N.7 2021 - Biblioteche oggi | Ottobre 2021

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Il posto della lettura nella concezione della biblioteca come piattaforma

Luca Ferrieri

Presidente dell'Associazione La Lettura Nonostante, studioso di teoria e pratica della lettura

Dal design dell'interfaccia al consiglio di lettura

Questo articolo costituisce una versione abbreviata e parzialmente rivista della relazione che l'autore, a causa di un ricovero ospedaliero, non ha potuto presentare all'ultima edizione del "Convegno delle Stelline". La versione integrale è presente negli atti del convegno: La biblioteca piattaforma della conoscenza: collaborativa, inclusiva, reticolare. Relazioni convegno, Milano, Editrice Bibliografica, 2021. 

Abstract

Partendo da un’analisi polisemica del concetto di “piattaforma”, l’articolo ne espone i punti di forza e i punti critici della sua applicazione al campo bibliotecario. Tra questi, si considera il rischio di un'ideologia delle piattaforme (denominata “piattaformismo”) che tende a vedere le biblioteche come mezzi per l'avvento di una società della conoscenza escludente, macchinica e deterministica. Tuttavia, questo risultato non è una conclusione scontata. Dipende molto dal posizionamento delle biblioteche e dall'azione dei bibliotecari. Nella parte finale l’articolo cerca di delineare i contorni di piattaforme aperte, transitorie, partecipative, che può essere utile per le biblioteche. In particolare si fa riferimento ai servizi di lettura e al loro recente e futuro sviluppo, con l’introduzione, anche in Italia, di servizi di lettura e consulenza di lettura, chiamato Readers’ Advisory Services nelle biblioteche americane.

English abstract

Starting from a polysemic analysis of the concept of “platform”, the article sets out the strengths and critical points of its application to the library field. Among these, it considers the risk of an ideology of platforms (referred to as “platformism”) which tends to see libraries as means for the advent of an exclusionary, machinic, deterministic knowledge society. However, this outcome is not a foregone conclusion. It depends a lot on the positioning of libraries and the action of librarians. In the final part the article tries to outline the outlines of open, transitional, participatory platforms, which can be useful for libraries. In particular it refers to reading services and their recent and future developments, with the introduction, also in Italy, of services providing reading and reading advice, called Readers’ Advisory Services in American libraries.

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Prolegomeni sulle piattaforme

Conviene riassumere il significato invalso del termine di piattaforma, prima di valutare la sua utilità e applicabilità al campo bibliotecario e all’analisi delle trasformazioni in atto. Siamo infatti di fronte a un termine ombrello (come disruption, resilienza, smart e molti altri) la cui inflazione e deformazione d’uso rischiano di produrre un annacquamento e una banalizzazione non solo del linguaggio ma del pensiero. Il mio tentativo sarà quello di analizzarne i possibili impieghi nell’ambito delle biblioteche e della lettura, tenendomi lontano dal valzer delle mode culturali e cercando di grattare sotto la copertina.

Occorre subito dire che il vocabolo e il concetto ben si adattano a quell’orizzontalità del paesaggio culturale che Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini hanno efficacemente descritto in un libro di recente pubblicazione. Che l’orizzontalità abbia sostituito le ascese verticali e gli abissi che hanno costellato la storia e la cultura della biblioteca, è senz’altro vero (lo è forse fin dai primi vagiti della “cultura di massa”), mentre sulla natura democratica di questo processo occorrerebbe, a mio avviso, una più approfondita discussione, che è necessario rimandare ad altra occasione. Comunque sia, lo dice la parola stessa: piattafórma s. f; dal fr. plate-forme, propr. “forma (cioè superficie) piatta”; in alcune accezioni calco dell’angloamer. platform. Ormai è quasi un pluralia tantum: si dice piattaforma ma si intende piattaforme, ossia l’innumere congerie di queste architetture cognitive variamente connesse che ci attraggono e ci imprigionano.

Il vocabolario Treccani elenca sei accezioni primarie del vocabolo, di cui forse la più pertinente al nuovo significato del termine, anche se in modo molto riduttivo, è l’ultima:

Nel linguaggio dell’informatica, la struttura elaborativa rappresentata dall’hardware e dal sistema operativo di un computer, regolata da appositi standard.

La natura bonaria suggerita dall’orizzontalità della piattaforma non deve però ingannare. Ciò che conta, dice l’autore di Dark Fiber, Geert Lovink, rovistando nell’etimologia e nella storia olandese del termine, “non è la bassa quota del polder ma la posizione rialzata del plateau, da cui è possibile controllare e dominare la pianura circostante. Come molte espressioni riguardanti il web, e come Internet stessa, il vocabolo ha un’origine e un significato di tipo militare: “Le piattaforme sono macchine da guerra, in senso hegeliano, che hanno il fine economico di controllare l’esperienza dell’utilizzatore”. E Lovink prosegue analizzando altre parole-concetto che hanno avuto il loro momento di celebrità in precedenti fasi della storia di Internet, come quelle di media e di rete. Oggi sono considerate parole quasi intercambiabili, sussunte nel concept dominante di piattaforma. In realtà un approccio tecnicamente più preciso, sempre secondo Lovink, ci suggerisce che noi oggi “condividiamo dei media su delle piattaforme attraverso delle reti” e che questo sarebbe lo stato esatto delle relazioni tra i termini. Questo ci aiuta anche a capire perché non è automatico né obbligatorio che famosi e frequentati siti di servizi diventino ipso facto delle “piattaforme”. Lo specifico significato che la parola ha assunto nel campo digitale e, di conseguenza, in quello culturale, non è ancora menzionato nella citata voce del vocabolario Treccani, che è del 2014, pur derivando essenzialmente dalla sesta accezione. Lo riassume così Nick Srnicek:

Cosa sono le piattaforme? Genericamente, le piattaforme sono infrastrutture digitali che consentono a due o più gruppi di interagire. Quindi si posizionano come intermediari che avvicinano utenti diversi: clienti, inserzionisti, prestatori di servizi, produttori, fornitori e anche oggetti fisici. Nella maggior parte dei casi, queste piattaforme sono anche dotate di strumenti che consentono ai loro utilizzatori di costruirsi prodotti, servizi e luoghi di vendita personalizzati.

La complessità del riferimento si coglie in questa definizione di Benjamin Bratton:

Le piattaforme sono quello che fanno. Sono in grado di connettere e far interagire risorse con dinamiche aggregative di alto livello, per generare potenzialmente valore, al contempo, sia per gli attori che interagiscono sulla piattaforma sia per la piattaforma medesima. Possono essere oggetti o dispositivi tecnico-fisici, ma anche sistemi computazionali. Possono essere solo software, solo hardware o combinazioni varie di questi due.

In sostanza, ciò che caratterizza le piattaforme è la presenza, anzi l’incorporazione, della mediazione (elemento che le avvicina, come vedremo, al concetto di interfaccia): esse migliorano, o “imparano”, a seconda di quante più persone le frequentano e le usano. Le piattaforme fanno da intermediari tra diversi gruppi e attori economici e sociali: clienti, inserzionisti, prestatori di servizi, produttori, fornitori e anche oggetti fisici, specialmente con l’“Internet delle cose”. Srnicek enumera cinque tipologie: le piattaforme di advertising, come Google o Facebook, quelle cloud (come AWS, Saleforce), quelle industriali (General Electric, Siemens), le “piattaforme-prodotto” (come Rolls Royce o Spotify); quelle lean (come Uber o Airbnb).

La natura delle piattaforme è ibrida, in molti sensi: è un mix di organizzazione e tecnologia, di stato e mercato, di partecipazione e governance. Per questo esse mettono in gioco nodi irrisolti e questioni generali che hanno molto a che fare con il lavoro culturale oggi: ad esempio il rapporto tra il lavoro umano e quello delle macchine. Ma non è facile (né giusto) conciliare le diverse anime che compongono il concetto e la vita concreta delle piattaforme. Si può semplificare rilevando, con Cosimo Accoto, che esistono due orientamenti fondamentali in campo: il platform capitalism, che privilegia la capacità di “organizzare in scala risorse sottoutilizzate incrociando al meglio sui mercati domanda e offerta”, e il platform cooperativism che punta sulla condivisione dei beni comuni, andando oltre la neutralità tecnologica di accesso ai servizi. Cercheremo di muoverci all’interno di questa polarità, prima in termini generali e poi con più specifico riferimento al campo che ci interessa.

Sarebbe quindi eccessivamente ottimistico, se non del tutto apologetico, pensare che le piattaforme possano segnare l’avvento della negoziabilità e dell’interoperabilità tra i diversi e concorrenti attori delle filiere digitali. In realtà su di esse, e attraverso di esse, si scatenano appetiti e conflitti anche veementi, proprio mentre teoricamente esse avrebbero come scopo l’intermediazione e la convergenza, sia tecnica chestrategica. Nella pratica, infatti, non è facile stabilire se questi strumenti possono essere messi sotto l’indice habermasiano e lankesiano della conversazione, o piuttosto sotto quello della continua rinascita della fenice capitalistica, o del “realismo capitalista”, o del “postcapitalismo”, in una delle sue tante varianti. L’ascesa del platform capitalism si incrocia strettamente alle vicende della sharing economy, della gig-economy e del postfordismo, fino alla distopia di un capitalismo snello (lean), capace di produrre profitto solo grazie alle ricette della finanziarizzazione, della logistica e del mondo uberizzato: riducendo (rendendo snello) il personale e la proprietà fisica (le sedi, le macchine, le risorse) e sfruttando il lavoro non pagato degli utenti. Dal punto di vista capitalistico le piattaforme (oltre ad altri vantaggi) hanno il merito di aver unificato il campo riscuotendo interesse ed entusiasmo su diversi fronti: oltre a quelli già citati, quelli che fanno riferimento alle tante varianti del neoliberismo, del neurocapitalismo, del capitalismo cognitivo o immateriale, del “capitalismo 24-7”, di quello “della sorveglianza” e della quarta rivoluzione industriale.

Critica del piattaformismo

Sicuramente al pensiero critico, anche bibliotecario, spetta il compito di scavare a fondo nel concetto di piattaforma e nelle sue applicazioni, il che non significa necessariamente respingerlo in toto, ma se mai valorizzare gli aspetti che possono essere sottratti alla narrazione dominante e possono essere utili anche a una visione alternativa. Purtroppo il bivio indicato da Accoto (platform capitalism vs platform cooperativism) non è percorribile in questa forma, perché la seconda via è già in buona parte risucchiata dalla prima, e lo vedremo. Infatti questo sarà uno dei primi nodi da sciogliere (sono veramente alternative, disruptive, le piattaforme?). Ugualmente non percorribile appare la strada di un aventinismo o di un ritiro generalizzato dalle piattaforme, intanto perché esso non ha mai pagato quando è stato praticato individualmente o da piccole minoranze, e poi perché la sua adozione, da parte di una istituzione culturale o bibliotecaria, significherebbe una sorta di resa preventiva e di rinuncia a parti importanti della mission. Quindi la questione dell’uso delle piattaforme da parte delle biblioteche andrà scissa dalla possibile costituzione della biblioteca come piattaforma (l’una è possibile senza l’altra); e la prima andrà esaminata non tanto in base alla domanda sul se (usare le piattaforme) ma sul come farlo. Quel che si tenterà in questo paragrafo è quindi delineare una critica al piattaformismo che possa essere di base per il posizionamento delle biblioteche, operanti anche all’interno delle piattaforme o come piattaforme.

Il primo elemento da esaminare, anche se brevemente, riguarda quindi il carattere fittizio, perfino caricaturale, della via partecipativa proposta dalle piattaforme. Come abbiamo visto, la piattaforma si regge sulla partecipazione degli utenti; ma le scelte sono quasi sempre decise e previste a monte, difficilmente modificabili, e in realtà fortemente dirette a trattenere l’utente in situ e a mieterne i link. Il tutto si svolge in un ambiente scarsamente o per nulla trasparente, in cui il segreto dei brevetti e degli algoritmi impedisce ogni consapevolezza della posta in gioco. La necessità del segreto – proprio là dove magari domina la chiacchiera – è motivata, con un circolo vizioso tipico del doppio cieco o del doppio legame (double bind) imperante sulle piattaforme, da esigenze di tipo industriale o di tutela dalla concorrenza. Tutto ciò compromette spesso il valore aggiunto che la piattaforma può dare, ma i proprietari delle piattaforme e i tecnici che le amministrano fanno leva proprio sulla condizione di oscurità in cui la maggioranza degli utenti viene tenuta. Per esempio, in una ricerca su Google che restituisce migliaia di occorrenze, i link che verranno aperti dai naviganti saranno, se va bene, entro le prime decine. Quante persone sono consapevoli – non in astratto ma qui e ora, nel momento della ricerca – che la graduatoria è decisa da algoritmi secretati e protetti con le unghie e coi denti (come il famoso PageRank di Google)? E che di fatto un potere enorme, quello di decidere cosa dobbiamo sapere su un certo argomento e di scegliere le nostre fonti, è amministrato in modo del tutto arbitrario, con criteri che non solo non abbiamo scelto ma nemmeno conosciamo? O anche quanti riflettono sul fatto che gli amici che ci siamo “scelti” su Facebook non li abbiamo decisi noi (come pensiamo di aver fatto mandando loro una richiesta o accettando la loro “amicizia”) ma un algoritmo che prende in considerazione più di 10.000 fattori contemporaneamente? Infatti gli “amici” effettivi su Facebook sono quelli di cui vediamo quotidianamente i post e con cui scambiamo messaggi e likes, e questo spiega perché il principale tra i siti di social networking ottenga il risultato di restringere la cerchia dei nostri rapporti sociali (gli amici di cui leggiamo i post sono sempre gli stessi) e di favorire l’endogamia e l’omologazione intellettuale, con i correlativi fenomeni di hate speech quando si incontra casualmente un diverso.

Il successivo ma collegato nodo riguarda la questione della mediazione e dell’individuazione. Sappiamo da tempo che le biblioteche sono uno dei luoghi centrali della mediazione intellettuale, anche quando lo negano o lo nascondono. Pure le piattaforme aspirano (nella loro declinazione forte) a questo ruolo e ciò potrebbe farci propendere per una visione delle biblioteche come piattaforme tout court – argomento su cui torneremo – oppure per una sorta di competizione tra le due parti. Ma è sufficiente questo per parlare di biblioteche come piattaforme? E qual è la visione della mediazione che vige sulle piattaforme? In realtà è quella di “intermediare”. Le piattaforme vogliono essere gli intermediari, spesso privilegiati o unici, tra utenti, attori economici e culturali diversi: la mediazione è quindi ridotta a un suo prerequisito, il contatto (e spesso per fini commerciali). Questa funzione l’abbiamo vista affiorare in tutte le definizioni di piattaforma. La sovrabbondanza inter-mediatoria smentisce tra l’altro una delle più “vessate” questioni dell’attualità culturale, ossia la crescente disintermediazione che minaccerebbe proprio le biblioteche. Lo nota en passant anche Maurizio Ferraris, che della mediazione ha una visione essenzialmente “iscrittiva” e documentaria, abbastanza diversa e sicuramente più ricca di quella vigente sulle piattaforme. La disintermediazione è infatti sostituzione degli intermediari con nuovi intermediari, ed è quello che le piattaforme si candidano a fare, anche quando si mimetizzano sotto il loro profilo tecnico.

Il concetto di individuazione è più sottile, ma ancora più decisivo. Quando Gilbert Simondon lo introdusse nel dibattito filosofico e politico (e subito Bernard Stiegler lo riprese) voleva porre l’accento non tanto sull’individuo in sé, come qualcuno ha inteso, ma sul processo di costituzione e costruzione dell’individuo sociale, rovesciando i termini della relazione: è l’individuazione che crea l’individuo e non viceversa. È in base al principio di individuazione che si decide se esiste e chi è il “soggetto”. L’individuazione è il processo che “descrive l’interazione tra i diversi organi che compongono il vivere sociale”: in un certo senso sostituisce, disintermediandolo, il processo di definizione dell’appartenenza sociale che avveniva, spesso con esiti identitari, in altre sedi e modi. “Il processo di individuazione non avviene più, come un tempo, sulle pagine di un diario o nell’ambito di una piccola cerchia di amici, ma viene condiviso con l’esterno, esibito agli occhi di tutti”, dice Lovink. Il selfie è un “ottimo esempio di individuazione”. Ma nel nostro caso non è in gioco solo il narcisismo di massa con cui i social mimano e simulano i processi di individuazione; anche nelle forme più evolute le piattaforme sostituiscono la profilazione all’individuazione, e la profilazione (degli individui, dei comportamenti, dei bisogni e dei desideri) è l’esatto contrario dell’individuazione, tanto che Stiegler, riprendendo Deleuze, la definisce come un processo “dividuale” e non individuale, ossia diretto alla creazione di campioni statistici, di tracce di comportamento, di dati per i mercati nella “società del controllo”. Per Stiegler un elemento di individuazione, perennemente sottovalutato sotto questo aspetto, è rappresentato proprio dalla tecnica. Stiegler ha sviluppato, in un ambito che lui definirebbe derridianamente “farmacologico”, lo stesso lavoro di riscoperta che, in campo estetico, hanno svolto Formaggio e Dufrenne, i quali hanno rivendicato il ruolo fondamentale che la tecnica riveste nella creazione artistica. E la questione è centrale proprio per le piattaforme. Esse, infatti, anche per eludere le proprie responsabilità, si sono spesso trincerate dietro la loro natura esclusivamente tecnica, mostrando di condividere con l’idealismo e l’antico umanesimo, a dispetto dei secoli trascorsi, una ingiustificata separazione tra epistème e téchne. E invece le piattaforme hanno avuto il merito involontario di mostrare ancora una volta quanto i due mondi siano connessi e come l’economia della conoscenza, sorretta dalla tecnica, sia centrale nel loro sviluppo. La questione della tecnica – sottovalutata anche in biblioteca, spesso ridotta e confusa con una qualche perizia nel maneggio di software e hardware – porta con sé almeno due complementi di vitale e crescente importanza: l’incombenza dei dati e quella dell’intelligenza artificiale e delle sue imminenti applicazioni. Sono problematiche culturali e bibliotecarie a tutto tondo e ci chiedono di ripensare non solo la tecnologia ma l’epistemologia. Accennerò solo a due implicazioni riguardanti l’argomento.

I dati – sia nella forma grezza e non strutturata dei big data che in quella più elaborata dei metadati, sia nella modalità granulare degli sciami che in quella aggregata prodotta dalle serie, dai database, dalle query – costituiscono il fondamento delle piattaforme. Standardizzazione, “datificazione” e “taskizzazione” sono gli ingredienti essenziali delle piattaforme. Senza dati esse sono come dei gusci vuoti e occorre sempre una preesistente base di dati perché un sito o un servizio digitale possano costituire una piattaforma. Recentemente è stato raggiunto il cosiddetto “picco dei dati”, che – in analogia con il picco del petrolio (peak oil) – è il punto teorico corrispondente al massimo livello di estrazione dei dati. La diffusa analogia tra l’economia del petrolio e quella dei dati non si basa solo sulla comune natura estrattiva, ma anche sulle enormi potenzialità inquinanti. Ed è proprio qui che le piattaforme rivelano un loro limite intrinseco: attive nello sfruttamento intensivo dei dati, da cui dipendono organicamente, non lo sono altrettanto nella salvaguardia dell’integrità delle gigantesche warehouse (depositi di dati), né nel rispetto di norme etiche e deontologiche sul loro utilizzo. Navigando siamo continuamente costretti a cliccare su bottoni che dicono di tutelare la nostra privacy mentre ogni giorno immense quantità di dati sensibili vengono sversate nel web, soprattutto nel deep web, a disposizione per ogni uso. L’aspetto più inquietante non è l’eccezione o l’abuso ma la regola, ossia l’uso legale dei dati che noi siamo costretti ad autorizzare, se vogliamo utilizzare le risorse digitali delle piattaforme: cedendo (forzatamente o inconsapevolmente) i nostri dati e quelli relativi alle nostre preferenze, consumi, acquisti ecc., noi in realtà “paghiamo” per l’utilizzo di risorse ufficialmente gratuite che poi ci restituiscono tonnellate di pubblicità diretta e indiretta. È questo il duplice meccanismo di finanziamento della grande maggioranza delle piattaforme (come Google o Facebook e mille altre) che derivano la maggior parte dei loro lauti guadagni dall’utilizzo dei dati dei naviganti e tengono inchiodato ai loro algoritmi il 55% dell’umanità. Lisa Blackman, in un’opera che qui mi limito a nominare ma che ho già commentato altrove, parla a questo proposito non solo di dati infestanti, ma di dati infestati, a volte corrotti e inservibili, abitati dai fantasmi che li hanno generati, e da una miriade di voci decapitate dal loro contesto. Per l’autrice è importante raccogliere e ricostruire le storie che esse raccontano per fare una hauntologia della storia transmediale del XXI secolo. Ma questo compito non possiamo lasciarlo (solo) alle piattaforme, come si è visto: potrà essere affidato alle biblioteche?

Il passo successivo è obbligato e lo sarà sempre di più nei prossimi anni: le piattaforme sono uno dei luoghi deputati allo sviluppo e all’applicazione dell’intelligenza artificiale e dei suoi innesti. Alludo in particolare all’incontro di tre tipi di intelligenza: quella del machine learning, quella collettiva della rete, e quella dei materiali. Impossibile qui sviluppare il punto, mi limiterò a illustrarlo in due righe, scusandomi per l’apoditticità e dando qualche indicazione per gli approfondimenti. Importante è tener sempre presente che l’intelligenza artificiale è da intendersi come un composto, un ibrido di natura relazionale, in cui la componente umana e quella postumana sono sempre più strettamente intrecciate. Anche il postumano, infatti, fa, e farà sempre di più, parte dell’umano.

Il machine learning – a cui si collega anche il machine reading, ossia la capacità di produrre processi di lettura automatica, con comprensione del testo e possibilità di rispondere in linguaggio naturale a domande su di esso – è una componente fondamentale delle applicazioni di intelligenza artificiale, ed è a sua volta un termine cumulativo che comprende diverse metodologie e tecnologie accomunate dalla caratteristica di creare algoritmi “capaci di apprendere”. Su cosa significa questo apprendimento ci sarebbe molto da discutere; fondamentalmente si tratta di un apprendimento “estrattivo”, tanto per restare in tema di piattaforme e infatti esse sono uno dei principali campi di pascolo di questi algoritmi. Le biblioteche lo saranno sempre di più.

Ma un’altra intelligenza che attraversa le piattaforme è quella collettiva della rete. Anche in questo caso si tratta di una modalità mista in cui operano e cooperano forme umane e macchiniche. L’intelligenza collettiva era già stata “avvistata” da Pierre Lévy nei lontani anni Novanta, ma oggi essa ha assunto i contorni di una presenza polimorfica e ubiqua che agisce nelle reti e che mantiene, a differenza di altre forme di intelligenza artificiale, un più spiccato versante soggettivo, ossia un legame con i soggetti e le loro metamorfosi. Ma non si deve neanche dimenticare che l’intelligenza collettiva è innanzitutto un’intelligenza connettiva. Sulla base delle connessioni esistenti opossibili, infatti, essa produce ipotesi predittive che vengono messe in gioco sia nelle conversazioni che nelle transazioni: la “logica” dell’intelligenza collettiva non può essere compresa senza gli ausili della network science, dei “lampi” di Barabási e degli “sciami intelligenti” (swarm intelligence). Ossia secondo logiche in cui la serrata reciprocità delle azioni produce informazione e autoorganizzazione.

Quanto all’”intelligenza dei materiali” suggerisco la lettura di un recente e bel libro di Laura Tripaldi per farsi un’idea dell’importanza del contributo che quest’approccio può apportare a una concezione olistica e non robotica dell’intelligenza artificiale. La coscienza che la materia, considerata inerte, pullula di forme di “intelligenza” adattativa e di “memoria delle forme” è un elemento centrale dell’attuale riorganizzazione dei saperi. Laura Tripaldi cita il caso dalla “melma policefala” (Physarum polycephalum), che è in grado di calcolare percorsi molti più efficienti di un computer di ultima generazione, o quelli di gelatine, idrogel, fibre e molti altri materiali che sono in grado di reagire a stimoli ambientali e chimici, di autoripararsi e di costruire una memoria del proprio passato. Tutto ciò ci mostra come la frontiera tra quello che siamo abituati a chiamare vita e quello che moltissimo le somiglia pur non essendolo, tra naturale e artificiale, venga continuamente spostata e ridisegnata.

La biblioteca è una piattaforma?

Tra i più importanti sostenitori della biblioteca come piattaforma vi è senz’altro David Weinberger, che ha svolto anche una relazione sull’argomento nella prima “tappa” di questo convegno delle Stelline. La sua tesi, in sintesi, è la seguente. La biblioteca deve pensarsi come una piattaforma innanzitutto perché questo rafforzerebbe la sua natura di infrastruttura della conoscenza e della comunità, in forma non estemporanea ma “ubiqua e persistente come lo sono le strade e i marciapiedi di una città”. In secondo luogo sposterebbe l’attenzione “dalle risorse che la biblioteca fornisce alla conoscenza che tali risorse generano”. In terzo luogo, riuscirebbe a valorizzare molto di più tutti i suoi servizi, esistenti e futuri.

Quello che mi sembra interessante dell’argomentazione di Weinberger è che, mentre prende esplicitamente ad esempio le grandi piattaforme commercialiesistenti come Facebook, Twitter ecc., il modello che disegna è quasi utopico: dovrebbe infatti trattarsi di una piattaforma aperta, che funzioni anche come polo di attrazione per gli sviluppatori open source per offrire app che aumentino i servizi forniti. Il lavoro della biblioteca-piattaforma consisterebbe non solo nell’estrarre e distribuire a tutti i dati provenienti dalle proprie risorse, ma anche nel confrontarli, controllarli, arricchirli, integrarli, permettendo agli utenti di interagire continuamente tra loro, alimentando la conversazione e la discussione. Dice Weinberger: “La biblioteca come piattaforma è più un come che un dove, più link che contenitore, più centrifuga che centripeta”. La cosa curiosa è che il modello della biblioteca come hub, tuttora molto in voga, nonostante gli hub siano tecnicamente obsoleti, è considerato una metafora della biblioteca come piattaforma. Non per Weinberger: lui ha il merito di superare i limiti delle piattaforme reali sommergendole con la sua concezione del disordine digitale, sviluppata in Everything is miscellaneous e altri testi.

Vedo solo un problema in tutto ciò: non si può sorvolare sulla natura delle piattaforme reali, molto diversa da quella ipotizzata da Weinberger, perché ciò comprometterebbe anche la carica critica del suo modello alternativo, illudendo che il passaggio dall’una all’altro sia un pranzo di gala. Per esempio, la biblioteca non può, anche se lo vuole, aprire completamente e coerentemente le proprie collezioni, come ipotizza Weinberger, perché ciò cozzerebbe con il vigente regime di proprietà intellettuale e molti aspetti della legislazione in materia. Basti pensare a ciò che comporta – in quanto a libertà di promuovere l’information literacy, e di andare oltre la distinzione e divisione tra fisico e digitale – l’appartenenza alle piattaforme di digital lending, su cui le biblioteche non hanno alcuna voce in capitolo. Eccetera.

Quindi la tesi di Weinberger potrebbe essere ulteriormente sintetizzata così: le biblioteche dovrebbero essere come una piattaforma se le piattaforme fossero un’altra cosa, o almeno previa modifica di alcune loro caratteristiche strutturali. E qui la sua tesi si incontra con molte altre elaborazioni sull’argomento. Chiara Faggiolani e Pier Luigi Sacco ad esempio rilevano come il passaggio alla biblioteca-piattaforma sia un’ulteriore tappa nel passaggio da una biblioteca di stampo mecenatistico – comunque mascherato e agghindato – a una biblioteca “abilitante”, “che permetta alle comunità di coltivare e di espandere la propria capacità di espressione e la propria identità culturale”. Il legame tra la sovranità/sovranismo delle piattaforme (vs la democraticità delle biblioteche) è un punto cruciale: lo tocca Weinberger nel finale di Library as Platform, ma lo sviluppa a fondo Benjamin Bratton nel suo volume del 2015, The Stack, sostenendo che le piattaforme – nella forma da lui puntigliosamente descritta dello stack, della pila, del multistrato – rappresentano la nuova forma di sovranità nel mondo culturale, una specie di moderno leviatano. E poiché Bratton non è un luddista post litteram, il rischio di passare, grazie alle piattaforme, dalla biblioteca “per grazia del sovrano” di naudiana memoria alla biblioteca “come sovrano”, è da prendere dannatamente sul serio.

Anche nelle opere di David Lankes, soprattutto in Expect More e in The New Librarianship Field Guide, ci sono molti riferimenti alla biblioteca come piattaforma. In particolare Lankes sottolinea l’imprevedibilità costitutiva dell’idea stessa di piattaforma, correggendo il rischio deterministico in agguato nel concetto. Imprevedibilità significa innanzitutto che quando costruiamo una piattaforma, o iniziamo a lavorare sulla nostra biblioteca come se fosse una piattaforma, non sappiamo con precisione dove questo lavoro ci porterà e che cosa conterrà la piattaforma. Questo “spontaneismo” (come il disordine di Weinberger) corrisponde effettivamente alla natura a volte casuale con cui sono nate molte piattaforme commerciali; ma sicuramente queste ultime spendono poi moltissime energie e denari per estirpare ogni imprevisto del genere. Per Lankes imprevedibilità significa anche e soprattutto personalizzazione:

Una piattaforma consiste in una serie di servizi e strumenti che permettono una varietà di funzioni non predeterminate, per creare qualcosa che è assolutamente unico e personalizzato. La biblioteca non dovrebbe dire alle comunità cosa possono fare (come leggere, prendere in prestito, fare ricerche), ma dovrebbe fornire una varietà di strumenti per costruire ciò che la comunità ha bisogno di fare. Questo approccio è esattamente il contrario di quello tradizionale, che ha avuto un impatto profondo sulle biblioteche e su come vengono percepite: biblioteche che tendono alla normalizzazione, all’uso degli standard, all’efficienza e alla produzione di massa.

E naturalmente a Lankes interessano molto anche altri aspetti: la natura partecipativa della piattaforma, il rapporto con la comunità, la possibilità di scambiare i propri libri (questa è una caratteristica molto singolare e lankesiana della biblioteca come piattaforma, che farà storcere il naso a molti bibliotecari, compresi alcuni suoi seguaci: la piattaforma deve servire anche a condividere le letture valorizzando i libri come “artefatti” di lettura).

Con questi spunti di Weinberger e di Lankes siamo a un punto molto alto dell’elaborazione bibliotecaria sulle piattaforme. E tuttavia restano, a mio avviso, alcuni punti problematici, che elenco rapidamente:

  1. gli elementi comuni e le somiglianze tra piattaforme e biblioteche non sono tali da giustificare, in quanto tali, una visione della biblioteca come piattaforma. È difficile, per esempio, vedere che cosa l’elaborazione “piattaformista” del tema dello sviluppo e della gestione della conoscenza – cui Lankes dedica un capitolo in The new librarianship fieldguide – possa aggiungere al cammino già percorso autonomamente dalle biblioteche sull’argomento. Tanto più che la concezione della conoscenza su cui lavorano le piattaforme è, in genere, basata su una sorta di logistica del sapere in cui contano soprattutto i flussi, la compartimentazione, la gerarchia, la spendibilità, la “trasformazione della conoscenza in vantaggio competitivo”, tutte dimensioni abbastanza lontane da una visione olistica della biblioteca.
  2. anche la concezione estrattiva e architetturale del sapere, che sembrerebbe invece incontrarsi felicemente con una precisa vocazione bibliotecaria (la biblioteca scava nella memoria e costruisce progetti conoscitivi) è, nelle piattaforme, limitata alla cattura di dati e metadati, così come, per quanto riguarda gli strati e i livelli della “pila”, la piattaforma in genere evita ogni attraversamento e si accontenta della giustapposizione. 
  3. resta in ombra anche la questione di una (nuova) visione sistemica del lavoro bibliotecario. Sappiamo quanto sia stato e sia importante l’approccio sistemico per lo sviluppo delle biblioteche e della biblioteconomia. Ma la componente sistemica delle piattaforme è in realtà piuttosto debole, nonostante il legame apparentemente naturale (in questo caso la definizione di Lankes della piattaforma come “sistema di sistemi” appare molto ottimistica).
  4. vige ovunque la rimozione del problema della proprietà intellettuale e della sua gestione che è decisiva in qualsivoglia visione della “biblioteca che verrà”;
  5. colpevole e perfino complice in alcuni casi è anche il silenzio sul legame tra la concezione della biblioteca e l’organizzazione del lavoro bibliotecario, e più in generale intellettuale: in qualche modo le piattaforme contribuiscono a rendere scontato, in ogni ambito, il ricorso a forme di lavoro precario, sottopagato, con riduzione di garanzie, diritti, reddito. Il ruolo intermediario delle piattaforme viene garantito con l’aumento della frammentazione, della delocalizzazione, della riduzione delle tutele in ambito lavorativo. (Chi pensa che questo sia un argomento extra scientifico a mio avviso è già entrato nel mondo delle piattaforme con gli occhi bendati).
  6. velenosamente serpeggia, nel piattaformismo, ossia nell’ideologia delle piattaforme, una riproposizione di quelle logiche di valutazione, di meritocrazia (apparente), di misurazione (spesso nella forma populistica e “folksonomica” di score e di rating, punti e stelle, audience e reputazione), la cui resistibile ascesa sembrava aver incontrato, almeno a livello teorico, un punto di arresto. Il piattaformismo è un ismo farcito di metriche.

Questi punti coinvolgono anche un’altra questione centrale, quella del posizionamento della biblioteca durante/dopo la pandemia da Covid-19. La strategia di una “biblioteca come piattaforma” quanto saprà e potrà tener conto del bisogno di cambiamento emerso dall’esperienza sanitaria, umana e politica degli ultimi due anni? Quanto sarà espressione della fase rinascimentale e quanto invece sarà il cavallo di Troia della restaurazione? Perché abbiamo l’impressione che nel mondo delle piattaforme dominino l’immobilismo e l’indifferenza al tema? Ed emergano ancora una volta l’alibi tecnico e la scorciatoia tecnocratica? Perché le piattaforme, che dovrebbero essere l’apice dell’innovazione, tendono a seguire e alimentare la retorica della “nuova normalità”? Quante vicende, tante domande.

Lettura: piattaforme e granai

E adesso preparatevi a un modesto colpo di scena. Dopo aver abbondato con la critica a tutte le piattaforme del mondo, lascerò infatti aperto un portone alla possibilità che una qualche piattaforma di lettura possa, un giorno, esistere ed essere utile, e sfuggire alle trappole piatto-formiste (il refuso, che accolgo come neologismo o atto onomaturgico, viene in aiuto per indicare il rischio di piattezza, di appiattimento, di reductio ad unum, insito nell’ideologia delle piattaforme).

Intanto precisiamo che stiamo parlando, principalmente ma non solo, di hot reading, come dice Stefano Calabrese, o di pura concupiscenza libraria (Manganelli), ossia di lettura di piacere e per piacere, che solo da poco tempo, e grazie alla quarta rivoluzione della lettura, ha ottenuto una provvisoria cittadinanza in biblioteca, ma è sempre a rischio di ricevere il foglio di via. La lettura concupiscente non intende soppiantare le altre letture (informativa, di ricerca, di studio, di consolazione, di saggezza, di refrigerio, di emancipazione, tempo libero, intermittente, interstiziale ecc.). Piuttosto le infiltra. Tutte le letture, infatti, possono essere o divenire hot. Da tempo ci si è accorti che il distant reading non è il contrario del close reading, è solo un altro modo di leggere la lettura: dipende dalla lente montata sull’obiettivo. E basta con gli aut-aut, ma anche con l’eclettico ed ecumenico et-et! Largo invece al “tra” di François Jullien, che mette in relazione e costruisce relazioni. La lettura calda sta tra (non contro e non con: non avversa e non è un complemento di compagnia) le altre letture. Ed è, appunto, materia incandescente, perché questa lettura è particolarmente fragile.

Qui apro l’ennesima parentesi, perché fragilità e antifragilità della lettura, che possiamo concepire come una polarità composita, sono emerse in modo abbastanza netto durante la pandemia da Covid-19. Si tratta di un filo affiorato anche in questo convegno. In questa sede voglio rimarcare solo un aspetto: in controtendenza rispetto alla retorica propagandistica della lettura salvatrice, che avrebbe guidato e retto con mano sicura i destini del confinamento e della malattia, capitalizzando golosamente i momenti liberi per leggere, la lettura in corpore vili ha mostrato (anche nel senso che non ha nascosto) momenti di difficoltà e di incertezza. Essi si sono rivelati anche nei numeri: le indagini statistiche relative al primo lockdown hanno evidenziato una curva, anzi un gradino discendente, molto netto, a cui sarebbe seguito poi uno scatto, o un riscatto, che ha trascinato in alto il risultato finale dell’anno (per i prestazionisti: questa è una tipica prestazione o prestidigitazione della lettura, cadere e risalire, e viceversa). L’andamento rappresenta un comportamento ormai consolidato della lettura di fronte a calamità, guerre e catastrofi, a cui pochi, con l’eccezione di Michel Petit e qualcun altro, hanno dedicato una riflessione. Chi si pone dal punto di vista dell’analisi dei comportamenti di lettura, e non solo dei dati di mercato, non può infatti non vedere in questi andamenti altalenanti proprio la fragilità di una consuetudine che però contribuisce all’antifragilità complessiva della lettura come fenomeno culturale e gesto antropologico.

Torniamo a noi. Bene, che se ne fa la lettura di una piattaforma? Intanto proviamo a rovesciare la domanda. Che se ne fa la piattaforma della lettura? Perché anche quelle che oggi siamo abituati a considerare piattaforme di lettura non lo sono fino in fondo (questo è testimoniato, tra le altre cose, dalla scarsa attenzione alle interfacce). Hanno ospitato la lettura tra i loro oggetti di vetrina o tra le loro merci di scambio per l’implicita vocazione onnivora che le divora da dentro; ma la lettura è più un passante che un ospite. Prendiamo alcune tipologie più ovvie di piattaforma di lettura: gli opac, i siti di e-commerce librario e quelli di social reading. I primi sono, ad esempio, piattaforme ante litteram. Non solo perché anche un catalogo può essere una piattaforma (il catalogo è una mappa e i dati sono disposti orizzontalmente, anche se non mancano le discese verticali e gerarchiche, come noto; e forse sono proprio i cataloghi che ci hanno insegnato quel rovesciamento tra superficie e profondità che è tipico delle piattaforme), ma soprattutto perché i suoi dati sono linked data, sono nel web e del web; e quindi l’opac è divenuto uno strumento di creazione di conoscenza e non solo di recupero delle informazioni. Ma anche qui la lettura vola – se vola – come la nottola di Minerva quando i giochi sono fatti: la sua possibilità di retroagire sull’informazione, di contribuire a situarla, a dimensionarla, non è presa in considerazione dalla piattaforma se non marginalmente.

Quanto ai siti di e-commerce librario, nonostante l’ovvia finalità mercantile, hanno avuto il duplice merito di mettere (quasi) ogni libro a distanza di un clic, e di dare spazio alla lettura attraverso i commenti, le conversazioni, le valutazioni e le relazioni tra i libri. Tuttavia non è senza significato che il famoso algoritmo “chi ha acquistato questo ha acquistato anche”, che prolifica su ogni piattaforma, costituisca anche una mannaia riduzionistica, a volte totalmente fuorviante, che si è abbattuta sulla lettura. Il primo riduzionismo è quello insito nella equivalenza tra acquisto e lettura: non è affatto detto che chi acquista un libro lo legga, come noto (e poi quanto lo legge? per quanto tempo? per quante pagine? Oggi il software degli ebook calcola e tiene conto anche di questi dati, ma l’algoritmo no). Le biblioteche hanno importato l’algoritmo nei loro siti e opac, facendolo diventare “chi ha letto questo ha letto anche”, ma senza cambiarlo di molto. Anche in questo caso la lettura è ingannevolmente presupposta, perché essa è solo uno tra gli svariati motivi per cui si prende in prestito un libro.

Ma anche prescindendo dalla falsa equivalenza tra prestito (o acquisto) e lettura, vi sono altri elementi di rumore che inficiano l’utilità dell’algoritmo, ad esempio il fatto che molte persone comprano o prendano in prestito o leggano libri che non sono affatto simili tra loro (questa diversità è il bello della lettura) e quindi è sbagliato considerare l’algoritmo uno strumento di individuazione dei readalike, come li chiamano i servizi di consigli di lettura in area angloamericana. Un ulteriore elemento riduzionistico, infine, è quello che favorisce il monopolio o l’oligopolio di certi editori, per cui il meccanismo dell’algoritmo produce una iper-rappresentanza degli editori più ricorrenti e questo per due motivi: perché trattandosi di un meccanismo esclusivamente quantitativo, non dotato di alcun correttivo, esso collocherà in testa alla classifica i consigli legati ai libri più venduti/prestati, amplificandone ulteriormente l’influenza; e poi perché lo stesso concetto di readalike è “monopolistico”, privilegiando solo uno dei tanti fili che da un libro porta a un altro, ossia quello della somiglianza, della conferma e della ripetizione. In questo senso la logica piatto-formista (perché è in buona parte alla piattezza delle piattaforme che dobbiamo imputare questo difetto) sembra mandare in pensione un altro elemento tipico del web, ossia il principio della coda lunga, che favorisce, almeno in parte, le minoranze e le diversità. Cathy O’Neil definirebbe questi limiti algoritmici come “armi di distruzione matematica”, addebitando la loro fallacia alla mancanza di feedback.

I social reading sono la terza tipologia di piattaforma di lettura, anche se il termine è divenuto così generale da comprendere tutti i social che si occupano, in un modo o nell’altro, di lettura. Tuttavia noi lo useremo in senso proprio, adottando la tassonomia di Bob Stern (centrata sul social reading come momento di conversazione e discussione sui libri) e aggiungendo però delle forme di lettura sociale che sfuggirebbero alla sua maglia: per esempio, il consiglio e la raccomandazione, la catalogazione tramite social tagging, la ricerca e il calcolo di affinità tra lettori, o attività più elementari ma anche più frequenti come l’attribuzione di un like, di un’emoticon o di una stella a un libro o a un commento ecc. Diversamente resterebbero escluse molte forme di lettura partecipativa o lettura aumentata che si basano sulla “stratificazione”, che per Robert Darnton è la vera e più ricca potenzialità della lettura digitale. In questa modalità la lettura è strettamente legata alla scrittura (e questo dovrebbe essere lo scopo principale di un social come Wattpad) e probabilmente è quella che potrebbe trarre maggiore giovamento da una piattaforma ad hoc, perché ha bisogno di una serie di tools integrati e sempre a portata di mano. In tutte le piattaforme di social reading di natura conversazionale e associativa, come aNobii, LibraryThing, Bookliners (che purtroppo ha chiuso i battenti nel 2016), l’attenzione al lettore è molto più sviluppata che altrove. Non si può dire altrettanto, però, per l’attenzione alla lettura, che è ancora molto povera e si limita all’aggiunta di qualche pennellata “emotica”, più che emozionale, alla tavolozza dei social networks. In sostanza questi strumenti, con le dovute eccezioni, sono social sulla lettura (anzi, soprattutto sui libri e i lettori) e non di lettura. Essi patiscono l’arretratezza generale della lettura digitale, le cui potenzialità sono state ancora scarsamente esplorate. C’è poco che sviluppi o analizzi in senso proprio l’esperienza di lettura, scarse le possibilità di interagire direttamente con il testo, di annotare, scambiare, citare, remixare, ri-mediare e condividere – in modo sistematico e nativo: un social di lettura digitale dovrebbe comunicare direttamente e senza impicci tecnici con il software di lettura dell’ebook, per esempio. In questo pesano certamente le logiche di mercato che portano a sviluppare per ogni tipo di device un ecosistema di lettura incomunicante con gli altri; così come pesano i lacci e lacciuoli di una gestione della proprietà intellettuale dominata dall’ossessione della pirateria; ma incide anche un’arretratezza riguardante la cultura della lettura e la considerazione del suo posto nella vita quotidiana.

Ciò spiega anche perché i social reading siano diventati campi di scorribanda dei cosiddetti bookinfluencer piuttosto che luoghi di ricerca, sperimentazione e condivisione delle esperienze di lettura. Questo ci porta o riporta a un punto fondamentale: nelle piattaforme la parte spesso meno curata, meno soggetta a innovazione, è quella dell’interfaccia. Quando pensiamo a una piattaforma di lettura pensiamo ancora ai favolosi granai della Yourcenar, riducendo l’esperienza e la nozione di piattaforma a quella di un magazzino, in cui però la ricerca è ottimizzata grazie alle possibilità del digitale. Qualcuno considera l’interfaccia un quasi-sinonimo di piattaforma, mentre forse ne costituisce l’anello mancante. L’interfaccia è il volto con cui ci parlano le tecnologie, è lo strato materiale attraverso cui si realizza l’incontro, vengono in contatto le superfici, i corpi, le sensibilità.

In termini più semplici e generali, l’interfaccia può essere definita come tutto ciò che sta tra noi e il testo (e quel testo che è il mondo) per favorire la relazione e la mediazione tra di essi. Il termine fu introdotto da Bottomley nel 1882 per indicare la “superficie di separazione” tra due liquidi. Ma non è senza significato che, nella sua descrizione, quella barriera funzioni contemporaneamente come strumento di attraversamento osmotico. In ambiente digitale l’interfaccia di solito è un dispositivo o un codice o uno strumento informatico dedicato alla comunicazione tra sistemi, livelli, entità, mondi differenti. È un apparato traduttivo e interpretativo insieme, come spiega Pierre Lévy, che ha pagine anticipatrici sull’argomento. Ma anche il corpo può essere un’interfaccia, nota Rosi Braidotti, e tra le principali, soprattutto nell’epoca del corpo protesico e del postumano, e questo non fa che confermare la natura materialistica, fisica, dell’interfaccia (anche digitale) e il fatto che è in essa che risiede una componente fondamentale del piacere del testo e della navigazione tra i testi. Carlos Scolari ha sintetizzato in dieci leggi il magico potere delle interfacce: senza ora entrare nel dettaglio, si può dire che nel loro insieme esse individuano l’interfaccia come creatrice dell’ecosistema e strumentodella mutazione e della metamorfosi cui già alludeva Braidotti. Il tentativo di Scolari è quello di muovere un passo verso una teoria delle interfacce, che è una teoria di tipo semiotico, ove l’interfaccia va a ricoprire il ruolo che ebbero i concetti di segno, di struttura, di discorso. In questo senso una teoria (e un design) delle interfacce è anche e soprattutto una teoria e un design della lettura.

È tempo di nuovi servizi

L’interfaccia di lettura è dunque un’interfaccia al quadrato. Secondo Johanna Drucker, essa è lo “spazio di confine” che costituisce la lettura come attività, anche quando abbiamo l’impressione che si presenti come un oggetto fisso, un menu a tendina, un pannello di controllo, una dashboard. La storia delle interfacce (a partire dalla prima scheda perforata) dimostra che non è mai la riproduzione letterale del reale a produrre l’effetto migliore, ma la sua reinterpretazione, l’astrazione, la reinvenzione. La scelta delle interfacce risente anche di diverse teorie che si sono succedute nel tempo, tra cui quelle relative all’“usabilità” del web, quelle pedagogiche e cognitive di Piaget e di Bruner, quelle costruttiviste e narratologiche riguardanti il linguaggio e le storie, quelle concernenti la percezione e la visione. Gli attuali studi sugli aspetti neurologici della lettura, così come quelli sulla visualizzazione sono molto importanti per la costruzione delle interfacce di lettura. Queste disegnano le possibilità e le modalità che noi abbiamo di “vedere” e poi di leggere un testo, di ingrandirlo, di ascoltarlo con la sintesi vocale, di scorrerlo, seguendo una traiettoria verticale o orizzontale, di collocarlo nello spazio, artificiale ma reale, di uno schermo, che noi continuiamo a considerare come una pagina, ma che non ha più nulla a che vedere con la pagina tipografica. Il rapporto tra testo e contesto, grazie all’interfaccia, può mutare da un derridiano “non c’è nulla fuori dal testo” a uno storicistico primato del contesto, attraverso una regolazione degli strati dell’interfaccia. Teoricamente l’interfaccia potrebbe essere dosata e ricalcata sulle preferenze del lettore e sulle diverse modalità di lettura. Certo, interfacce del genere attualmente sono ancora tutte da costruire, ma questa direttrice è già presente nel concept. L’interfaccia deve aderire a quella che Calabrese chiama la controfattualità del lettore, ossia la sua attitudine a inseguire, mentre legge, ipotesi non verificate e non verificabili, e a esaminare tutte le alternative possibili, non solo nel futuro ma anche nel passato. L’interfaccia si presenta in questo caso come un sistema ipotetico dell’irrealtà, come macchina immaginifica che continuamente produce scenari controfattuali o distopici e li confronta con il contenuto della storia. La lettura è fatta di “se” e di “ma”.

Questa componente controfattuale dovrebbe essere presente nelle piattaforme di lettura, che dovrebbero ospitare, accanto ai legami di affinità, quelli divergenti, oppositivi o paralleli (tra libri, lettori, e letture). Tali piattaforme potrebbero possedere varie caratteristiche e distinguersi per diverse tipologie, variamente combinate. Eccone una velocissima rassegna, con accenni alle relative problematiche:

  1. per quanto riguarda l’approvvigionamento (il granaio) occorre certamente far tesoro delle migliori caratteristiche delle piattaforme commerciali e dei cataloghi online delle biblioteche, ottimizzando la possibilità di ottenere immediatamente il testo desiderato, connettendosi con i grandi archivi open (come Internet Archive, WorldCat, OCLC, E-LIS repository ecc.). La piattaforma dovrebbe apportare due tipi di valore aggiunto: l’avvicinamento, sempre asintotico ma ormai impressionante per capacità di recupero, all’utopia della biblioteca universale, e la rapidità di localizzazione e appropriazione dei documenti senza costringere a ulteriori e defatiganti ricerche su singoli cataloghi, grazie a strumenti come metamotori, metacataloghi e metaopac. Ma quello che ci si potrebbe aspettare da una futura generazione di piattaforme di lettura è l’attenzione ai diversi approcci con il libro, non limitando i vantaggi agli utenti esperti e professionali ma accogliendo e placando la fame di leggere del cosiddetto lettore e lettrice comune. Quindi le piattaforme non dovrebbero soddisfare solo l’approvvigionamento ragionato, mirato e diretto allo scopo, ma anche il nomadismo lussurioso di chi cerca spunti e occasioni di lettura, o di chi intende catalogare o tenere i propri libri sotto gli ordinamenti più strani, ad esempio in base ai personaggi principali delle opere, come Rebecca Makkai.
  2. il contatto e il rapporto con e tra i lettori andrebbe alimentato e perseguito, ma in modo diverso dalle piattaforme di lettura mainstream, che sono dei social network che hanno in comune la lettura, ma che potrebbero avere in comune qualunque altra cosa, senza cambiare quasi nulla della loro impostazione. La conversazione e discussione tra lettori dovrebbe quindi spostarsi dalle sedi generali o generaliste, dove diventa fatalmente chiacchiera culturale, e migrare all’interno dei libri stessi, riempiendone i margini (naturalmente senza invasività: ogni strumento di contatto deve prevedere sempre la modalità zen, che blocca selettivamente ogni connessione). Le funzioni “conversazionali” sono attualmente implementate in alcuni software di gestione degli ebook (intesi come dispositivi) ma sempre in una dimensione secondaria o statistica: possiamo sapere quante persone hanno sottolineato un testo, quante “stelle” gli hanno mediamente attribuito, ma non possiamo sapere né chi sono né perché l’hanno fatto, e nemmeno interagire con loro. Collocare il commento nel margine, o in uno strato, del libro che si sta leggendo invece che su un post di Facebook o di un’altra piattaforma simile, avrebbe il vantaggio di riavvicinare testi e commenti che – secondo la denuncia di Steiner, peraltro molto anteriore al diffondersi della rete e dei social – tendono a perdere ogni contatto reciproco, nutrendo di like e di hating la “società del commento”, che è un’altra faccia della “società dello spettacolo”. 
  3. Parimenti trascurata, e ciò appare abbastanza paradossale, viste le possibilità tecnologiche del digitale, è la dimensione multisensoriale e sinestetica della lettura. Qualcosa si è fatto sul piano degli arricchimenti auditivi, grazie al crescente interesse per le pratiche di lettura ad alta voce e al successo degli audiolibri. Ma per la visualizzazione, come già accennato, siamo alla preistoria. Eppure sarebbe molto utile (e controfattuale) avere a disposizione, grazie alla piattaforma e alla partecipazione dei suoi utenti, diverse viste di lettura, intendendo non solo una diversa configurazione di quella pagina che nella lettura digitale non c’è più, ma una specie di traduzione visiva, affidata ad appositi algoritmi controllati dai lettori, che produca grafi, icone, simboli, immagini dei contenuti letti e delle modalità con cui si legge. Naturalmente tutto ciò non deve ledere minimamente il diritto del lettore di collocare visivamente la storia dove e come vuole, e di dare ai personaggi il volto che preferisce. 
  4. Ma se la vista è debole, lo è ancora di più la tavolozza legata agli altri “sensi della lettura”, storicamente subordinati. Stiamo lì a struggerci per la dolorosa perdita dell’odore dei libri di carta e non pensiamo minimamente agli odori e ai sapori e ai tocchi della lettura. Quello che dovrebbero fare le piattaforme è lavorare sul modello di lettura digitale a strati tratteggiato da Robert Darnton con i suoi sei livelli, aumentabili e smontabili a piacere, e dare al lettore la possibilità di popolare la “pila” come vuole. Uno di questi livelli potrebbe contenere lo sviluppo multimediale, multimodale e multicodicale del libro; potrebbe sfruttare la componente aptica della lettura touch, quella che si pratica su telefonini e tablet, quella che fa impazzire molti bambini che secondo i genitori non leggono e che invece spesso si abbuffano di deliziose bookapp. “La lettura, oltre a decodificare e comprendere, è anche manipolazione fisica degli apparati di lettura e il modo in cui leggiamo dipende dalle tecnologie, dall’implementazione del design e dalla composizione del testo”.

Insomma, le piattaforme di lettura non sono solo piattaforme che raccolgono i dati di lettura, procurano libri, sviluppano conversazioni su di essi, mettono in contatto i lettori. Esse sono (devono essere) piattaforme che permettono di leggere, di più e meglio, in modo ipertestuale, intertestuale e infratestuale (cioè oltre i testi, attraverso i testi, dentro i testi). Sono, infatti, piattaforme di e non sulla lettura. È questo il passo che manca ed è un passo, ovviamente, più lungo della gamba (se ci limitassimo ai passi lunghi come le gambe non riusciremmo mai ad andare abbastanza lontano). Quindi una piattaforma di lettura ha senso se determina (o esige: è difficile stabilire se è nato prima l’uovo o la gallina) la creazione di nuovi servizi e/o il radicale cambiamento di quelli esistenti, sia in biblioteca che nelle altre agenzie che si occupano di libri: il concetto stesso di libro passa da quello di oggetto a quello di servizio. La nozione di piattaforma dovrebbe essere costitutivamente incardinata a questa transizione, anche se non sempre, nella realtà, è così. La piattaforma è ciò che dà al libro la forma del servizio. E ciò vale a maggior ragione se la piattaforma è la biblioteca. Farò – in sede conclusiva – solo un esempio tra i tanti nuovi servizi possibili, perché mi sembra che riguardi e riassuma tutto quello che è stato detto sin qui.

Mi riferisco al servizio di consigli di lettura, o per la lettura, noto nei paesi anglosassoni come Readers’ Advisory Service (d’ora in avanti “RAS”), presente in questa area geografica fin dagli anni Venti del secolo scorso e pressoché inesistente finora in Italia, almeno in forma organica e strutturata. In sintesi si tratta di un servizio che ha lo scopo di far incontrare concretamente dei lettori con dei libri e dei libri con dei lettori, attraverso la fornitura di consigli selezionati e personalizzati, liste di libri, bibliografie, percorsi, consulenze e ogni altro strumento utile, realizzando così gli obiettivi incrociati della seconda e terza legge di Ranganathan.

L’introduzione di questo tipo di servizio anche in Italia è oggi culturalmente, organizzativamente e tecnologicamente matura per diverse ragioni:

  1. il bisogno è sicuramente elevato, anche se non sempre chiaramente percepito. La domanda “Mi consiglia un libro da leggere?” è frequente nelle biblioteche di ogni ordine e grado e viene rivolta spesso a ogni bibliotecario o operatore che capiti a tiro. Le risposte nella maggior parte dei casi sono a discrezione e improvvisazione del bibliotecario di turno: c’è chi ripiega sulla vetrina novità, chi sui propri personalissimi gusti, chi sui motori di raccomandazione, chi si trova in difficoltà o non ha tempo. A un bisogno esplicito del lettore non corrisponde in genere una risposta strutturata e uniforme da parte della biblioteca. 
  2. il servizio potrebbe rappresentare l’integrazione di tutti i “servizi di lettura” e di questi con tutti gli altri, contribuendo a rilanciare la vocazione unitaria e la natura olistica dei servizi bibliotecari. Esso, infatti, si colloca al crocevia tra servizi di lettura, di reference e di information literacy, e rappresenta il punto di collegamento tra tre “entità” del lavoro e dell’ontologia bibliotecaria (documento, lettore, lettura); 
  3. pur nascendo storicamente e professionalmente all’interno della struttura del reference, il RAS ha una sua forte specificità e una capacità innovativa anche nei confronti della concezione tradizionale del reference, che a volte fatica a uscire dalla dimensione puramente informativa e dal circolo chiuso delle domande fattuali, e che spesso vie ne considerato un servizio “specialistico”, mentre dovrebbe essere un servizio di base della biblioteca pubblica;
  4. per le ragioni indicate nella parte precedente della relazione, il RAS, oltre a essere nativamente digitale, ha bisogno per svilupparsi di nuove tecnologie legate all’ingresso dell’intelligenza artificiale nella “vita quotidiana” della biblioteca; 
  5. esso ha parimenti bisogno del contributo e del lavoro creativo e collaborativo degli utenti e dei lettori, per popolare la banca dati con informazioni, percezioni, opinioni, senza i quali il servizio non raccoglierà mai la massa critica di dati necessari per decollare, e non potrà riempire il vuoto di strumenti, esperienze e competenze che caratterizza la situazione italiana;
  6. il RAS dà cittadinanza a un nuovo rapporto con il libro, l’informazione, la lettura, basato sull’esperienza e sulla condivisione, su chiavi di accesso inedite per il mondo bibliotecario, e per la cultura del libro in generale, basate sull’emozione della lettura, il mood del lettore, il feeling del libro, il plot della storia, il personaggio, il luogo, il tempo ecc.;
  7. in questo senso è il servizio che più avrebbe da guadagnare dall’introduzione di piattaforme di lettura, con le caratteristiche già indicate, e che maggiormente potrebbe contribuire a modificare o influenzare l’orientamento delle piattaforme esistenti;
  8. la strada potrebbe essere quella percorsa dai gruppi di lettura (che tra l’altro sono uno dei punti di riferimento per la costruzione del servizio, funzionando sia da fornitori che da fruitori dei consigli). Anche nel caso dei gruppi di lettura, infatti, un fenomeno “importato” dalla realtà anglosassone è stato rielaborato e trasformato in modo sostanziale, conferendo anche un ruolo importante alle biblioteche.
  9. infine l’avvio in forma sistemica e cooperativa di questo servizio costituirebbe un esempio di attivismo e costruttivismo bibliotecario di fronte alla crisi pandemica e post-pandemica.

Si tratta quindi di un servizio che per decollare e prosperare avrebbe bisogno della forza congiunta dei bibliotecari e dei lettori, dell’intelligenza artificiale e dei big data, dell’umano e del postumano. Che sia questa la volta (e la piattaforma) buona?