Come fare branding in biblioteca
alessia.parolotto@univr.it
Abstract
Recensione di Alessia Parolotto al libro di Anna Busa, Come fare branding in biblioteca, Milano, Editrice Bibliografica, 2021, 80 p.
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Con questo terzo volume, come sempre pregnante, Anna Busa aggiunge un nuovo tassello al suo lavoro dedicato alla promozione delle biblioteche. In Come fare marketing digitale in biblioteca (2019) l’autrice ribadisce l’importanza dell’uso di strumenti digitali, ivi compresi i social media, per comunicare la biblioteca. In Come facilitare l’incontro con i pubblici della biblioteca (2020) sottolinea la necessità di conoscere l’utenza, emblematicamente rappresentata dalle diverse personas, per meglio venire incontro alle sue esigenze. In questo Come fare branding in biblioteca (2021) ci porta nel cuore del marketing. Scrive Anna Busa nella premessa: “Il brand, e quello della biblioteca in particolare, non è solo un nome. Racchiude sentimenti, sensazioni: è una promessa”, una promessa che deve coinvolgere e fidelizzare l’utenza. L’autrice, dunque, ci illustra il valore del brand o marca (da non confondersi con marchio, come ben spiegato a p. 15) per qualsiasi prodotto, biblioteche comprese. Viviamo un’epoca che ci sottopone a molteplici stimoli, visivi, uditivi che rischiano di annullarsi l’un l’altro, ecco perché riuscire a ritagliarsi una riconoscibilità diventa non solo utile, ma indispensabile per un prodotto, comprendendo nel concetto tutte le attività che le biblioteche promuovono e ospitano, tanto che l’autrice non esita a definire frequentatori e frequentatrici di biblioteca dei “consumatori di cultura”.
Nella prima parte del volume viene sottolineata l’importanza del brand e delle sue funzioni, ossia identificativa, percettiva o valutativa e fiduciaria:
Attraverso il suo brand la biblioteca comunica sé stessa: mission, valori, ruolo sociale. E questa comunicazione di sé è alla base del rapporto di fiducia con i propri utenti, non è un messaggio formale ma un impegno concreto che produce stima e fidelizzazione delle persone e trasforma il rapporto con gli utenti da incontro occasionale o episodico a una relazione che dura nel tempo (p. 17-18).
Proprio perché tanto importante, il brand ha bisogno di una strategia e di qui la dettagliata presentazione del brand management con le sue sei declinazioni. Per esclusive ragioni di spazio, Anna Busa si focalizza su brand image, brand identity e brand equity, che hanno altrettanti paragrafi dedicati. Grande attenzione l’autrice presta alla brand identity, ossia a ciò che identifica un certo prodotto rendendolo immediatamente riconoscibile e, partendo dalla visione di Jean-Noël Kapferer, ne illustra i sei aspetti del valore: aspetto fisico o physical facet; personalità o brand personality; cultura o culture-values; relazione o relationship; riflesso o reflected consumer; self image o consumer mentalization.
Il paragrafo dedicato alla comunicazione del brand si sofferma innanzitutto sul nome (un elemento caratterizzante e fermo nel tempo, che va pertanto scelto con particolare cura), “perché il nome non è solo una parola: è un insieme di valori, di idee. È un racconto” (p. 34). Anna Busa ci presenta poi il logo, ossia la transizione grafica del nome; il payoff, la breve frase che accompagna e rafforza il nome; il pittogramma, cioè un simbolo non leggibile ma identificativo del prodotto; il claim, una breve frase che si associa a una campagna multi-soggetto in cui si possono usare headline, queste ultime create per una campagna pubblicitaria specifica. Alla brand image, ossia a come il pubblico decodifica i messaggi che gli vengono rivolti, viene riservato un breve paragrafo, mentre alla brand equity, ossia il valore aggiunto che una marca conferisce ad un prodotto o a un servizio, sono dedicate più pagine in cui vengono analizzati in dettaglio i modelli, entrambi customer based, di David A. Aaker e di Kevin Lane Keller.
A chiusura della prima parte le riflessioni di Anna Busa si focalizzano sulla natura relazionale del brand sullo
human-to-human […] grazie al quale il rapporto con l’utente non si configura più come una semplice interazione ma, appunto, come quell’insieme di incontri scelti e voluti che superano il “mi trovo bene” e che sono il risultato di una fidelizzazione basata su empatia, capacità di ascolto e interazione. Incontri che sono vissuti in tutti gli spazi della biblioteca: fisici, digitali e ibridi (p. 50-51).
L’autrice invita quindi chi lavora in biblioteca a creare una relazione con chi la frequenta e una costante comunicazione con il territorio per rispondere con eguale impegno alle sue esigenze tanto espresse quanto inespresse.
Nella seconda parte del volume trovano spazio quattro testimonianze di bibliotecarie e bibliotecari che presentano le loro istituzioni: Maria Stella Rasetti parla dello stile “San Giorgio” di Pistoia nella cui creazione è stato coinvolto tutto il personale e che caratterizza la biblioteca da lei diretta. Stefania Romagnoli de “La Fornace” di Moie, nell’entroterra anconetano, definisce la sua biblioteca “una buona abitudine quotidiana per tutti” (lì sono stati celebrati anche dei matrimoni, per dire l’affetto che lega la Fornace a chi la frequenta). Piero D’Amico parla de “La Rendella” di Monopoli, uno spazio che è aperto non solo a tutta la cittadinanza, ma anche agli stranieri residenti che lì trovano riviste e libri in lingua originale e ai turisti che entrano per recarsi all’infopoint. Infine, Giulia Bonazzi con Francesca Incerti presentano “Il Multiplo” di Cavriago, in cui l’affetto dichiarato in molti modi dalle persone è testimonianza di un legame profondo con la biblioteca. Si tratta di quattro esperienze diverse, ma con un comune denominatore: la volontà di fare della biblioteca uno spazio di accoglienza, di aiuto e di stimolo in cui l’edificio sia sempre meno teca, ossia luogo chiuso e di conservazione, e sempre più ambiente aperto ad un’utenza con caratteristiche e bisogni sempre nuovi, specchio di questa società liquida.
Nelle riflessioni finali Anna Busa rilegge le quattro testimonianze sottolineando l’importanza del fare branding non solo partendo da un evento particolare (un restauro, una riapertura, una nuova sede come nel caso degli esempi riportati), ma affermando che ogni giorno “Si può comunque lavorare sul brand della propria biblioteca e con positivi risultati guidati dalla consapevolezza che il brand è molto più di un ‘nome’” (p. 72).
Il volume, agevole come tutti quelli della serie “Library Toolbox”, fornisce a chi legge una serie di importanti spunti di riflessione che Anna Busa, fisica prestata al marketing, ci comunica con la salda competenza che le viene da anni di lavoro sul campo, e che sa rendere particolarmente accattivanti con il coinvolgente entusiasmo che è la sua cifra come ben sa chi ha lavorato con lei o ha seguito un suo corso.