Manuale di sopravvivenza nell'era della disinformazione
Docente Istituto “Francesco Gonzaga” - Castiglione delle Stiviere (MN); Referente Scuola Polo della Regione Lombardia per la promozione della lettura
Abstract
Recensione di Bruno Cavallarin al libro di David J. Helfand, Manuale di sopravvivenza nell'era della disinformazione, Trieste, Scienza Express, 2022, 424 p.
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Passeggiata al parco o lezione frontale sulla nucleosintesi stellare al chiuso della Columbia University?
La richiesta del prof. Helfand suona strana ai suoi settanta studenti, mentre un qualsiasi lettore di buon senso del saggio dell’astrofisico David J. Helfand, per quanta stima possa nutrire sugli aspiranti astrofisici statunitensi, indovinerà l’alternativa vincente: meglio passeggiare.
Lo stesso lettore però non dovrà essere tratto in inganno dall’anomalo inizio del primo capitolo del Manuale di sopravvivenza nell’era della disinformazione, edito in inglese nel 2016. Se si pensa che Helfand, nel proporre l’uscita, sia stato preso dal raptus dell’Attimo fuggente per una didattica stravagante e illuminata, ci si troverà a dover fare i conti con numerose varianti rispetto alle logiche del “capitano mio capitano” immortalato da Robin Williams.
Anzitutto la proposta di una lezione all’aperto non nasce dalla voglia di rinnovarsi con nuove scenografie alle spalle: l’immergersi nell’ambiente costituisce una necessità per il docente scienziato, poiché la natura è l’oggetto del suo studio ed egli deve far crescere la capacità di capire quel libro scritto in termini matematici, osservandolo. In secondo luogo, la poesia che turba e affascina gli allievi del creativo prof. Robin Williams non trova spazio nelle lezioni dei corsi di Frontiere della scienza del Columbia College, resi obbligatori nel primo anno proprio per volontà di David Helfand.
La sua tesi, sposata ed esplicitata fin dalle prime pagine, sostiene che l’abitudine a rivolgere uno sguardo poetico alla realtà ci ha esposto a una tendenza a fantasticare, filosofare, a credere all’inverosimile. Una maggiore alfabetizzazione scientifica ci fornirebbe invece un prezioso scudo protettivo contro la disinformazione.
La nostra è l’era dell’aumento vertiginoso delle informazioni ma, ci ammonisce Helfand, la notizia a portata di click, oltre a non renderci colti e più critici, ha diminuito in noi la familiarità con il ragionamento quantitativo (l’autore esibisce l’andamento di 38 anni di selezioni di studenti della Columbia) e, inoltre, ha abbassato le nostre difese immunitarie contro la disinformazione. Il lessico inglese è più preciso dell’italiano proponendo un’opportuna distinzione: esiste un’informazione falsa, ma non creata con l’intenzione di danneggiare (misinformation), un’informazione falsa creata deliberatamente per danneggiare (disinformation) e una basata su dati reali usata per danneggiare persone o organizzazioni (malinformation). Non si sa quale sia peggiore, ma si può pensare che la gravità sia inversamente proporzionale al grado di consapevolezza con cui la si accoglie.
L’invito al parco si traduce allora in una proposta ad addentrarci nei meandri della scienza per capire anzitutto ciò che scienza non è, per stendere una sorta di decalogo sulle caratteristiche dei processi corretti del ragionamento e per non tacere i punti deboli e gli incidenti di percorso cui può andare incontro anche il più corretto tra gli scienziati. Scopriamo che, nel ragionamento scientifico, c’è una certa ritrosia a parlare di Verità, concetto che meglio si addice alle convinzioni religiose o a teoremi matematici: “Gli scienziati non possono dimostrare la verità delle cose. In realtà, gli scienziati passano un sacco di tempo a dimostrare la falsità delle cose (principalmente dei loro stessi modelli). Prima di concludere che si tratta di un compito deprimente, guardatevi attorno. Heinrich Hertz dimostrò la falsità della concezione secondo cui la gamma delle onde luminose è limitata alle lunghezze d’onda percepibili dal nostro occhio, e il funzionamento del vostro cellulare oggi deriva da questa scoperta. Louis Pasteur confutò la teoria della generazione spontanea, e con ogni probabilità voi oggi siete vivi e potete leggere questo libro proprio perché lui ha dimostrato l’infondatezza di quella che era considerata semplicemente un ragionamento di buon senso”. L’elenco degli esempi continua per dimostrare che la scienza altro non è che un “sistema disegnato per cercare modelli falsificabili della Natura”.
L’assunto del filosofo della scienza Karl Popper (“Il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità e controllabilità”) è alla base delle caratteristiche di una scienza che non può fare a meno del calcolo. La scienza senza dati non è scienza, ci dice Helfand; ma al tempo stesso il fisico confessa d’aver sentito spesso i propri studenti affermare: “Mi piacciono un sacco gli aspetti teorici, ma al calcolo proprio non ci arrivo”. Per un fisico – afferma Helfand – “quest’affermazione è un ossimoro: una teoria astrofisica è la formulazione matematica di un’idea, la teoria è il calcolo (benché non sia così in altre branche della scienza)”.
Ma i dati numerici e la loro lettura costituiscono anche un campo minato, soprattutto se c’è una mancata contestualizzazione: di qui l’ampio studio sui grafici, l’analisi della cattiva reputazione di cui godono le indagini statistiche e l’approfondimento dedicato al calcolo delle probabilità. In particolare, quest’ultimo argomento tende a sfatare l’idea che la correlazione tra due variabili costituisca di per sé un rapporto di causa ed effetto. Un esempio per capire: “Fra il 2000 e il 2009 negli Stati Uniti c’era fortissima correlazione fra il consumo pro capite di formaggi e il numero di morti per asfissia di persone rimaste impigliate nelle proprie lenzuola”. Basta pensare all’una come causa e all’altra come effetto e la correlazione casuale diventa fake news.
Il pericolo che tali calcoli sbagliati finiscano in prima pagina e producano mostruosità è altissimo. Anche perché – ironizza Helfand – a fronte di “una discalculia che dilaga tra i suoi rappresentanti, la stampa mostra una vera e propria ossessione per la presenza e abbondanza di dati numerici”.
Il metodo per distinguere la scienza da ciò che scienza non è, c’è: “Chi fa buona scienza è scettico, empirico, disinteressato, scrupoloso nella sua onestà intellettuale e aperto a qualsiasi risultato ci arrivi dalla Natura. Al contrario chi fa pseudoscienza è un epigono privo di scetticismo, interessato (spesso economicamente), intellettualmente disonesto e dogmatico”.
In definitiva, la buona scienza ha gli strumenti per smentire sé stessa mentre la pseudoscienza non intende neppure cercarli, per non doversi mettere in gioco. La buona abitudine al ragionamento scientifico (sottotitolo del saggio) consolida una forma mentis capace di scovare le bufale. Ecco che l’invito al parco, rivelatosi una proposta di approfondimento del ragionamento scientifico, si manifesta in conclusione del saggio come un’esortazione di carattere civico: l’alfabetizzazione scientifica contribuisce a far crescere un atteggiamento critico di fronte alla realtà.
Non è certamente un caso se l’attenzione al saggio di Helfeld, visionato nella sua versione inglese, sia stata posta proprio nell’ambito dell’insegnamento dell’educazione civica tra i banchi dell’Istituto superiore “Enrico Fermi” di Salò (BS) dove il prof. Enrico Bertoldi ha letto alcune pagine e proposto alcuni esercizi dell’Appendice (Allenare le buone abitudini al ragionamento scientifico). Da questa esperienza è nata il suggerimento editoriale della versione italiana, posto da Bertoldi e accolto dall’autore. Nell’aprile 2022 ha visto quindi la luce il saggio tradotto da Fernanda Flamigni, curato da Bertoldi e edito da Scienza Express. Nell’era pandemica c’è stata la necessità di un’ulteriore prefazione, dato che questi anni hanno detto la loro quanto a creatività e disinformazione, in termini scarsamente poetici e tanto meno scientifici.