Digital Humanities versus Medical Humanities?
Presidente GIDIF-Rbm; ivanatruccolo@gmail.com
Abstract
Lo scopo di questo articolo è di proporre alcune riflessioni e considerazioni sulla relazione fra Digital and Medical Humanities partendo dagli spunti offerti dal Master in Digital Humanities dell'Università di Milano, tenuto nel periodo Marzo 2020 - Gennaio 2021, il primo periodo pandemico da Covid 19, e dalla mia esperienza professionale come bibliotecaria biomedica. In particolare, gli spunti sono stati offerti dal modulo “Fundamentals of Digital Humanities” del master, tenuto dalle docenti Blythe Alice Raviola e Simona Turbanti. Ci sono alcune somiglianze e coincidenze temporali interessanti fra l'evoluzione delle Digital Humanities e quella della scienza e della pratica dell'informazione e della documentazione biomedica. inoltre, esistono alcune importanti intersezioni fra il campo scientifico e quello umanistico.
English abstract
The aim of this paper is to propose some reflections and considerations on the relationship between Digital and Medical Humanities starting from the cues offered by the Master in Digital Humanities of the University of Milan, attended in the period 2020 March – 2021 January- first pandemic period from Covid 19 - and from my professional experience as a biomedical librarian. In particular, the cues were offered by the module “Fundamentals of Digital Humanities” of the master, held by the teachers Blythe Alice Raviola and Simona Turbanti. There are some similarities and interesting temporal coincidences between the evolution of the Digital Humanities and that of the biomedical information & documentation science and practice. Furthermore, there are some important intersections between the scientific field and the humanistic one.
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Premessa
In questo breve scritto intendo proporre alcune riflessioni e considerazioni sul rapporto fra Digital e Medical Humanities a partire dagli spunti offerti dal master in Digital Humanities dell’Università degli studi di Milano, frequentato nel periodo marzo 2020 – gennaio 2021 (primo periodo della pandemia di Covid-19) e dalla mia esperienza professionale di bibliotecaria documentalista biomedica. In particolare, gli spunti sono stati offerti dal modulo “Fondamenti di Digital Humanities” del master stesso, tenuto dalle docenti Blythe Alice Raviola e Simona Turbanti. La scelta dell’argomento mi è stata ispirata da alcune affinità e coincidenze temporali interessanti fra l’evoluzione delle Digital Humanities (in seguito DH) e quello della biblioteconomia e documentazione biomedica. Premetto che ho cercato di ridurre al minimo il filtro della soggettività, in parte tuttavia ineliminabile.
Anch’io come Javohir Isomurodov, giovane studente alle prese con le scelte di studio che poi optò per un corso di DH presso un’università italiana, mi sono trovata a scegliere un argomento di studio. La differenza fondamentale è che non mi trovavo nella necessità di farlo per prepararmi a una professione, come immagino il giovane studente Isomurodov, ma in una situazione di lifelong learning, alla fine della mia vita professionale di trentasei anni di bibliotecaria documentalista biomedica in un ente del servizio sanitario nazionale dopo un lustro di lavoro nei servizi sociali. Immagino ci abbia accomunato la curiosità di trovare una sintesi fra approcci e mondi almeno all’apparenza contrapposti. In tale sintesi si intravvede un nuovo profilo per le biblioteche-centri di documentazione biomedica, sempre più intrecciate con la tecnologia e l’interconnessione dei dati da un lato e gli aspetti umanistici dall’altro.
Introduzione
Mi sono trovata a occuparmi di biblioteche quasi per caso, come accade talvolta quando, cercando un determinato libro o documento nello scaffale fisico (o elettronico) di una biblioteca, ci si imbatte in un altro forse più interessante di quello cercato (è il fenomeno cosiddetto serendipity che è alla fonte di importanti scoperte). Per niente casuale invece è stata la decisione di rimanere in questo campo e altrettanto ragionata la formazione che ho dovuto e, fortunatamente, avuto l’opportunità di acquisire: niente in questo campo si improvvisa, cosa che ancora in troppi pensano. C’è spazio per l’innovazione a patto di sapere dove si è e dove si vuole andare.
Chi come me si è trovato a operare in campo tecnico e medico-scientifico a partire da un background formativo e professionale di tipo umanistico e di ricerca e intervento sociale, ha vissuto, in versione micro e considerate tutte le differenze, una situazione simile a quella che mosse i pionieri delle DH. A cominciare dal gesuita e studioso Padre Roberto A. Busa, classe 1913, che ha giocato un ruolo fondamentale nel settore dell’informatica applicata alle scienze umane. Volendo cercare l’occorrenza di singoli termini e preposizioni nell’enorme corpus degli scritti di Tommaso d’Aquino, Busa ha intuito che quell’enorme lavoro lo poteva fare sicuramente bene e forse anche meglio di lui una macchina opportunamente istruita. Da ciò l’Index Tomisticusquale risultato del felice incontro fra le idee dello studioso italiano e Thomas J. Watson, l’ideatore dell’IBM. Siamo già negli anni Ottanta del secolo scorso.
Banche dati e nuovi utenti
Nel 1996 viene pubblicato un importante position paper dalla Medical Library Association/Consumer and Patients Health Information Section dal titolo The librarian’s role in the provision of consumer health information and patient education. Un articolo “visionario” che indicava un possibile ruolo dei bibliotecari biomedici nel cercare, raccogliere, selezionare, accogliere le richieste e fornire informazioni affidabili a cittadini-pazienti per favorirne la patient education, impropriamente traducibile con “educazione terapeutica”, e l’autonomia decisionale. Come spesso accade, ci vorranno decenni perché questo approccio si diffonda, anche se alcune esperienze sono state “pilota” anche in Italia. Tale è stata l’apertura di una biblioteca scientifica ai pazienti nel 1998, ovvero l’organizzazione di uno spazio dedicato a pazienti e cittadini all’interno di un luogo originariamente dedicato solo agli “addetti ai lavori”, uno spazio fisico e digitale al contempo in collaborazione con una biblioteca pubblica. Tale strada, fortunatamente, è stata percorsa da altri in Italia e la stessa, in seguito, si è anche ampliata.
Digital Humanities e dintorni
Negli stessi anni, i progetti di DH si diffondevano sempre più, anche se il turning point si fa risalire agli anni Duemila. Importante la pubblicazione nel 2004 del manuale A companion to Digital Humanities, che contiene un’illuminante introduzione di padre Roberto A. Busa.
Ritengo piuttosto inutili le discussioni sul concetto di DH di cui abbondano la rete e la carta stampata: se è o non sarà mai una disciplina, come pensano alcuni sostenendo la priorità delle humanities rispetto al digital o viceversa, o se è un termine “ombrello”, come ritengono i più. Ciò che veramente conta e impatta, a mio parere, è la concezione della tecnologia e dell’informatica nelle DH, come in “biblioteconomia e documentazione” per citare titolo di un libro importante pubblicato in quegli anni. Il libro Documentazione e biblioteconomia, che ebbe innumerevoli ristampe e nuove edizioni, è stato estremamente innovativo, in quanto intrecciava due aree di competenza a lungo ritenute separate da molti. Illustrava principi e standard di descrizione di libri e periodici, norme di redazione dei cataloghi, insieme alle potenzialità offerte dalla tecnologia, allora agli inizi, di rendere disponibili potenti strumenti di accesso alla conoscenza, quali le banche dati biomediche. Il manuale, inoltre, faceva intravedere la possibilità per le biblioteche di condividere i cataloghi. Insieme a un percorso formativo specifico e l’incontro con alcuni pionieri nel campo della biblioteche-centri di documentazione biomedica, questo testo mi ha dato le chiavi per intraprendere la professione di biblio-documentalista. In questo intreccio ritrovo inoltre un curioso parallelismo con quanto avviene negli stessi anni in medicina.
La tecnologia e l’informatica diffusa erano già presenti in biologia e medicina, da anni sempre più robotizzata, specialistica e, su altro versante, attenta ai numeri (prestazioni, costi, aziende...) più che alle persone. Negli anni Novanta, però, la possibilità di accedere in modo diffuso alle risorse informative tramite la rete, favorì anche l’aumento delle possibilità di ricerca autonoma delle informazioni da parte delle persone e il desiderio di partecipazione informata dei cittadini pazienti al proprio percorso di cura.
Da anni assistiamo ormai al fenomeno del sovraccarico informativo, della misinformation e delle fake news, effetti indesiderati ma ovvi dell’accesso facile alla rete, sia come produttori che come consumatori (i prosumers!). Ma se è innegabile che con l’informatica diffusa si siano create situazioni negative quali anche una scarsa interazione umana nelle visite mediche, dall’altra questa ha contribuito, a mio parere, e non il contrario, al recupero di una visione olistica della persona. Il problema è il governo della tecnologia, non la tecnologia in sé.
C’è più di un parallelo fra quanto avviene in questi ultimi cinquant’anni nel campo delle Digital Humanities e in quello delle Life Sciences o “scienze della vita”. Anzi, oserei dire che c’è un filo rosso che li lega, un incontro di buone pratiche già in essere – citerò alcuni esempi – anche se un’intersezione di saperi è ancora in parte da scrivere, perché significa cambiare alcuni paradigmi. È un discorso complesso che porta lontano.
Questo parallelismo fra le due aree contrasta con quello che ho sempre pensato (e con dispiacere!) nei miei anni lavorativi. Ritenevo che il dinamismo e la spinta all’innovazione fossero driver per il settore delle scienze della vita e delle scienze dure, ma lasciassero ai margini il campo delle Arts & Humanities (per rifarsi alle tre macro-categorie in cui sono suddivise le aree del sapere nella banca dati Web of Science, per esempio: Life Sciences, Social Sciences, Arts & Humanities), dominato, quest’ultimo, da un ritmo lento, poca tecnologia e poco business, scarsa attrattività, a parte per gli appassionati, poca “utilità”.
Ora apprendo con piacere che non è proprio così, anche se i cambiamenti hanno bisogno di maturare.
Per quanto riguarda le DH, indicherei cinque elementi caratterizzanti:
- le DH sono accomunate dall’incontro fra opere dell’ingegno creativo, o comunque documenti di interesse, delle varie epoche con la tecnologia informatica;
- non si preoccupano di tracciare confini fra le discipline ma cercano intersezioni possibili e utili;
- sono interessate a rendere le opere sempre più “parlanti”, vive, accessibili, usabili e riusabili;
- interessano varie culture e lingue, anche se per molti anni c’è stata una prevalenza dell’inglese dato il suo carattere di lingua passepartout;
- sono rivolte a tutti, non solo agli esperti della disciplina.
È grazie alla tecnologia informatica, per dirla in modo semplificato, che si sono sviluppati progetti di grandi dimensioni per cui sempre più musei, biblioteche e archivi sono accessibili, e sempre più persone possono ammirare meraviglie altrimenti irraggiungibili. Il recente lockdown causato dal Covid-19 ha notevolmente allargato il numero di persone che hanno apprezzato e fruito di tali possibilità. Sempre più ricorrente e popolato di esperienze pratiche il concetto di GLAM (Galeries Libraries Arts & Museums) o MAB (Musei archivi biblioteche).
Fra i tanti, un esempio: il tour virtuale di Brera, facilmente accessibile a chiunque abbia un minimo interesse per l’arte e il bello e possieda uno smartphone. Chiunque può visitare alcune sale del museo, esplorarle in tutte le dimensioni, cosa che non si può fare dal vero, ammirare quadri imperdibili e farsi un’idea del contesto storico. Più persone possono desiderare maggiormente di recarsi a visitarlo dal vero.
La possibilità di visitare vari e diversi tipi di musei virtuali e altri beni culturali ha inoltre affinato il gusto di molte persone, anche non esperte, e le loro esigenze, al di là di qualsiasi giudizio. L’esistenza di strumenti, tradizionali ma rafforzati dall’informatica, quali gli User Experience Questionnaires, alcuni validati anche in lingua italiana, e la disponibilità di strumenti per l’elaborazione dei dati già preimpostati, permettono anche a persone di non elevata cultura statistica e informatica di poter realizzare indagini di valutazione dell’esperienza di un grande numero di utenti, fornire riscontri basati sull’analisi dei dati e proporre, agli organizzatori interessati, possibili modifiche al tour virtuale.
I quadri e le sale sono e resteranno sempre gli stessi, ma ciò che può cambiare è la possibilità di far vivere agli utenti una esperienza virtuale e reale che emoziona e resta. Questo grazie alla tecnologia informatica, che permette di digitalizzare e realizzare i tour virtuali, e agli strumenti quantitativi informatici per analizzare le esperienze soggettive, per loro natura, qualitative.
Le affinità con il settore biomedico-scientifico sono molte.
Medical Humanities and Digital
C’è un ampio settore di studi in medicina che riguarda le Medical Humanities, sviluppatosi negli USA a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso dall’esigenza di arricchire gli studi nelle scienze mediche con le discipline umanistiche. Nel loro sviluppo migliore le Medical Humanities, per dirla con Sandro Spinsanti, uno dei suoi promotori in Italia, “non vogliono né umanizzare la sanità né rendere i professionisti della sanità più ‘umani’, ma si propongono di ricondurre la pratica della sanità alle sue finalità originarie: essere medicina per l’uomo”.
Fra le Medical Humanities, termine ombrello, si è particolarmente sviluppata negli ultimi decenni la Medicina narrativa (MN), intendendo con essa non una nuova specialità medica, ma un approccio nuovo alla medicina che, come dice uno dei guru della MN Rita Charon, ci fa scoprire il potere del racconto nelle relazioni di cura. Attraverso la lettura e la scrittura, inoltre, si possono sviluppare negli operatori, anche in formazione, quelle capacità di ascolto e di attenzione necessarie non solo per arrivare a diagnosi più adeguate e a terapie più condivise, ma anche per prendersi cura davvero di chi soffre (e non solo occuparsi dell’organo malato e preoccuparsi del budget).
Ma anche in campo di MN e di humanities, l’informatica ha un ruolo importante. Citerò solo alcuni esempi:
- Center for Digital Narrative Medicine è una startup ideata da Cristina Cenci, antropologa, accessibile al link http://digitalnarrativemedicine.com che si descrive come la prima piattaforma digitale per l’applicazione della medicina narrativa nella pratica clinica. L’obiettivo di questo progetto è di rendere visibile la persona che sta dietro l’organo malato grazie alla rivoluzione digitale.
- DIPEx International, ora accessibile al link https://dipexinternational.org/about-us è un altro esempio interessante. Nasce dal Database of Individual Patients’ Experiences (DIPEx), UK, fondato nel 2001. Lo scopo era conoscere in profondità l’impatto delle esperienze di vita dei pazienti sulla loro qualità di vita e sui loro percorsi esistenziali. Ora DIPEx è un’associazione internazionale diffusa in undici nazioni di ricercatori esperti in ricerca qualitativa nelle esperienze personali di salute e malattia. L’analisi testuale delle narrazioni è uno dei principali campi di applicazione e numerose sono le pubblicazioni.
- Interessante anche il video sulle Digital Medical Humanities, pubblicato dalla biblioteca digitale dell’Università del North Texas (UNT) e accessibile al link https://digital.library.unt.edu/ark:/67531/metadc948137/m1.
- Anche in Italia ci sono molte esperienze di buone pratiche in questo settore che coinvolgono le biblioteche.
Biblioteche del nuovo mondo
Alla fine di questa breve carrellata di intrecci fra le Digital e le Medical Humanities, emerge anche un nuovo profilo di centri di documentazione e biblioteche del nuovo mondo.
Essendo fondamentalmente degli organismi viventi, le biblioteche sono destinate a evolversi, o a perire. Digital Humanities e biblioteche, il recente articolo di Maurizio Lana, traccia un’eccellente sintesi, anche se mi permetto di sostenere la complementarietà fra biblioteche digitali (elettroniche, virtuali) e fisiche, così come fra archivi fisici e virtuali, musei e tour. Ciò che fa la differenza sono i servizi alle persone, sono le relazioni e, a parte i problemi legati alla pandemia, la possibilità di luoghi fisici da vivere, di fair places, non semplicemente di spazi anonimi. La chiave, anche in questo caso, non sta tanto nella tecnologia e nell’informatica in sé, ma nell’approccio a essa. Solo qualche esempio. Fino a che le riviste scientifiche erano solo su carta e a pagamento e, per la maggior parte, accessibili solo alla comunità degli esperti di una data disciplina, la divulgazione del sapere era molto ridotta, affidata fondamentalmente alla carta o ai media tradizionali. I media hanno svolto negli anni un’attività educativa e divulgativa talvolta di eccellente qualità e pregio – si pensi a trasmissioni quali l’evergreen “Superquark” in onda dagli anni Novanta del secolo scorso o al “Corriere dei Piccoli” negli anni Sessanta –, ma sono ed erano comunque unidirezionali: c’è chi parla-spiega-educa e chi ascolta-recepisce-impara. La rivoluzione del web, dopo la diffusione di internet, ha permesso una partecipazione attiva dei destinatari alla produzione del messaggio, una bi-direzionalità ora scontata ma fino ad allora impossibile, una co-costruzione talvolta virtuosa. Lungi dall’idealizzare tale processo, è innegabile che esso abbia contribuito a un cambio di paradigma, una rivoluzione, come recita Let the patient revolution begin, un articolo pubblicato nel 2013 sul “British Medical Journal”, in cui si evidenza come i cittadini sono sempre più protagonisti attivi della loro vita e, nel caso si trovino a vivere la condizione di pazienti, co-protagonisti del proprio percorso di cura. C’è ancora tanta strada da fare, ci potranno essere degli stop, ma ciò che è avvenuto fa sì che la realtà non sia mai com’era prima che accadesse, non si torna mai indietro del tutto. L’analisi testuale su ciò che le persone si scambiano su web, blog e social network su argomenti di salute o qualsiasi altro argomento; l’analisi del rating di esperienze di cura e siti relativi alla salute; l’analisi dei testi di scrittura espressiva al fine di scoprirne i significati e i messaggi; gli studi di informatica computazionale per misurare e migliorare l’health literacy – impropriamente traducibile con alfabetizzazione sanitaria – dei cittadini e scoprire i meccanismi della misinformation per passare alla creazione di archivi digitali di materiale divulgativo ad uso dei cittadini; la pubblicazione di ebook e repositories di informazioni e storie di vita… sono solo alcuni esempi virtuosi del ruolo del digitale nel valorizzare arts e humanities per ridare alle persone il loro ruolo di protagonisti attivi degli eventi nella salute e nella malattia, così come nella vita quotidiana e nella società.
Conclusioni
C’è qualcosa di fondamentalmente miope, a mio parere, nel considerare l’informatica mero strumento e non una disciplina di pari dignità nella costruzione di progetti che riguardano le humanities e anche le Medical Humanities e che coinvolgono realtà organizzative quali università, centri di ricerca, ospedali, musei, archivi, biblioteche, aziende affermate o startup innovative. Faccio mia, in conclusione, l’affermazione di Luciano Floridi in Pensare l’infosfera: “Le tecnologie digitali sono re-ontologizzanti, cioè modificano la natura intrinseca (l’ontologia) di quello che toccano”.