regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi, condotti a partire da questo presupposto, di stabilire tramite concetti, qualcosa a priori intorno agli oggetti, onde allargare in tal modo la nostra conoscenza, sono andati a vuoto. È venuto il momento di tentare una buona volta, anche nel campo della metafisica, il cammino inverso, muovendo dall’ipotesi che siano gli oggetti a dover regolarsi sulla nostra conoscenza; ciò si accorda meglio con l’auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, che affermi qualcosa nei loro riguardi prima che ci siano dati. Le cose stanno qui né più né meno che per i primi pensieri di Copernico; il quale incontrando difficoltà insormontabili nello spiegare i movimenti celesti a partire dall’ipotesi che l’insieme ordinato degli astri ruotasse intorno allo spettatore, si propose di indagare se le cose non procedessero meglio facendo star fermi gli astri e ruotare lo spettatore. [...] in base al principio che noi tanto conosciamo a priori delle cose quanto noi stessi poniamo in esse.

Abbandono per un istante Kant e Calvino, su cui tornerò più avanti, per porre all’attenzione di chi legge la straordinaria somiglianza tra quanto appena affermato e letto nelle parole del filosofo tedesco e le teorie della meccanica quantistica. Il nesso lo si individua soprattutto in merito al ruolo di primo piano che occupa l’osservatore nel processo investigativo, il quale non si limita a esaminare l’affascinante connessione tra gli elementi dell’universo, ma giunge perfino a determinarla in nome di una invisibile, straordinaria e misteriosa armonia, ancora al centro di numerosi studi. Per l’esattezza, mi riferisco ad esempio a teorie quali il Principio di Indeterminazione di Heisenberg e alla discussa Interpretazione di Copenaghen, modelli in cui le leggi della fisica classica non sembrerebbero funzionare nel mondo dell’infinitamente piccolo, e dove i principi del determinismo vacillano dinnanzi invece a soluzioni che fanno della probabilità l’unico accorgimento per la conoscenza. Newton e più in generale la fisica tradizionale ci hanno insegnato che, a livello macroscopico, è sempre possibile effettuare delle misurazioni precise riferibili al moto di un corpo (ad esempio velocità, traiettoria e posizione di una pallina da tennis scagliata lontano), mentre la fisica quantistica, per quanto assurdo possa parere, ha evidenziato che ciò non vale nell’universo microscopico, dove la posizione di una singola particella subatomica (di cui è comunque composta la pallina da tennis) può essere individuata solo con una certa probabilità, e si manifesta, ossia diventa reale, esclusivamente nel momento in cui l’osservatore riesce a misurarla. Vien da sé, quindi, che lo scienziato – ipotesi in ogni caso ancora molto dibattuta e non ben digerita da Einstein – determina l’epifania della materia. Resta da capire se e in che modo possa esserci una legge in grado di unificare entrambi i mondi. In un certo qual modo, la fisica quantistica sovverte, o comunque non rende più esclusiva, la concezione di un universo regolato sul determinismo meccanicistico, anche se una teoria sembra escludere l’altra solo sul piano concettuale e giammai nei suoi risvolti pratici. 

Nella dimensione quotidiana, la natura continua ad obbedire a entrambe le leggi che ne regolano esistenza e decorso, lasciando tuttavia una serie di questioni aperte, prima fra tutte quella legata all’uomo, la quale rimanda in automatico a quesiti ontologici irrisolti, quali la coscienza e la libertà di compiere delle scelte più o meno decisive: dal concepimento di un figlio al prendere in prestito un libro in biblioteca. Stando alle teorie esposte in precedenza, risulta abbastanza complesso comprendere fino in fondo in che modo l’Io si relazioni al mondo, la sua capacità di determinare e autodeterminarsi, oppure se la sua esistenza e il suo agire possano considerarsi affrancate dal determinismo e/o dalla probabilità, o del tutto assoggettate a esse. Il discorso, come è ovvio ritenere, è assai articolato anche perché, pur di spiegare e capire, la tentazione di sconfinare nei territori della metafisica è davvero forte. Sia in campo filosofico che scientifico, il determinismo meccanicistico ci ha indottrinato affinché ritenessimo ogni effetto il prodotto di una causa, la reazione il prodotto di una azione, e soprattutto la possibilità, previa conoscenza delle condizioni iniziali, di prevedere con esattezza la posizione di un corpo in un dato momento. In altre parole, il futuro. Ecco, questa certezza non è contemplata nel mondo della meccanica quantistica in cui – prendendo in prestito un’espressione di Feynman – la parte veramente interessante è quella che non va secondo le previsioni. È scontato forse affermare che, come spesso si verifica, l’acquisizione di nuove consapevolezze scientifiche inneschi l’insorgere di speculazioni filosofiche il cui obiettivo consiste nell’offrire a esse una sorta di liberatoria morale in grado di giustificare i cambiamenti e le svolte. Così è infatti accaduto a partire dal XVII secolo, allorquando una vasta pletora di pensatori e scienziati hanno posto l’astronomia e la fisica come baricentro essenziale della loro attività intellettuale. Credo che un superbo modo di cristallizzare ciò che avvenne in quel periodo, lo si deve a Bertrand Russell, il quale, con estrema sintesi e lucidità, suggerisce: “Gli uomini che fondarono la scienza moderna ebbero due qualità che non vanno necessariamente insieme: una immensa pazienza nell’osservazione e una grande audacia nel trarre ipotesi”

Le caratteristiche dello scienziato moderno così ben tracciate da Russell non hanno poi in fondo riscontrato nel corso del tempo atteggiamenti ricalcitranti. Il metodo di ricerca sembra aver attraversato i secoli senza alcun deterioramento, ma anzi, ha conservato la tenacia esplorativa in grado di coniugare osservazione e ipotesi. Spesso la scienza si è divertita a sfidare il mondo, spingendosi a immaginare scenari se non assurdi, quanto meno controintuitivi, e per giunta non sempre suffragati da riscontri empirici, ma edificati su modelli matematici sì coerenti, eppure fondati su quelli che Popper – con un’accezione non proprio favorevole – definisce come esperimenti euristici immaginari. Ipotesi, supposizioni, teorie ben incardinate e a loro agio nel mondo di costruzioni numeriche, in cui è ricorrente e necessario il ricorso alle probabilità, come appunto accade per la fisica quantistica. 

A questo punto, però, appare quasi del tutto naturale pensare all’uomo come a una creatura confinata in una dimensione alquanto sconfortante, ossia posizionandola in un universo in cui tutte le sue azioni sarebbero o prestabilite (in base alla fisica tradizionale), oppure governate dalla probabilità (fisica quantistica). Insomma, in un luogo dove all’essere umano non è dato scegliere. Ma è veramente così? Per nostra fortuna la risposta sembrerebbe negativa, anche se non del tutto. 

L’atto di scegliere, infatti, legato a doppio filo con l’ulteriore e misteriosa incognita della coscienza, la cui origine e funzionamento risultano a oggi ancora oggetto di indagine, non parrebbe poi così libero, ma dipendente da alcuni meccanismi e condizionamenti ben spiegati dalle neuroscienze e in particolar modo dalla psicologia cognitiva. In tale ottica, anche la decisione di accaparrarsi un libro in biblioteca sarebbe subordinata ad alcuni fattori esterni che alterano il giudizio, non diversamente da ciò che accade a Palomar nell’epilogo del racconto di Calvino, vale a dire quando, esortato dalla commessa, non può più rimuginare sul formaggio da acquistare: 

L’ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta; ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d’incertezza per riafferrarlo in loro balìa.

In altre parole, la sola conoscenza del fenomeno – utilizzando un termine tanto caro a Kant (ma non solo) – non garantirebbe una reale libertà di scelta, in quanto non può essere considerato come fattore esclusivo in grado di determinare da solo i meccanismi decisionali. Nel suo recente libro, Helgoland, Carlo Rovelli ricorda al lettore quelle che sono le nuove scoperte delle neuroscienze per quanto riguarda il sistema visivo, e in particolare si sofferma sui processi concernenti la trasmissione delle informazioni, le quali, secondo indagini recenti, non viaggerebbero come sarebbe lecito pensare dagli occhi al cervello, bensì al contrario. In un certo qual modo, il cervello sogna e anticipa le immagini che la vista sta lì per catturare, incamerando ed elaborando soltanto le eventuali discrepanze rispetto a quanto si attende, vale a dire quelle dissonanze dall’aspettativa che andranno poi a rimpinguare il serbatoio della conoscenza. “L’informazione” – a dirla con Bateson – “consiste in differenze che producono una differenza”. Alla luce di ciò, il sapere non sarebbe altro quindi che la sintesi di una rincorsa atavica ad armonizzare dati e fenomeni a primo acchito sgrammaticati, in cui gli oggetti non possono essere stimati nella loro singolarità, ma come parti di una fondamentale interazione. Osservatore e osservato, Palomar e il formaggio, l’utente e i libri, ad esempio, sono composti così della medesima essenza, maglie della stessa rete. 

La conoscenza, ossia l’assimilazione – volendo semplificare – di nozioni, è la condizione necessaria per lo sviluppo della coscienza, vale a dire la capacità di riconoscere, valutare e interpretare tutto ciò che arriva dall’esperienza. Da questo punto di vista, quindi, l’utente entra in biblioteca, conosce il genere, l’autore, lo stile, individua il libro sulla base della sua esperienza, e grazie a una rapida valutazione, opta per il prestito. In poche parole, sceglie. 

Purtroppo però, anche in questo caso, bisogna contraddire la linearità del ragionamento, a cominciare dal rendere la procedura di scelta meno libera di quel che si possa credere, bensì condizionata da involontari metodi euristici distorti, svelati dalla psicologia cognitiva. A beneficio di chi non avesse particolare dimestichezza con la materia, l’euristica è un metodo epistemologi co applicabile a diverse discipline, fondato soprattutto sull’intuito. Grazie a esso, è possibile escogitare nuove soluzioni e prevedere sviluppi futuri prima che tutto ciò sia empiricamente dimostrato, e quindi non soggetto all’ortodossia del rigore scientifico. Nella fattispecie, in psicologia il metodo euristico è perlopiù indicato come la facoltà della mente nel raggiungere conclusioni, prendere decisioni, esprimere giudizi tramite procedure semplificate e immediate senza tener conto di tutte le variabili e i dati che di solito appartengono alla complessità del pensiero. In un certo qual modo, la mente umana adotta delle strategie per ottenere risultati rapidi dinnanzi a problemi più o meno articolati, tipo operare una scelta. Tale metodo, che sembrerebbe rimandare alla parte più istintiva dell’essere umano, trova ragion d’essere soprattutto in determinate circostanze, come ad esempio il non possedere sufficiente tempo per decidere. Il deficit temporale condurrebbe di conseguenza la mente umana a non valutare tutte le possibilità in suo possesso, ma solo alcune di esse, facilitando così il percorso dall’individuazione della criticità allo scioglimento della stessa. Quanto ho appena affermato, non può che rimandare a quel desiderio di semplicità a cui aspira il signor Palomar nel processo di scelta del formaggio, all’importanza dell’intuito e della conoscenza immediata invocata da Kant nella formulazione dei giudizi sintetici a priori, nonché al metodo epistemologico della meccanica quantistica che, come abbiamo visto, sottende e tollera l’approccio euristico A proposito dell’intuito, John Bargh sottolinea: 

Le informazioni che ci giungono alla mente in modo facile e naturale, senza che si debba tentare di comprenderle o che non richiedono sforzi da parte nostra, ci appaiono “vere” e sono lì davanti ai nostri occhi [...]. Siamo inclini a fidarci delle nostre intuizioni per ragioni simili: più facilmente un pensiero particolare si presenta alla mente, senza sforzi da parte nostra, maggiore è la nostra fiducia nella sua fondatezza e meno dubitiamo che sia vero. Siamo cablati per fidarci dei nostri sensi, per non dubitarne: l’alternativa – non fidarci dei nostri sensi e dubitarne – vuol dire essere psicotici, che però è una condizione terrificante.

Daniel Kahneman, psicologo di fama internazionale e premio Nobel per l’economia nel 2002, definisce invece l’euristica in questi termini:

“Euristica” è una definizione tecnica, e sta a indicare una semplice procedura che aiuta a trovare risposte adeguate, anche se spesso imperfette, a quesiti difficili. Il termine da cui trae origine ha la stessa radice di eureka ed è il verbo greco heurískein, trovare. [cors. nel testo].

Tuttavia, nell’ambito dell’approccio di tipo euristico, e in particolari condizioni di incertezza o di probabilità, il pensiero umano tende al raggiungimento della soluzione adoperando il giudizio più semplice, il quale però può condurre a errori gravi e sistematici. Questi abbagli cognitivi prendono il nome di bias, e conducono alla creazione di una realtà dei fatti del tutto soggettiva che altera il giudizio, rende errata l’interpretazione e invalida le capacità di valutazione dell’individuo soprattutto nell’istante in cui è chiamato a dover prendere una decisione, creando invece un’illusione di controllo. Probabilmente, la traduzione in italiano più efficace per il termine bias è pregiudizio, e l’eziologia è riconducibile a diversi fattori quali l’impossibilità di rinunciare a determinati schemi mentali, l’ambiente culturale e religioso a cui si appartiene, il timore di opzionare una scelta o di essere giudicati, specifiche esperienze particolarmente segnanti. 

Tornando alla biblioteconomia, i bias trovano forse cittadinanza e applicazione in quella che può essere considerata una delle più importanti azioni compiute dall’utenza, nonché tra le attività principali che ne designano finanche il senso stesso dell’istituzione culturale: la scelta di un libro. A tal scopo, quindi, nelle righe successive ho provato a incorniciare entro gli schemi pregiudizievoli più noti a cui è soggetta la mente umana, l’esempio già citato di un lettore incerto, e con poco tempo a disposizione, che si aggira tra gli scaffali della biblioteca a caccia di nuovi volumi. Per riuscirci, ho giudicato opportuno muovermi sulla falsa riga del ventaglio circoscritto di possibilità descritte nell’articolo di Sebastien Bohler pubblicato nel 2019 sulla rivista “Mind”, giudicandolo un ottimo ed esaustivo compendio degli studi di Kahneman e di altri studiosi come Amos Tversky. Questo, quindi, è quanto potrebbe accadere nella mente del lettore indeciso, fattori tuttavia che potrebbero incidere allo stesso tempo sulla scelta delle nuove acquisizioni operata dai bibliotecari, anch’essi soggetti alle dinamiche ingestibili del pensiero. In base a quanto leggerete, lascerò a voi giudicare se la decisione di prendere in prestito o acquistare un libro sia sul serio così libera come si crede. 

  • Paura di perdere: il lettore sa che ha molto poco tempo da dedicare alla lettura, e si trova a dover scegliere tra un volume di cui intuisce maggiore qualità ma con un numero di pagine cospicuo, e un altro di caratteristiche qualitative inferiori, tuttavia più breve. Sceglierà senza dubbio il secondo perché, qualora la sua scelta si rivelasse errata, avrà comunque speso meno tempo nella lettura. 
  • Rappresentatività: se l’utente è incerto, opterà per il libro di cui ha più informazioni; la sua opinione sarà condizionata dalle caratteristiche che somigliano al prototipo già rappresentato nella sua mente
  • Precedenza: qualora la persona indecisa dovesse chiedere consiglio a un amico o al bibliotecario, è più che probabile che si lascerà influenzare dal primo elemento vantaggioso che gli viene descritto (“Guarda che bella copertina!”), sottovalutando o addirittura ignorando tutti gli altri elementi successivi che gli saranno presentati (“La trama è poco avvincente”).
  • Temporale: il lettore indirizzerà la scelta su un libro in grado di regalargli soddisfazioni immediate ma meno intense, piuttosto che prediligerne un altro che a lungo andare lo gratificherebbe maggiormente (è il classico caso in cui un romanzo appare un po’ lento nelle prime pagine, per poi trasformarsi durante la lettura in un vero e proprio capolavoro. Ad esso se ne preferisce di solito un altro in cui sono presenti fin da subito dei colpi di scena, anche se poi in fin dei conti deludente). 
  • Conformità: questo è un caso molto simile a quello descritto da Calvino a proposito del formaggio. La decisione dell’utente verterà quasi sempre su un’opera di cui ha sentito parlare ovunque (spesso e volentieri sui social) a discapito di un’altra meno discussa. Tuttavia, non è assolutamente detto che la prima risulti davvero migliore solo perché a parlarne sono in tanti. 
  • Congruenza: la mancanza ad esempio di un amore vero e travolgente nella vita di una persona potrebbe spingere quest’ultima a optare per un romanzo rosa o comunque dal contenuto sentimentale. 
  • Conferma: il lettore opterà per quel libro o per quell’autore di cui già si è fatto una opinione, e cercherà tra le pagine della nuova opera tutte quelle caratteristiche che confermano appunto la validità della sua scelta precedente. Se ad esempio in passato è stato particolarmente colpito da una scrittrice, troverà diverse riprove anche nel volume della stessa autrice che sta per scegliere, anche lì dove in effetti non esistono. 
  • Ripetizione: anche in questo caso, è doveroso rifarsi all’epilogo del racconto di Calvino. Stavolta però a incidere sulla scelta dell’utente non saranno le opinioni delle persone, ma la quantità di strumenti pubblicitari dedicati a quel determinato libro (il classico bombardamento da marketing). 
  • Reattanza: stando a questo bias, il lettore tenderà a scegliere un volume che qualcuno gli ha calda- mente sconsigliato di leggere (trattandosi di libri è molto più complicato, se non impossibile, parlare di proibizione), solo per il gusto di agire controcorrente. 
  • Inerzia: l’utente sceglierà sempre il medesimo autore o genere letterario, solo perché si dimostra pigro o particolarmente fidelizzato, rinunciando però in questo modo ad alternative che possono rivelarsi migliori. 

Quanto appena riportato sono solo alcune tra le decine di trappole che la mente escogita per facilitare il momento della scelta. Trovo doveroso ricordare che la distorsione del giudizio può portare anche a delle gravi conseguenze (inganni, false credenze, bufale ecc.), ed è per questo che bisogna prestare massima attenzione. È naturale chiedersi se esista un modo per sottrarsi all’azione dei bias a scapito di un pensiero più limpido e oggettivo, ma la risposta parrebbe negativa. Forse potrebbero esserci dei rimedi preventivi, primo tra tutti incrementare i nostri rifornimenti di sapere qualitativo in grado di renderci liberi, nella piena osservanza di quel noto motto oraziano, sapere aude! (abbi il coraggio di conoscere, di utilizzare la tua intelligenza), ripreso poi anche da Kant per spiegare i principi dell’Illuminismo.

Tuttavia, potrebbe non bastare, perché di fatto la conoscenza richiede pur sempre l’accesso alle pagine scritte, che a loro volta necessitano di una selezione, di una scelta appunto. Mi sento però di indicare come una buona strategia quella della maieutica socratica, la quale, calata nel contesto biblioteconomico, assegnerebbe al lavoro dei bibliotecari un ruolo chiave nella costruzione di una difesa in grado di agire ad ampio spettro. Ma questo è un discorso che mi ripropongo di affrontare in un altro momento. Piuttosto, trovo più opportuno evidenziare quella che a mio avviso potrebbe essere un’ulteriore soluzione, prospettata stavolta da Karl R. Popper, filosofo geniale, a cui il mondo della scienza (e non solo) deve tutta la sua riconoscenza: 

Il processo del sapere, della conoscenza soggettiva, è sempre fondamentalmente lo stesso. È la critica immaginativa. E questa è il modo in cui noi trascendiamo il nostro ambiente spazio-temporale cercando d’escogitare situazioni al di là della nostra esperienza: criticando l’universalità, o la necessità strutturale, di ciò che può apparirci (o che i filosofi possono descrivere) come “dato” o come “abito”, tentando di trovare, costruire, inventare situazioni nuove, cioè situazioni di prova, situazioni critiche; e cercando di individuare, scoprire e sfidare (cioè mettere in dubbio) i nostri pregiudizi e le nostre assunzioni abituali.

Così come ho tentato di fare in un precedente contributo, anche stavolta mi sono divertito a mettere in relazione la biblioteconomia con altre discipline, apparentemente del tutto stonate. In realtà, c’è un metodo in questa prassi, e il senso lo si ritrova nella totale convinzione che la disciplina biblioteconomica possa essere considerata una strada epistemologica per comprendere il ricco assortimento di incognite con cui il mondo suole duellare nella pluralità delle sue spesso inesplicabili manifestazioni. Tuttavia, sono anche convinto però che la biblioteconomia, come le scienze, la letteratura e qualsiasi altra risorsa ci ponga nelle condizioni di interrogarci, siano in realtà un costante allenamento alla sopportazione del dubbio. Credo, e mai come questa volta ritengo obbligatorio servirmi di un verbo epistemico, che non esista una sola e immutabile verità, ma lo scegliere quotidiano ci spinge in fondo a crederlo, ci esorta a disubbidire dinnanzi all’avvilente prospettiva di galleggiare in un mondo già deciso a priori. Concludo questo scritto mentre guardo da una finestra della biblioteca una panchina vuota. A patto che sia veramente così. Il futuro non può essere previsto, semmai intuito, ma gli occhi e la mente a quanto pare possono contribuire a crearlo.