Del coraggio dei fantabibliotecari
Esso [il coraggio] è il contrario di rassegnazione. Il coraggio è virtù da cittadini consapevoli e, in un’accezione più ampia, da persone che accettano la responsabilità dell’essere umani. […] Inteso in questa accezione, il coraggio è l’esito di una scelta e di una pratica; è la forza di affrontare il mondo consapevoli della sua complessità ma anche della nostra capacità di cambiarlo.
Gianrico Carofiglio, Della gentilezza e del coraggio, Milano, Feltrinelli, 2020, p. 95.
Dedicato a Viviana Vitari e a tutti i fantabibliotecari e fantaamministratori della Amministratori Summer School: bgsummerschool.it, La biblioteca del futuro. Amministratori a confronto, (San Pellegrino Terme, 22-24 agosto 2021).
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Stavolta la prendo alla lontana. Ma sappiatelo: questo è un endorsement. Da Castle Rock a Eboli, da Shirley Falls a Camporammaglia, e via andare (passando per Rocca Vibrissa), la provincia profonda, l’hinterland, hanno ispirato romanzi, dato vita a storie inusitate e ribalte efferate di cronaca nera. Ma da lì, proprio dai territori periferici o satelliti delle grandi città, sono partite, si muovono e circolano idee, nuovi punti di vista che si concretizzano in progetti, tali da fare invidia alle metropoli. Altro che “Milano da bere”, le fanno un baffo!
Province come incubatori. Province come il garage visionario di Steve Jobs, culla del sogno americano. Nel caso specifico – ci sto arrivando, un po’ di pazienza – una serie di piccoli comuni, riuniti in rete, (sotto le grandi ali materne della loro Regione) ha dato il la a uno straordinario progetto destinato a far percorrere, pionieristicamente, vie nuove e coraggiose. Questi bibliotecari non finiranno mai di stupirci: che genìa audace!
Vengo al punto: ho già abbondantemente parlato dei “fantabibliotecari” (cit. Luca Ferrieri), quelli che ci fanno sognare ai convegni, quelli che ci guidano con la loro autorevolezza, quelli ai quali noi, sgangherati e sgarruppati bibliotecari, guardiamo con somma ammirazione. Molti di loro vivono e agiscono in piccole realtà dove la biblioteca – manco a dirlo – diventa davvero l’ombelico del mondo.
Per esempio, avreste mai – dico MAI – pensato che esistessero amministratori d’ente locale disposti ad andare a imparare la biblioteca, ad approfondirne le potenzialità? Assessori e politici disponibili a sedersi e ascoltare, senza scappare via dopo il saluto istituzionale? Non ci si può credere! Tuttavia: credeteci!
L’hanno chiamata Summer School, con un nome sgarzolino da campus estivo per bambini. Ma dietro quelle due parole che coniugano l’estate – e quindi il tempo della vacanza, della voglia di uscire e stare insieme – con l’idea di un luogo dove si apprende, sta un disegno intraprendente, grintoso e profondamente innovativo: la convinzione che chi si occupa di cultura, e ricopre un incarico politico in un ente, possa comprendere meglio le opportunità intrinseche agli strumenti che manovra. Un percorso formativo di carattere tecnico, dove si apprende dai tecnici. Finalmente! E che tecnici! Un apprendimento che coniuga l’acquisizione di competenze e la scoperta delle infinite bellezze del territorio. Perché imparare la biblioteca significa anche connettersi con le proprie radici, proiettandole in un futuro sostenibile. Non è forse una roba fantascientifica?
La pandemia ha evidentemente aguzzato ingegni, non soltanto stravolto le nostre vite. “Fantabibliotecari”, dunque, per un manipolo di “fantaamministratori”. Ne vedremo delle belle! Ne vedremo.
Ve l’aspettate – dite la verità – qualche bonaria e pigra riflessione sulle conseguenze dell’introduzione dell’obbligo di green pass in biblioteca.
E io, come sempre, sono pronta a non deludervi. Debbo dire, a onor del vero, che questi ormai nove anni di rubrica su questa augusta rivista hanno fatto crescere il mio ego a dismisura. Per la serie: “Toglietele il microfono, per favore”.
Ma torniamo a bomba: intanto il nome: green pass. In italiano “certificazione verde” (e qui corre l’obbligo di riflettere ancora una volta su quanto la lingua inglese sia coincisa, rispetto alla locuzione italiana). Sarebbe stato forse meglio chiamarlo “semaforo verde”: “certificazione” evoca d’acchito qualcosa di burocratico, già fastidioso e respingente di per sé.
Ma, insomma, la sostanza non cambia.
Sarebbe vieppiù interessante fare un censimento, magari tramite questionario (Aiuto! Un altro! L’ultimo obbligo dell’ISTAT ci ha fiaccati!), per conoscere le reazioni, le più varie, dei nostri utenti alla richiesta fatidica.
A monte, è necessario ricordarlo, c’è stata la faticosa corsa a reperire uno smartphone sul quale scaricare la app di verifica. E va anche rilevato come la stessa funzioni abbastanza bene se il famigerato QRCode da controllare è scaricato sul telefono, meno bene nella versione cartacea: saranno le piegoline del foglio… insomma bisogna armarsi di pazienza. Ma queste sono quisquilie, rispetto alle reazioni della varia umanità.
Talvolta accade infatti che il front-office si trasformi, simbolicamente, in un avamposto da trincea. Insomma, tra questo e il portico, ci vorrebbe il fossato con il ponte levatoio, oppure prevedere, tra i vari DPI del personale, l’integrazione con un essenziale equipaggiamento antisommossa. Un casco?
Sulla base della mia modesta esperienza potrei dire che c’è ampia materia di riflessione.
Dunque: intanto ci sono i cittadini che non si sognerebbero mai di mettere in dubbio le misure decise e messe in atto dal Governo. Hanno compreso, magari hanno avuto i loro dubbi, ciononostante ha prevalso la fiducia nella scienza e in una democrazia che mette in atto strategie per proteggerli.
Questi non fanno un fiato: in biblioteca ci sono sempre entrati e ora mostrano orgogliosi il lasciapassare.
Tra questi ci sono anche i giovani, gli studenti svagati che vengono quotidianamente a popolare le sale e che mai rinuncerebbero a una sigaretta in compagnia sotto il portico, a due chiacchiere con gli amici, a una vita di relazione che per loro è come l’ossigeno.
Si sono vaccinati tutti, senza obiettare, fosse anche soltanto per riprendere la movida ed entrano sorridendo con la loro certificazione verde.
E fin qui. Tutto bene.
Fino a quando, occasionalmente, ci si imbatte nei cosiddetti “no green pass” che, a monte, solitamente – ma non è scontato – sono “no vax”. Per ovvi motivi non esprimo giudizi, mi limito a raccontare ciò che succede, registrando i fatti. Si apre così un ventaglio di situazioni e accadimenti che vanno oltre ogni immaginazione.
Quiete signore over sessanta, forti lettrici, appassionate frequentatrici di queste sale e di queste meravigliose vetrine cariche di novità librarie (grazie MIC, grazie MIC, grazie MIC) che rivelano d’improvviso aspetti inattesi e inquietanti, una metamorfosi, degna di Ovidio, in attempate Erinni che si ergono a paladine della libertà (!). E badate che non sto scherzando.
Ci sono anche quelli che provano a intortarti con false autocertificazioni, palesemente prese da qualche sito web anti-complotto. E sotto il portico, di fronte all’ingresso, capita che volino insulti gratuiti.
Proprio così. Non ci si può credere, vero?
Alla cortese richiesta di mostrare il fatidico pass, fanno capolino appellativi indegni persino d’essere pensati.
È così, con formidabile incredulità, che cerchiamo di non perdere le staffe ed evitiamo di metterci a discutere.
Siamo pubblici ufficiali, dopotutto, rappresentiamo la P.A.
Ma tant’è. Un po’ di voglia di litigare s’affaccia impertinente anche nei colleghi più pacifici. Ed è qui che, per fortuna, entrano in gioco le formidabili “competenze informali del bibliotecario”. Quelle meravigliose skills che predispongono alla pazienza e alla proverbiale accoglienza bibliotecaria. Quella dote, frutto di lungo studio, che ci rende unici nell’adottare l’espressione facciale di un Moai dell’isola di Pasqua.
I più ignorano, in realtà – confessiamolo una buona volta – che i bibliotecari, con tutta la loro scienza, tengono segretamente le fila del Big Reset.