Per cercare di capire: i numeri, i fatti, i valori
giovanni.solimine@uniroma1.it
Abstract
Il contributo affronta le principali tappe dell’introduzione della valutazione dell’efficacia nella biblioteconomia italiana, all’interno di un movimento innovativo più generalizzato che ha portato all’affermazione dei temi della “gestione consapevole”. Il principale strumento di lavoro sviluppato in quella stagione è stata la pubblicazione, nel 2000, delle Linee Guida per la Valutazione delle Biblioteche Pubbliche Italiane, prodotte dall'AIB. I profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni e il progressivo appannamento del ruolo delle biblioteche di base, a cui si sono aggiunte negli ultimi due anni le lacerazioni provocate dalla pandemia nel tessuto sociale, richiedono ora un ripensamento delle modalità e delle obiettivi per l’analisi dei bisogni dei cittadini, la definizione delle strategie di offerta e la valutazione dei servizi.
English abstract
The contribution deals with the main stages of the introduction of the evaluation of effectiveness in Italian librarianship, within a more generalised innovative movement that led to the affirmation of the themes of “conscious management”. The main working tool developed during that season was the publication in 2000 of the Guidelines for the Evaluation of Italian Public Libraries, produced by the AIB. The profound changes that have taken place in recent decades and a gradual tarnishing of the role of grassroots libraries, to which the lacerations caused by the pandemic in the social fabric have been added in the past two years, now require a rethinking of the methods and objectives for analysing the needs of citizens, defining supply strategies, and evaluating services.
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Parlare di numeri o statistiche e parlare di Rino Clerici è molto facile, è quasi la stessa cosa: lo dico senza mancare di rispetto a una persona, la cui umanità va ovviamente ben oltre i numeri.
Comincerei dai numeri che in questi ultimi due anni abbiamo sentito ripetere ogni giorno, proprio dai numeri che ce lo hanno portato via. Uno degli strani effetti che la pandemia ha avuto su ciascuno di noi, mi pare, è un certo distacco – forse è una inconsapevole forma di difesa – dalle cose, che pure hanno profondamente cambiato la nostra vita.
Abbiamo imparato a contare i morti a centinaia ogni giorno. Non guardavamo dentro i numeri, facevamo caso solo ai dati in serie storica: il numero delle persone ricoverate in terapia intensiva, o il numero dei morti, chiedendoci se era maggiore o minore di quello del giorno precedente, o se il tasso di positività rispetto ai tamponi stesse aumentando o calando. E così è stato per i 6 milioni e mezzo di morti nel mondo (numeri superiori a quelli della Shoah, tanto per intenderci in termini comparativi e senza voler fornire una graduatoria in termini di gravità e orrore) e i quasi 170.000 morti in Italia da quando è iniziata la pandemia.
Ci rendevamo conto del dramma vero solo quando uno di questi numeri assumeva un nome e un cognome, corrispondeva a una persona che conoscevamo, a una persona cara. E allora un numero diventava una persona, e il dolore si personalizzava. Così è stato il 6 aprile 2020, quando uno dei 636 morti, una delle 636 persone decedute quel giorno è stato Rino Clerici.
Esagererei se dicessi che eravamo amici o che avevamo una costante consuetudine di lavoro. Però ci intendevamo. Una cosa mi accomunava a Rino: a entrambi piaceva “spremere” i numeri, farli parlare, trarne indicazioni, usarli per comprendere le tendenze in atto, simulare scenari e verificare ipotesi di lavoro. Partire dai dati, cioè, ma poi analizzarli alla luce dell’esperienza e proiettarli in un disegno di futuro.
Rino era il prototipo di professionista di una biblioteca pubblica, molto radicato nella propria realtà territoriale, ma capace di osservare anche il contesto, andando oltre quella realtà particolare, alla ricerca di qualcosa su cui impiantare un percorso di crescita, un mix virtuoso fra pragmatismo e idealità.
Peccato che il Coronavirus se lo sia portato via: il suo contributo sarebbe stato prezioso in questa fase, per cercare di capire l’impatto della pandemia sulle biblioteche e per contribuire a ripensare l’offerta bibliotecaria nel mondo che verrà dopo il Covid-19, adeguandola agli stili di vita e di consumo culturale che si affermeranno nei prossimi decenni.
Vengo ora al tema che mi è stato chiesto di affrontare, che è molto più vicino di quanto possa sembrare alle cose appena dette a proposito di Rino. Lo farò provando a ripercorrere il cammino che i bibliotecari e la biblioteconomia hanno fatto in Italia sulla strada della valutazione della qualità, per raccontare la fatica che ci è costata e per provare a dimostrare che “ne è valsa la pena”. Non c’è bisogno di cambiare discorso: la statistica descrive i fenomeni allo scopo di comprenderli, guardandovi dentro (e dietro) e analizzandone le dinamiche.
Ho avuto la fortuna di far parte di quella generazione di bibliotecari che in anni ormai lontani si è accostata ai temi della biblioteconomia gestionale, o della “gestione consapevole”, come ho sempre preferito dire. Cominciammo ad applicare rilevazioni statistiche e altri metodi quantitativi all’analisi dei servizi offerti e degli obiettivi perseguiti e talvolta raggiunti, per monitorare l’efficacia delle biblioteche, e alla valutazione della quantità di risorse impiegate per produrre servizi, in modo da determinare l’efficienza del loro funzionamento. Facemmo una gran fatica per individuare le entità da misurare e i fenomeni da studiare, per definire in modo univoco i dati da rilevare, per mettere a punto le metodologie con cui raccoglierli, per capire come incrociare tali dati al fine di elaborare e interpretare gli indicatori che se ne potevano ricavare, e infine per comparare realtà simili e giudicarne le performance. In questo senso fu un esercizio corale di autoformazione, che modificò e arricchì non solo la sensibilità dei bibliotecari italiani, ma anche il lessico professionale. Il nostro principale obiettivo, come ho detto, era misurare l’efficacia e la qualità; ci accostammo invece con molta prudenza ai temi dell’efficienza e della produttività, perché si trattava di approcci derivanti dalla cultura d’impresa, cui la maggior parte della comunità professionale, almeno la parte più anziana dei suoi componenti, guardava con sospetto. In più di un’occasione venivamo percepiti come i mercanti nel tempio, che parlavano di bilanci, di carichi di lavoro e di resa degli investimenti in un ambiente che non voleva sporcarsi le mani con questi temi e che riteneva che i servizi culturali dovessero orbitare in un empireo. L’equivoco nasceva forse dal timore che si volessero proporre forme di gestione di tipo privatistico. Personalmente, sono invece sempre stato convinto che l’attenzione nell’uso delle risorse – che provengono dalle imposte versate dai cittadini – sia indispensabile se si intende affermare la grande vocazione pubblica dei servizi bibliotecari territoriali.
Il nostro lavoro era agevolato dalla spinta che in quegli anni veniva da varie direzioni: una generalizzata spinta all’autonomia e ad una distinzione tra le funzioni di indirizzo politico e quelle gestionali, affidate ai professionisti; la fisiologica pervasività del metodo della cooperazione, che dagli ambiti procedurali e tecnici cominciava a toccare tutti gli aspetti della gestione dei servizi; la standardizzazione imposta dalle applicazioni informatiche. Questo e altro ancora rendeva necessario descrivere e misurare input e output delle biblioteche. Il risultato più meditato di quella stagione – durante la quale fiorirono tantissime indagini – fu quello di individuare e definire i dati da rilevare, e il modo in cui farlo; progettare gli indicatori che potessero descrivere le performance delle biblioteche; per ognuno di questi indicatori definire i valori minimi, al di sotto dei quali non era accettabile che una biblioteca si definisse tale; contestualizzare questi indicatori e descrivere le rispettive correlazioni, in modo da ipotizzare alcuni standard-obiettivo; individuare i valori intermedi, da ottenere distribuendo le biblioteche analizzate in quartili, in modo da offrire a ciascuna un suo credibile obiettivo verso cui tendere.
Insomma: misurare, comparare e valutare i servizi bibliotecari per migliorarli. Arrivammo a questi risultati – ancora lontani da una vera e propria “gestione per obiettivi”, ma che a noi sembrarono un enorme passo avanti, considerata l’assenza di tradizione della biblioteconomia italiana in questo campo – attraverso l’indagine AIB Quanto valgono le biblioteche pubbliche? edita nel 1994 e la successiva pubblicazione nel 2000 delle Linee guida per la valutazione delle biblioteche pubbliche italiane.
Eravamo consapevoli che gli strumenti che utilizzavamo non riuscivano a gettare luce su tutto quello che c’era da capire, ma ci fermammo lì. In alcuni casi ci spingemmo su un territorio di confine, fino alla rilevazione del grado di soddisfazione dell’utenza, facendo ben attenzione a maneggiare una materia così delicata, nella consapevolezza che stavamo spostandoci da un terreno “certo”, in cui si discuteva di danaro speso, di volumi acquistati o prestati, di utenti iscritti, e così via, verso un orizzonte molto più impalpabile e indeterminato, come lo scarto esistente fra le aspettative dei cittadini utenti e la percezione che essi avevano della qualità del servizio ricevuto. Entravano in ballo variabili che non era facile dominare con gli strumenti di cui disponevamo, da autodidatti e da dilettanti.
Ci interessava che i bibliotecari imparassero ad autovalutare il proprio operato, intuire quali fossero i fattori che condizionavano i risultati e le prestazioni delle loro biblioteche, dare una spinta a migliorarne la qualità dei servizi. Le rilevazioni statistiche, che fino ad allora erano state un adempimento a beneficio delle amministrazioni di appartenenza, potevano diventare uno strumento uno strumento di riscontro che le scelte fatte andassero nella giusta direzione. Ora possiamo dire che qualcosa non ha funzionato: se dovessi “valutare” criticamente gli effetti del lavoro di quegli anni, direi che non abbiamo visto scattare una distribuzione premiale delle risorse, orientate verso che aveva ottenuto risultati importanti, né sul versante opposto interventi correttivi rivolti a chi era rimasto indietro, finalizzati a rimuovere gli ostacoli che avevano impedito il raggiungimento di risultati postivi.
Resta la crescita professionale, e non è poco. Anzi, credo sia stato quello il principale risultato ottenuto. Si rinvigorì un movimento, attorno al quale si raccoglieva una comunità professionale: in particolare si trattava di una generazione di bibliotecari entrati in carriera una ventina di anni prima a partire dagli anni Settanta, sull’onda di un rinnovamento dei servizi socioculturali nel nostro paese e che caricava il proprio lavoro di una forte passione civile, nella convinzione che si potesse fare molto di più per realizzare la grande funzione delle biblioteche di base.
Anche quella passione non ha prodotto i risultati sperati. Certo, se prendiamo come spartiacque gli anni Settanta e la nascita delle Regioni e poi quello che è accaduto nel ventennio successivo, è ovvio che non c’è paragone tra le biblioteche pubbliche italiane pre-decentramento e quelle attuali.
Però, dal punto di vista del radicamento e della qualità dei servizi bibliotecari nel nostro paese, non si sono dischiusi pienamente tutti i frutti che potevamo ricavarne. Ma la comunità professionale ha proseguito il suo percorso di crescita. In altre occasioni l’ho detto, e sono pronto a ripeterlo: i bibliotecari italiani sono mediamente migliori delle biblioteche in cui lavorano. E, da veri professionisti, hanno a cuore l’efficacia e la qualità delle biblioteche per le quali lavorano. Dovremmo chiederci, però, per quale motivo non sempre le strutture assomigliano ai bibliotecari.
Tornando al clima di quegli anni e alle motivazioni che ci animavano, va detto che ci affidavamo agli indicatori per migliorare le biblioteche; per cercare una indicazione verso cui dirigerci, per elaborare un sistema a supporto delle decisioni.
Ma ora non basta più.
Perché le trasformazioni sono talmente profonde e il mutamento degli stili di vita sono talmente radicali, che dobbiamo interrogarci sul senso delle biblioteche. Parafrasando ciò che ho appena detto, credo che oggi ci serva uno strumento a supporto della comprensione.
Sono cambiati tutti i riferimenti, anzi li abbiamo persi. Forse non ci sarebbe neppure bisogno di citarli, mi limito a enunciarli per punti:
- il trasferimento sulla rete di gran parte della nostra esistenza, specie dopo le accelerazioni imposte dalla pandemia;
- la connessione in mobilità, che ha modificato il nostro rapporto con l’informazione e con le persone, portandoci in un ambiente caratterizzato dalla connessione perenne e non dalle coordinate territoriali;
- l’apprendimento per immagini, che sempre più spesso si sostituiscono alla parola scritta.
Questi e altri sono fenomeni che gradualmente hanno modificato il contesto in cui viviamo, compreso quello in cui avviene la partecipazione culturale, e contribuito ad appannare le funzioni delle biblioteche pubbliche.
La profondità del cambiamento la possiamo misurare con un dato che troviamo nel Rapporto BES, pubblicato dall’Istat nell’aprile scorso, in cui leggiamo che nel 2021 solo il 7,4% degli italiani ha frequentato le biblioteche: lo dico in altri termini, il 93% non ci mette piede. Su questa indagine è previsto un altro contributo, per cui dico solo poche cose.
- Il 2021, anno in cui c’è stata una parziale (forse troppo timida) riapertura, le cose sono andate molto peggio del 2020, anno del lockdown, durante il quale per mesi siamo stati chiusi in casa e i luoghi della cultura sono stati a lungo inaccessibili.
- Il pubblico che è venuto meno è sostanzialmente quello dei giovani, certo anche perché la vita scolastica e universitaria è stata quasi del tutto “sospesa” per un paio d’anni; ma dobbiamo chiederci se fossero davvero utenti delle biblioteche e dei loro servizi o solo frequentatori dei loro spazi.
- Le ferite inferte dalla tragedia della pandemia non sono solo quelle più evidenti, sono quelle patite dai giovani, che hanno perso due anni di vita “fisica” e di relazioni sociali; sono calati tutti gli indicatori relativi alla partecipazione sociale, forse perché stiamo perdendo interesse per gli altri; giovani e adolescenti sono rintanati nella loro “cameretta”, chiusi in una bolla in cui c’è posto solo per i social network, le serie tv da seguire in streaming e poco altro.
- Le biblioteche stanno perdendo gli adulti di domani, mentre tiene abbastanza bene il pubblico degli adulti di oggi, quello più fidelizzato: in una società che invecchia, questo è un bene o un male? I nostri utenti sono panda in via di estinzione? Dobbiamo aspettare l’onda lunga?
Non è facile immaginare come se ne esce e certo non posso essere io a cercare le risposte; mi è stato chiesto di parlare essenzialmente degli strumenti di lavoro, che potranno anche aiutarci a trovare le risposte di cui al momento non disponiamo. Abbiamo bisogno di strumenti “contemporanei”, utili oggi ai bibliotecari italiani per comprendere e gestire i problemi attuali. Servono strumenti che ci aiutino a uscire da un approccio novecentesco, a traghettare le vecchie biblioteche (e anche i bibliotecari, ormai invecchiati anch’essi) in uno scenario nuovo, che accompagnino questo passaggio dal vecchio al nuovo, affiancando ai dati e agli indicatori che elaborammo allora e che ormai sono consolidati nella pratica quotidiana nuovi approcci e nuovi strumenti, anche nuovi dati e nuovi indicatori, che aprano lo sguardo verso nuove forme di analisi e valutazione. Torno al tema della comprensione dei fenomeni, al motto virgiliano rerum cognoscere causas: beato chi può conoscere davvero le cose comprendendo le cause che le hanno generate.
Non credo che il lavoro dei decenni passati sia da buttar via, perché ha contribuito a far entrare nel nostro bagaglio professionale l’abitudine a interrogarsi, a non dare niente per scontato, a cercare le correlazioni tra i fenomeni. La biblioteconomia gestionale ci aiutò ad abbandonare una visione romantica e umanitaria della biblioteca pubblica, ribadendo con maggiore forza e consapevolezza i valori del servizio bibliotecario di base, che in un’epoca precedente Virginia Carini Dainotti aveva definito “istituto della democrazia”, ma senza riuscire a realizzare in modo conseguente una rete di biblioteche davvero ispirate a quei valori.
Cominciammo a praticare negli anni Novanta una “biblioteconomia basata sull’evidenza”. Ora questa evidenza non c’è più. A me sembra di vedere tanta nebbia attorno alle analisi relative alle biblioteche e alla loro funzione nel mondo che verrà.
Ma siamo abbastanza maturi da elaborare e applicare metodi nuovi.