N.8 2021 - Biblioteche oggi | Novembre 2021

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De bibliotheca. Di libri, di uomini, di idee

Tiziana Stagi

tiziana.stagi@unifi.it

Abstract

Recensione di Tiziana Stagi al libro di Gianluca Montinaro, De bibliotheca. Di libri, di uomini, di idee, Firenze, Leo Olschki, 2020, V + 138 p.

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È il quarto titolo della serie “Piccola biblioteca umanistica”, edita da Olschki e diretta da Gianluca Montinaro, curatore del volume, con il quale si rende omaggio a Umberto Eco e al suo intervento milanese, De Bibliotheca appunto, dedicato alle funzioni, passate e future, delle biblioteche nella storia dell’umanità. Ambizione condivisa da questo agile libro, che con brevi ed eterogenei saggi propone una riflessione sull’ontologia della biblioteca, sul suo essere “luogo privilegiato in cui la civiltà occidentale ha riflettuto su se stessa” e “in cui le idee prendendo corpo dialogano fra loro e hanno dato vita alla civiltà del libro”. 

La biblioteca come luogo è, anche, il primo tema indagato da Giorgio Montecchi, nel suo Gli spazi della biblioteca: fisico, istituzionale, mentale e, oggi, digitale. L’importanza della progettazione dello spazio fisico di una biblioteca e la centralità della figura dell’architetto, riconosciuta sin da Vitruvio nel suo De architectura, svelano come lo spazio fisico già nelle fase dell’ideazione sia strettamente connesso a quello mentale da una parte, ma anche a quello istituzionale, che “definisce e limita, nei loro rispettivi ruoli, le relazioni tra le persone che sono coinvolte nella committenza, nella progettazione, nella costruzione e in seguito nella fruizione”. Montecchi approfondisce quindi il momento in cui con l’Umanesimo sì rivoluzionò lo spazio bibliotecario, tramite l’adozione della pianta basilicale a tre navate da parte di Michelozzo da Forlì per la biblioteca di San Marco a Firenze, tipologia architettonica rimasta predominante per cento anni, fin quando i libri a stampa misero in crisi questo modello. Venuta meno la possibilità di ospitare tutti i volumi del sapere distesi nei plutei in orizzontale, in età moderna si sviluppò la tipologia del “vaso”, ampio salone monumentale con le pareti ricoperte di scaffali per ospitare volumi a stampa organizzati secondo sistemi di classificazione universali: la biblioteca non era più solo luogo fisico, ma rappresentava lo spazio mentale dei libri e del loro contenuto. Montecchi rimarca quindi il passaggio ottocentesco al predominio tra gli spazi della biblioteca di quello istituzionale, e di una organizzazione sistemica delle biblioteche di tipo piramidale: le biblioteche storiche, le statali, al vertice, quindi gli istituti delle comunità cittadine, o le ecclesiastiche sopravvissute, secondo tipologie di funzioni diversificate in base all’utenza di riferimento e ad una più articolata organizzazione del sapere, che gradualmente si specializza. Anche gli spazi fisici così sono suddivisi e specializzati: magazzini per i libri, uffici per il personale, e sale di consultazione di lettura e di studio diversificate per tipologie di materiali in base alle esigenze variegate di un pubblico. Si giunge alla fine di questo sommario ma efficace riepilogo della storia dell’architettura della biblioteca con l’insorgere dello spazio digitale che si è aggiunto recentemente a quello fisico, mentale ed istituzionale, con un ruolo ancora tutta da decifrare, ma che sicuramente porterà a un ripensamento profondo anche della questione degli spazi bibliotecari.

Alfredo Serrai, con il suo intervento Bibliografia e biblioteche, ritorna sulla questione del significato del termine “bibliografia”, apparentemente ovvio ma “scivoloso”, da chiarire anche per definirne meglio il rapporto con le accezioni semantiche di “biblioteca”. Dopo aver disvelato gli equivoci più comuni, di natura generale, teoretica e tassonomica, nell’utilizzo del termine bibliografia, Serrai ne individua l’origine nella perdita in età moderna del duplice denotazione della parola bibliotheca di realtà fisica e di rappresentazione indicale, virtuale, ossia elenco di libri. Serrai invita quindi a recuperarne il significato di “catalogo dei personaggi e dei fatti letterari e documentari”, organizzato con un “ordinamento secondo un fine e sulla base di una logica specifica, di tutte le creazioni documentarie, letterarie, scientifiche o storiografiche generate da un qualsivoglia agente in qualsivoglia luogo, tempo o periodo”. La bibliografia in altri termini, costituisce “il catalogo delle testimonianze sulla storia del mondo e del genere umano, scritte da chi le ha vissute e da chi le ha interpretate”, e il suo “monumento fondativo” è la repertoriazione universale di Conrad Gesner. Secondo Serrai l’insieme delle biblioteche può essere considerato in qualche modo la proiezione concreta, fisica e materiale, della realtà bibliografica, correttamente denotata. La riflessione sul binomio bibliografia e biblioteche viene quindi spostata su un piano ancor più filosofico, e riletto alla luce del confronto con i concetti di realtà e verità, considerato dalla duplice prospettiva dell’individuo e dell’umanità, illuminati dalle dotte citazioni di Blaise Pascal e Maurice Maeterlinck. Concludono il saggio alcuni spunti di riflessione sul controverso ruolo delle biblioteche nel mondo attuale, dopo la perdita “dell’aura di templi dello spirito” ma anche della centralità nello svolgimento di una funzione attiva in ambito culturale, ormai surclassata da altri istituti e strumenti tecnologici. 

Alla storia di questi “musei del sapere” è dedicato il saggio di Fiammetta Sabba, La storia delle biblioteche come clavis bibliothecarum, che prende avvio da una riflessione puntuale sul metodo storico applicato alle biblioteche, sulla dicotomia tra ricerche di tipo induttivo basate su storie relative a singoli istituti oppure di tipo istituzionale, concernenti la costituzione, organizzazione e gestione a livello più generale delle raccolte librarie, specifico fatto culturale di una civiltà. D’altra parte, le ricerche storico-documentarie del secondo tipo possono distinguersi per Sabba anche a seconda che considerino la biblioteca in sé, oppure come sistema o anche come componente della storia della cultura più in generale: di queste possibili linee di ricerca vengono quindi menzionati vari esempi, anche di altri studiosi. In conclusione, Sabba ricorda la specificità delle biblioteche e la conseguente necessità di uno studio anche di quegli strumenti specifici prodotti nell’ambito della sua attività istituzionale, come cataloghi, registri, compresi quelli riguardanti l’utilizzo da parte degli utenti, o lo stesso corpus bibliografico – le raccolte, ad esempio –, misurandone “il grado di copertura bibliografica, il livello delle logiche della sua organizzazione e della sua fruizione”. In questo modo si rispecchia così a pieno la natura di sistemi complessi che mettono in relazione gli autori, i libri e i cataloghi e gli utenti. 

Spetta a Gianfranco Dioguardi, autore di Libri e biblioteche nel terzo millennio: le nuove frontiere del digitale, bibliofilo e fondatore in Italia dell’ingegneria gestionale, approfondire la funzione “salvifica” dei libri e della lettura rispetto al cosiddetto “consumismo tecnologico”, ossia la fruizione veloce e “priva di memoria” della documentazione scritta digitale. Quest’ultima determinerebbe una serie di modifiche non solo culturali ma antropologiche, oltre che sulle modalità di pensare dell’uomo, riducendone la capacità generalizzatrice e l’abitudine all’approfondimento in favore di un’immediatezza e superficialità nel fare e nel pensare. Secondo Dioguardi è necessario rifondare un neo illuminismo culturale, così che – attraverso il risveglio dell’amore e del rispetto verso il libro fisico, e la valorizzazione dei luoghi adibiti alla sua conservazione e fruizione, le biblioteche –, si possano salvaguardare anche la lentezza e la sedimentazione tipici del leggere e del pensare “tradizionale”, non digitale. 

Il volume, dopo questa prima parte introduttiva, più teorica, prosegue con alcuni saggi su specifiche biblioteche, nei quali si concretizza la diversità dei temi, del metodo e dei filoni di ricerca menzionati da Sabba. Ad esempio, Antonio Castronuovo espone il caso della Brautigan library, una biblioteca molto particolare che ospita libri mai pubblicati di scrittori non famosi, o sconosciuti. La collezione prende il nome da Richard Gary Brautigan, scrittore appartenente alla beat generation, il quale, dopo un periodo di successi, cadde in disgrazia e, alcolizzato, si suicidò. Fondata nel 1990 a Burlington da un fan dello scrittore, il nome e la mission si ispirano a uno dei suoi romanzi, Abortion, che vede tra i protagonisti un “bibliotecario” sui generis che dedica il suo tempo a raccogliere manoscritti inediti nella città di san Francisco. Passata nel 1995 alla Fletcher Free Library, la collezione, ancora piuttosto esigua, venne poi trasferita a Vancouver, dove ha tuttora sede. Si tratta di opere “anticonformiste per stile e idee”, ricercate da utenti in cerca di “stimoli per superare i limiti comuni della creatività”. Il caso è interessante in sé, ma anche per la filosofia “stravagante”, la finalità culturale che ne è alla base, ossia la raccolta e la messa a disposizione di un potenziale pubblico di ciò che è stato escluso dai meccanismi di pubblicazione e commercializzazione del libro per garantirne comunque la conservazione, sebben si tratti di “scarti” dell’industria editoriale, anche digitale. In questo modo si garantisce la memoria anche a scrittori ignoti, ma aspiranti tali, o che per “istinto ribellistico” hanno rifiutato “la pubblicazione a proprie spese o l’editoria d’impresa”. 

Anche il contributo Biblioteche immaginarie, di Piero Meldini, tratta di un tipo molto specifico di biblioteche, quelle citate in testi letterari come reali ma inesistenti, le pseudo-biblioteche: descrizioni di raccolte bibliografiche o di “spazi fisici”, per riprendere Montecchi, che prendono vita in uno spazio puramente immaginario, o mentale. Meldini distingue tra biblioteche immaginarie “pubbliche”, che spesso si ispirano a istituzioni realmente esistenti frequentate o conosciute dagli scrittori, come ad esempio la Hortis di Trieste per Svevo, la Lucchesiana di Agrigento per Pirandello, e biblioteche “private”, in genere immaginate a somiglianza del personaggio letterario di turno. Molti gli esempi citati da Meldini per quest’ultima tipologia, come la biblioteca del criminologo Orion Hooh, personaggio di Chesterton, o la biblioteca di palazzo in Malombra di Fogazzaro. In genere monotematiche o unidisciplinari, rispecchiano la personalità del personaggio letterario: quella di don Chisciotte è così dedicata ai poemi cavallereschi oppure quella di don Ferrante ne I promessi sposi ha i caratteri di un “intellettuale antimoderno”, mentre è specializzata in scienze occulte la biblioteca del signore d’Astarac immaginata in Club Dumas di Perez Revert. In generale per Meldini “le biblioteche immaginarie oscillano come un pendolo tra i capi opposti del paradiso e dell’inferno: se quelle delle ghost stories sono accozzaglie di libri dannati e luoghi di perdizione, una di Anatole France è luogo di delizie, del sapere conviviale, ghiotto e confortante”. 

Giuseppe Scaraffia, già docente di letteratura francese alla Sapienza, con A casa di chi scrive “è un leggere continuo”, ripercorre agilmente gli spazi della lettura, gli arredi librari, l’organizzazione delle biblioteche personali, o anche le manie sui libri, di scrittori dell’Otto-Novecento. Se Claude Lévi-Strauss organizzava i libri come un planisfero sul muro, dove la posizione dei libri rispecchiava quella dei popoli sulla terra, Marguerite Yourcenar disponeva i libri tra le diverse stanze in base alla geografia e alla storia; Moravia li teneva uniti per collane, mentre Marcel Schwob ne teorizzava l’estremo disordine in quanto “anche il disordine è un ordine forse anzi ancora più rigoroso perché nasconde almeno due intenzioni quella di celebrare lo straripare della cultura e quella di ricreare l’incontro casuale o intenzionale che ha portato all’acquisizione del volume”. Scaraffia non manca di menzionare anche altri aspetti che caratterizzano le raccolte private di scrittori che possono offrire utili informazioni personali: libri che invadono i luoghi di lavoro (le scrivanie), i maniaci delle rilegature lussuose, come Jules ed Edmond de Goncourt, Andre Breton e Paul Eluard, o non lussuose come Virginia Woolf, che li rilegava da sola; o anche le numerose e preziose le abitudini di lettura e di utilizzo del libro da parte degli scrittori che declinano vari modi di appropriarsi dei libri, di personalizzarli e renderli unici, come i disegni apposti da D’Annunzio o le più stravaganti note di possesso. Innumerevoli possono essere gli aspetti da studiare, conclude Scaraffia, perché “ogni biblioteca, per il fatto stesso di esistere evoca il suo doppio proibito o dimentica: i modi in cui uno scrittore di appropria dei libri possono essere molteplici, perché i libro sono per essi allo stesso tempo oggetto di svago e strumento di lavoro”. 

A una particolare tipologia di nota di possesso è dedicata la ristampa del saggio di Ugo Rozzo, “Ac amicorum”. Biblioteche private e prestiti amichevoli, già ordinario di storia del libro presso l’Università degli studi di Udine. Ac amicorum, variante della più diffusa formula et amicorum, tratta dalla nota di possesso dell’esemplare udinese della edizione in folio del De civitate Dei di S. Agostino stampata a Venezia nel 1490 e posseduta dal notaio Bernardino Fregona, che indicava la disponibilità a far circolare tra “gli amici” i propri libri a stampa. Una prassi, questa, in uso tra gli amanti della cultura, nata in ambito umanistico e già praticata dal Petrarca – che più volte aveva polemizzato con i collezionisti gelosi che non condividevano i volumi acquisiti, i bibliomani – che aveva precedenti illustri anche in età classica, fra cui Seneca. Rozzo ricorda altri esempi di umanisti, come Giovanni Andrea Bussi –, che consideravano l’invenzione della stampa un fattore che doveva favorire la circolazione dei libri – polemici verso i bibliomani gelosi. Al di là degli aneddoti o degli opposti approcci al libro come oggetto da collezionare vs libro come veicolo di una cultura da condividere, Rozzo avanza interessanti considerazioni sull’uso dei libri: se infatti nel XV e XVI secolo c’erano meno libri, questi circolavano molto e “quasi sempre il proprietario non ne era l’unico utente”. A ciò si aggiungevano le letture ad alta voce per un pubblico di ascoltatori...” oppure delle letture comunitarie soprattutto all’interno di gruppi religiosi”; pratiche così diffuse da far parlare Rozzo di “tiratura temporanea”, a indicare una specie di componente aggiuntiva al numero di copie stampate di un’opera, una “componente virtuale in funzione dei frequenti prestiti”. 

Completano il volume due saggi di Montinaro, dedicati a Lasswitz, Leibniz e tutti i libri del mondo e Una biblioteca politica fra Machiavelli e Botero, che impreziosiscono con ulteriori prospettive di ricerca – il tema metafisico della biblioteca-universo, il tema matematico della biblioteca universale, le raccolte che narrano in modo riflesso del pensare e dell’agire politico – una miscellanea non facile e non banale dedicata alla biblioteca: luogo fisico, immaginario e ideale, se non utopico.