Biblioteconomia critica e decolonizzazione delle collezioni
Politecnico di Torino, Servizio Programmazione Sviluppo e Qualità, rossana.morriello@polito.it
Abstract
La biblioteconomia critica colloca la biblioteconomia in una posizione attiva nella società. I bibliotecari critici si sforzano di ridurre le pratiche bibliotecarie che potrebbero rafforzare, consciamente o inconsciamente, i sistemi di oppressione nella società. Un aspetto è la decolonizzazione. Ciò significa evitare pratiche che possano rafforzare un approccio coloniale, cioè la discriminazione in base alla razza, all’etnia, al genere, e rimuovere tutte le barriere verso un accesso equo alle informazioni. L'articolo definisce innanzitutto il concetto di decolonizzazione, a partire dagli scritti di Aimé Césaire, poi lo applica alle biblioteche, ricordando il lavoro dell'UNESCO negli anni '70 per risolvere la “fame di libri” nel Sud del mondo e arrivando all'Agenda 2030 dell'ONU. Dati sul mercato del libro contemporaneo sono inclusi come esempi di problemi nello sviluppo delle collezioni.
English abstract
Critical librarianship places librarianship in an active position in society. Critical librarians strive to reduce library practices that might reinforce, consciously or unconsciously, systems of oppression in society. One aspect is decolonization. This means avoiding practices that can reinforce a colonial approach, that is discrimination according to race, ethnicity, gender, and removing all barriers towards an equitable access to information. The article firstly defines the concept of decolonization, from the writings of Aimé Césaire, then it applies it to libraries, recalling the work of UNESCO in the 70’s to solve “the book hunger” in the Global South and getting to UN Agenda 2030. Data about the contemporary book market are included as examples of issues in collection development.
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La biblioteconomia è un insieme di regole e principi per l’organizzazione della conoscenza contenuta nei documenti raccolti e conservati nelle biblioteche. In quanto tale, non è di certo una disciplina neutrale. Tematiche come l’intolleranza e il razzismo, la discriminazione sessuale, le dinamiche economiche legate allo sviluppo sostenibile non possono essere considerate estranee alle biblioteche poiché non sono estranee alla produzione e diffusione della conoscenza. Ci si rende conto in misura crescente che l’applicazione acritica delle conoscenze e degli strumenti biblioteconomici può generare forme di codificazione che legittimano i diversi tipi di oppressione, come razzismo, supremazia bianca, discriminazioni di vario genere, sia che ciò avvenga consapevolmente da parte dei bibliotecari sia inconsapevolmente. In quest’ottica, si sta diffondendo a livello internazionale un filone di studi definito “critical librarianship”, sintetizzato anche con la parola Critlib, così da facilitare la comunicazione in rete e nei social network tramite l’hashtag #critlib. Tale approccio epistemologico si riverbera su tutte le tematiche biblioteconomiche generando a sua volta la catalogazione critica, lo sviluppo delle collezioni critico, l’information literacy critica. La biblioteconomia critica è una forma di biblioteconomia attiva e consapevole, che assume un ruolo sociale importante. Tale attivismo è presente a livello di studi di scienza della biblioteca e diventa nella pratica una forma di biblioteconomia militante, per riprendere le parole di Luca Ferrieri, che delinea un modello di biblioteca in grado di far fonte alle esigenze informative diverse dei membri della comunità che deve servire. Il principio non è quello di una biblioteca per tutti, ma di una biblioteca in grado di operare con modalità differenziate per correggere le diseguaglianze, cosa che non sempre è invece riuscita a fare. L’obiettivo del raggiungimento dell’uguaglianza passa attraverso il presupposto dell’equità. I due concetti sono vicini ma non sovrapponibili. Il concetto di equità sottolinea come non tutti abbiano le stesse opportunità nella società e dunque l’obiettivo dal punto di vista etico dovrebbe essere garantire a tutti le stesse opportunità ai fini del raggiungimento dell’uguaglianza. In linea generale, la biblioteconomia critica è volta a instillare tra i bibliotecari quella consapevolezza del ruolo di primo piano della biblioteca nel generare coscienza critica tra i cittadini, nell’agevolare il superamento delle inequità, nello spingere all’azione, prendendo atto dei bias con cui agiamo e sui quali si poggiano i sistemi di organizzazione della conoscenza, per cercare di correggerli o perlomeno di tenerli in considerazione nelle politiche bibliotecarie. A ben guardare non è niente di nuovo poiché i principi della biblioteca sono proprio improntati alla libertà e all’uguaglianza di accesso all’informazione, alla garanzia di uguali opportunità per tutti, all’essere un’istituzione simbolo della democrazia. Tuttavia, se da un lato non sempre i preconcetti che possono operare nelle pratiche bibliotecarie sono noti, dall’altro a volte lo sono e si cerca di porvi rimedio, ma i tempi di cambiamento sono lunghi perché le biblioteche sono strutture complesse. Il tema non è ancora molto presente negli studi biblioteconomici italiani e l’obiettivo di questo contributo è quindi cominciare ad offrire un’introduzione preliminare, panoramica ed informativa, sull’argomento, che individua in modo sintetico alcune questioni centrali, lasciandole sullo sfondo, e si dedica alla descrizione generale del contesto e delle sue implicazioni.
Il concetto di decolonizzazione
L’analisi delle connotazioni storiche, sociolinguistiche e letterarie, nonché politiche ed economiche dei concetti di colonialismo, postcolonialismo e decolonizzazione meriterebbe un approfondimento maggiore di quanto l’obiettivo di questo articolo non consenta. Tuttavia, un breve inquadramento è indispensabile per proseguire il discorso che ci conduce alle biblioteche e alle motivazioni per cui le biblioteche possono e devono avere un ruolo importante nel movimento globale verso la decolonizzazione.
Gli studi postcoloniali nascono e si strutturano negli anni Settanta del Novecento, ovvero dopo i movimenti indipendentisti che tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta hanno portato gran parte delle colonie all’indipendenza. Il postcolonialismo nell’ambito delle diverse discipline mirava ad analizzare e studiare l’impatto che la dominazione ha avuto sui paesi dominati. Il punto di partenza era la considerazione che la colonizzazione era cessata e dunque l’obiettivo doveva essere, da un lato, studiare tale impatto e, dall’altro, verificare il lascito nei paesi colonizzati. Il concetto di decolonizzazione che si sviluppa a partire dagli anni Novanta va ben oltre e molto più in profondità rispetto all’approccio postcoloniale nell’analizzare invece come il colonialismo sia stato una delle leve dello sviluppo della società capitalistica occidentale. Una leva basata sulla narrazione dell’“altro” come un popolo da civilizzare e democratizzare. Con tale narrazione i colonizzatori hanno rimosso il senso critico e qualsiasi colpa e implicitamente hanno giustificato lo sfruttamento dei paesi e dei popoli colonizzati, peraltro spesso degenerato in privazione dei diritti se non in violenza. Al contrario la decolonizzazione parte dalla considerazione che il colonialismo non è affatto cessato dopo la fine della dominazione politica delle colonie. Il concetto di colonialismo è una struttura innanzitutto ideologica basata su un tipo di narrazione che permane anche ai nostri giorni e che prevede un centro e una periferia, un “noi” e un “altro”. Tale centro è definito da chi ha avuto in passato una posizione di colonizzatore di uno spazio geografico ma anche da chi, ieri come oggi, detiene una posizione di colonizzazione di uno spazio culturale e identitario. Attraverso tale narrazione, il colonizzatore pone dei limiti, dei confini, oltre i quali colloca il colonizzato definendolo “altro”. La narrazione è costruita totalmente dal colonizzatore e non contempla il punto di vista del colonizzato né il tentativo di conoscerlo. Sebbene di decolonizzazione si parli ampiamente dagli anni Novanta, alcuni scritti precedenti ne sono considerati precursori e punti di riferimento. Tra i principali vi è il Discorso sul colonialismo di Aimé Césaire, un pamphlet lucidissimo pubblicato nel 1955 che anticipa molte delle questioni sulle quali si riflette ancora oggi. È appena il caso di evocare tutto ciò che il movimento Black Lives Matter richiama alla mente e la strumentalizzazione politica di questi temi. Césaire offre molteplici esempi dei modi in cui tale narrazione si cela, più o meno velatamente, nei discorsi e negli scritti dei politici e degli intellettuali suoi contemporanei (perfettamente estensibile ai giorni nostri), e ammonisce su come l’azione fondata sul disprezzo dello straniero, dell’altro, “tende, inevitabilmente, a modificare anche colui che l’intraprende” poiché il colonizzatore che vede nell’altro “la bestia, si allena per trattarlo da bestia, e tende obiettivamente a trasformarsi lui stesso in bestia”. È per tale ragione, aggiunge lo scrittore martinicano, che l’Europa ha potuto far nascere e crescere il nazismo, che di fatto ha applicato gli stessi metodi usati dai colonizzatori in Africa e in Asia ma a uomini bianchi europei. La colonizzazione indebolisce la società del colonizzatore tanto quanto la società del colonizzato. Il punto centrale del discorso di Césaire è la constatazione che qualsiasi passo verso la decolonizzazione debba necessariamente partire dalla cultura, poiché “ogni grande ristrutturazione politica, ogni processo di ridefinizione degli equilibri sociali, ogni rinnovamento dei costumi è introdotto e preceduto dalla cultura, ovvero […] ogni mutamento significativo è sempre anticipato da un agire preliminare riguardante la cultura”. Un tipo di azione che lo stesso autore definisce una “rivoluzione silenziosa”, aggiungendo che è “la migliore forma di rivoluzione”.
Se lo pensiamo in termini culturali, il concetto di colonialismo, inteso nella connotazione di struttura ideologica che divide i dominatori dai dominati, coloro che si trovano al centro dagli esclusi nella periferia, può essere letto a diversi livelli. Abbiamo un livello globale che vede la divisione tra il nord del mondo e il sud del mondo, di fatto coincidente in gran parte con una demarcazione tra i paesi dal passato di colonizzatori e i paesi dal passato di colonizzati, e che ancora oggi è segnato da grandi differenze. Poi abbiano il livello locale, nazionale, regionale, cittadino, che divide coloro che hanno possibilità di accedere all’offerta culturale e agli strumenti per maneggiarla e coloro che non ce l’hanno. Nella nostra contemporaneità questa situazione si estende al digitale ovviamente, con il divario che separa coloro che hanno accesso a strumenti e conoscenze per padroneggiare le tecnologie digitali e coloro che non ce l’hanno. La biblioteca è tra le istituzioni culturali che sono chiamate a colmare questo divario, a valorizzare le differenze, a garantire opportunità alle minoranze e a coloro che si trovano nelle periferie create dalla nostra società e dalla nostra narrazione. Le istituzioni bibliotecarie sono chiamate a compiere quella rivoluzione silenziosa indicata da Césaire come la forma più efficace di rivoluzione.
La questione della decolonizzazione ha subito un impulso con l’emanazione dell’Agenda 2030 e dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU che come ben sappiamo hanno un grande impatto anche sulle biblioteche. L’intera Agenda si fonda sul principio di non lasciare nessuno indietro, “leave no one behind”, qualsiasi sia il motivo per cui rischia di rimanere indietro. Tutti gli obiettivi e i target dell’Agenda ci parlano implicitamente o esplicitamente di decolonizzazione poiché gran parte delle diseguaglianze da colmare sono conseguenza di forme di colonizzazione economica, politica, culturale, di chi è più forte verso chi è meno forte. Sia che si tratti del nord del mondo verso il sud del mondo – i cui riferimenti sono tantissimi nell’Agenda – sia che si tratti di altre forme di diseguaglianza tra i paesi e all’interno dei paesi (SDG 10 e 17), come le possibilità di istruzione e accesso alle tecnologie (SDG 4), le diseguaglianze di genere (SDG 5), le diseguaglianze di opportunità lavorative (SDG 8) e così via. Rispetto al percorso avviato dall’Agenda 2030, la pandemia di Covid-19 ha rappresentato un’accelerazione non sempre nella direzione giusta. Molti dei divari esistenti si sono manifestati in maniera palese e ora rischiano di trasformarsi in un grosso passo indietro nel percorso dell’Agenda. Lo stesso passaggio massivo all’uso del digitale non è stato progressivo, come dovrebbe essere per preparare sia chi offre i servizi sia chi li deve usare, ma repentino e non pianificato. Dunque una delle conseguenze è stata il divario tra chi ha potuto adattarsi a tale situazione e chi no, sia come cittadino e utente sia come operatore nell’offerta di servizi, anche bibliotecari. Chi era già avviato sulla strada del digitale è riuscito a far fronte efficacemente alla situazione, e a volte anche a migliorare, chi non lo era ha fatto fatica ad adeguarsi alla nuova realtà imposta dal Coronavirus. Le ripercussioni di tale improvvisa condizione pandemica non tarderanno a farsi sentire, ben oltre quanto già accaduto. Il World Economic Forum ha elencato i cinque rischi globali per il 2021: la possibilità di nuove crisi epidemiche; la crisi abitativa con perdita della casa per molte persone colpite economicamente dagli effetti della pandemia; l’aumento di eventi atmosferici catastrofici; il problema della sicurezza informatica per lo spostamento delle attività in rete e infine l’aumento della disuguaglianza digitale poiché già oggi oltre la metà della popolazione nel mondo non ha accesso a internet e il divario digitale rischia di aumentare.
Alle biblioteche spetta il compito di lavorare per ridurre questa disuguaglianza. Ma anche tra le biblioteche ci sono situazioni molto diverse. Un recente articolo sul modo in cui le biblioteche hanno affrontato la crisi del Covid-19 in Pakistan spiega come la necessità di spostare le attività online, che ha interessato anche quel paese del subcontinente indiano andato in lockdown la prima volta il 17 marzo 2020, abbia rappresentato tutt’altro che un’opportunità. Gli autori dell’articolo ribadiscono come le biblioteche universitarie (ma anche le biblioteche pubbliche in generale) nel paese debbano affrontare una serie di problemi sociali, finanziari e tecnici, per la mancanza di applicazioni tecnologiche su larga scala, repository istituzionali, progetti collaborativi, e la scarsa penetrazione della rete internet, soprattutto nelle città più piccole.8 La pandemia non ha creato opportunità in quel paese ma ha generato il caos.
Anche in Italia è emerso come molte persone siano escluse dall’uso delle tecnologie e spesso queste persone appartengono alle comunità più deboli. I dati ci dicono che un terzo della popolazione italiana in età adulta non accede mai al web: in particolare, le quote più elevate di persone disconnesse si osservano tra le donne (32%), i soggetti con basso livello d’istruzione (76%), i pensionati (52%) e le casalinghe (55%). Il concetto di decolonizzazione abbraccia totalmente le tematiche dell’accesso all’informazione, in qualsiasi formato sia disponibile.
Decolonizzare le collezioni
Gli strumenti e i metodi di gestione delle raccolte bibliotecarie sviluppati nel corso degli anni, anche in Italia, sono stati rivolti a mappare le collezioni in modo da definirne e conoscerne meglio le specificità e poter poi operare in maniera coerente ed efficace. La politica di sviluppo delle collezioni, spiega Giovanni Solimine, deve mirare a trovare una sintesi tra la specialità, che ne riconduce le scelte alla necessità di rappresentare ed essere a sua volta di supporto alle esigenze locali del territorio, e l’universalità del sapere, attraverso scelte documentarie che consentano alla biblioteca di “fornire nuovi stimoli e garantire il pluralismo”, favorendo la scoperta di percorsi di conoscenza nuovi per gli utenti, mostrando loro che “esistono altri mondi e altre abitudini”. La politica documentaria della biblioteca deve allargare lo spettro delle conoscenze dell’utente e “farà bene, quindi, ad acquisire materiale anche su temi e lingue che non rientrano nelle tradizioni storiche e culturali”. La Carta delle collezioni rappresenta lo strumento tramite il quale tradurre tali principi in linee politiche e programmatiche relative alle collezioni, rispetto alle quali la biblioteca si dovrà porre domande come “Verrà sempre rispettato il principio del pluralismo?”, “Ci saranno forme di censura?”
La rinnovata e crescente attenzione che viene posta su questi elementi, oggi raccolti sotto la definizione di “decolonizzazione”, è un indicatore di come la società stia andando in una direzione che rende necessaria una maggiore enfasi, una sottolineatura di questi aspetti e l’esigenza di coniare un termine che li renda immediatamente identificabili, rafforzandone la portata. Di questi temi in biblioteconomia si ragiona da tempo, ma più recentemente si è passati ad azioni e riflessioni sistematiche e profonde, anche legate allo sviluppo della biblioteconomia critica. Il riconoscimento dei preconcetti a cui tutti siamo sottoposti, inclusi i bibliotecari che si occupano della selezione documentaria, ha portato alcune biblioteche ad aprire spazi di collaborazione con le persone di etnie diverse o le popolazioni indigene, e con i rappresentanti delle varie comunità che la biblioteca deve servire. Queste persone supportano le scelte di politica documentaria e fanno da mediatori nei confronti delle esigenze delle loro comunità. La figura del mediatore culturale non è certo nuova nelle biblioteche, ma in questo caso si tratta di forme di cittadinanza partecipativa al servizio dello sviluppo delle collezioni, che in alcuni casi portano, per esempio, alla definizione di criteri specifici di selezione per il materiale documentario. La consapevolezza delle tematiche collegate alla decolonizzazione è fondamentale per il bibliotecario che si occupa della selezione documentaria e delle raccolte, poiché elementi di criticità si trovano anche a monte, nella produzione editoriale.
In relazione a questo aspetto, sono significativi i dati riportati da Rachel Blume e Allyson Roylance, che ci dicono che il 90% dei libri recensiti dal “New York Times” nel 2011 era stato scritto da autori bianchi, e che gli uomini sono pubblicati più delle donne. DataUsa è il sito che pubblica i dati raccolti dal Census Bureau, l’istituto di statistica americano, e include nella sezione sulla diversità i dati sugli scrittori e autori. L’ultimo aggiornamento del 2018 indica che l’81,3% degli scrittori e autori sono bianchi non ispanici, mentre gli ispanici sono al secondo posto ma con una percentuale che crolla al 6,31%; a seguire ci sono i neri al 4,07%, gli asiatici al 4,09%, i nativi indiani allo 0,464%, e altre etnie non sono nemmeno rappresentate. Uno studio analogo, anche se più empirico, è stato compiuto dalla scrittrice australiana Sunili Govinnage, che ha analizzato le liste di libri consigliati, le recensioni pubblicate e i consigli di lettura, includendovi anche le recensioni su Amazon e altri siti web, alla ricerca di libri scritti da autori non bianchi. L’impresa si è dimostrata più difficile del previsto poiché dei molti autori di culture diverse non è facile trovare traccia nelle recensioni o nelle bibliografie a vario titolo pubblicate. Qualche suggerimento le è arrivato solo dai social network dedicati alla lettura come Goodreads e da Twitter, che ha numerosi canali dedicati ai libri. Ma la conclusione dell’autrice è che il mondo editoriale manca di bibliodiversità, nella scrittura, nelle case editrici e anche nella critica letteraria. Gli autori di colore, aggiunge, hanno difficoltà a trovare un editore che li pubblichi perché gli agenti letterari non capiscono i riferimenti culturali nelle loro opere. A volte gli editori “sbiancano” i personaggi sulle copertine sostenendo che i lettori altrimenti non comprerebbero i libri e le librerie relegano i libri di autori non bianchi negli scaffali più nascosti. Gli autori di colore vengono accettati soprattutto quando le loro storie parlano di schiavitù e povertà, piuttosto che della loro vita normale, rafforzando in questo modo il concetto implicito nella descrizione postcoloniale dell’altro. La disponibilità delle versioni digitali in linea teorica dovrebbe consentire un’apertura del mercato ma nei fatti gli ebook non offrono accesso alle pubblicazioni edite in altri paesi, limitando la fruizione all’interno del paese di pubblicazione, sia per motivi legati alle licenze sia perché gli editori mantengono gli stessi schemi dell’editoria tradizionale, con poca innovazione. Govinnage aggiunge ancora un dato interessante rispetto alle traduzioni negli Stati Uniti, dove solo l’1% della narrativa e poesia è rappresentata da traduzioni e di queste il 60% sono traduzioni di autori canadesi o europei. Un dato che ovviamente risente della dominanza della lingua inglese nel mondo anche come lingua di pubblicazione, ma che è comunque significativo della poca apertura di quel mercato verso autori diversi.
Anche in Europa la diversità etnica e linguistica è la norma con 24 lingue ufficiali e oltre 60 minoranze linguistiche. I dati elaborati in Spagna sul mercato editoriale rispetto alle diverse lingue regionali dimostrano come l’87% della produzione editoriale nel 2019 sia stata in lingua spagnola, seguita dal catalano ma con appena l’8,3% di pubblicazioni (Grafico 1). Naturalmente in questo caso il mercato editoriale è allineato con la composizione della popolazione spagnola dal punto di vista linguistico, ma è interessante notare come gli abitanti della Catalogna, per esempio, considerino per il 38,3% il catalano la loro lingua madre e per il 12,4% in egual misura il catalano e lo spagnolo, a fronte di un 47,5% che considera invece lo spagnolo come lingua madre. Altrettanto rilevante è il dato sui Paesi Baschi secondo il quale gli editori medio-piccoli rappresentano la maggioranza dei privati che pubblicano in lingua basca (Grafico 2).
L’UNESCO elabora una banca dati con le lingue a rischio di estinzione che include anche diverse lingue italiane e fin dalla sua costituzione nel 1945 attua politiche di sostegno alla diversità linguistica e culturale nei settori che rientrano nella sua mission. In Italia le minoranze linguistiche sono tutelate dalla legge 15 dicembre 1999, n. 482 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” che salvaguarda e valorizza la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. La legge stabilisce la necessità nelle regioni interessate di operare a tutela delle minoranze linguistiche nelle istituzioni scolastiche e universitarie, per le quali prevede “l’istituzione di corsi di lingua e cultura delle lingue di cui all’articolo 2, finalizzata ad agevolare la ricerca scientifica e le attività culturali e formative a sostegno delle finalità della presente legge”. Tuttavia, secondo i dati ISTAT relativi al 2019,21 la percentuale di produzione libraria in Italia è irrisoria nelle lingue minoritarie italiane, (prossima allo zero), e si situa intorno al 3,4% per altre lingue. Va un po’ meglio per le opere tradotte, la cui percentuale è del 17,3% della produzione libraria ma con una prevalenza netta di opere tradotte dalla lingua originale inglese (9,8%), seguita dal francese (2,5%) e per il resto dall’insieme delle altre lingue.
Le lingue sono strettamente legate alla società di cui sono riflesso e nella quale si riflettono, e in particolare le caratteristiche linguistiche possono rappresentare il più importante criterio che definisce l’appartenenza a un gruppo etnico. Dunque, dalla lingua passano la definizione dell’identità culturale e le possibilità di integrazione sociale, attraverso la comunicazione e l’istruzione. Le iniziative di salvaguardia linguistica cominciano ora a essere numerose, anche grazie alle possibilità offerte dalle tecnologie digitali, e coinvolgono le associazioni bibliotecarie. La rete European Language Equality Network (ELEN), creata nel 2011 come prosecuzione di un progetto precedentemente esistente, ha lo scopo di promozione e salvaguardia delle lingue meno usate, regionali, di minoranze, di nazioni bilingue o plurilingue, di nazioni più piccole e meno influenti. Si tratta di 44 lingue, diverse delle quali a rischio di scomparsa, parlate da 50 milioni di persone, pari al 10% della popolazione dell’Unione europea, disseminate in 18 stati. Tra queste lingue troviamo il basco in Spagna, il bretone il Francia e il sardo in Italia. Tra i progetti recenti di ELEN vi è il Digital Language Diversity Project, finanziato nell’ambito dell’azione Erasmus+, che è rivolto a favorire il raggiungimento dell’equità linguistica attraverso i canali digitali. Si tratta di un vasto programma di raccolta ed elaborazione dati, formazione ed emanazione di linee guida per supportare i parlanti delle lingue meno diffuse all’uso degli strumenti digitali e alla produzione di contenuti digitali nelle loro lingue. La delimitazione temporale è il 2030, in linea con le raccomandazioni dell’Agenda ONU, poiché in altri termini si tratta di azioni rivolte alla sostenibilità linguistica che è implicita in molti degli SDGs. Il progetto ELE (European Language Equality), a cui collabora l’associazione internazionale di biblioteche universitarie e della ricerca LIBER (Ligue des Bibliothèques Européennes de Recherche), ha l’obiettivo di raggiungere la parità linguistica ed è particolarmente rivolto alle tecnologie e all’intelligenza artificiale.
Gli sforzi dell’UNESCO sono andati in questa direzione fin dagli anni Sessanta e Settanta, portando alla proclamazione del 1972 come anno internazionale del libro (ricorrenza che, nel 1996, diventerà ufficiale con la Giornata internazionale del libro), ma non sono riusciti a far avviare quella riflessione e quell’azione necessaria al processo di alfabetizzazione universale e democratizzazione culturale come motore per lo sviluppo economico e politico, in particolare nei paesi del sud globale. Sarah Brouillette offre un’interpretazione interessante e condivisibile sulle motivazioni per le quali gli innumerevoli sforzi dell’UNESCO non sono riusciti ad aprire la strada verso una riflessione profonda sul ruolo del libro come agente di sviluppo culturale ed economico e sulla relazione tra alfabetizzazione e sviluppo e, viceversa, tra analfabetismo e sottosviluppo. Secondo Brouillette, il mondo culturale occidentale è stato troppo ripiegato su sé stesso e gli stessi storici del libro sono talmente incardinati nel sistema occidentale incentrato sul ruolo preponderante dell’editoria privata e sulle specifiche dinamiche capitalistiche del mercato del libro da aver proposto teorie e modelli sempre e solo rivolti ad analizzare tali dinamiche, internamente e in una prospettiva indirizzata al passato, non contemplando né realtà alternative e diverse né aperture e proiezioni verso scenari futuri. Modelli di studio della storia del libro moderno che intendano contemplare un approccio globale, aggiunge Brouillette, dovrebbero includere l’operato delle organizzazioni internazionali quali l’UNESCO, le agenzie nazionali come il British Council, le organizzazioni professionali come l’Associazione internazionale degli editori, agenzie di aiuto come la United States Agency for International Development (USAID) o la World Bank che sempre in quegli anni aveva allo studio metodi per supportare l’industria del libro nei paesi in via di sviluppo.
Le azioni di queste organizzazioni negli anni Sessanta e Settanta hanno spesso portato all’esportazione, o anche donazione, di libri da parte degli editori, ma raramente si sono considerate le barriere linguistiche e la necessità di quei paesi di leggere libri nelle lingue locali e non nelle lingue coloniali. In generale non si è mai riusciti – né si è mai tentato in maniera sistematica – di risolvere quella che un report voluto dall’UNESCO nel 1973 definiva “book hunger”, la fame di libri. Dal rapporto emergono chiaramente l’attenta analisi della situazione e i conseguenti tentativi dell’UNESCO di avviare un programma globale con incontri di esperti in Africa, Asia e America Latina tra il 1966 e il 1969, che portarono a individuare bisogni specifici: libri tecnici, libri didattici, libri per bambini, storie per adulti e libri religiosi. Quello svolto dall’UNESCO negli anni Sessanta e Settanta e sintetizzato nel report è un lavoro di grande importanza per sostenere e promuovere la diffusione del libro nei paesi che “hanno un bisogno cocente di alfabetizzazione e istruzione” e poter ottenere in questo modo un avanzamento nella scienza e nella tecnologia. Il rapporto prevedeva ovviamente un ruolo centrale per le biblioteche poiché lo sviluppo di reti bibliotecarie avrebbe dovuto avere la massima priorità sia per ragioni educative che sociali, ammoniva l’UNESCO. Le biblioteche non solo consentono ai tanti che non hanno la possibilità di acquistare i libri di prenderli in prestito, ma favoriscono la nascita dell’abitudine alla lettura, allo studio. Il report aggiungeva la considerazione che invece le biblioteche, di qualsiasi genere (pubbliche, universitarie, nazionali) nei paesi in via di sviluppo erano purtroppo molto poche e inadeguate. Questa è la principale causa della fame di libri. L’approccio dell’UNESCO nel rapporto era rivolto alla creazione di infrastrutture bibliotecarie, editoriali, scolastiche e di un sostegno affinché i paesi del sud del mondo potessero essere messi in grado di svilupparle internamente. Al contrario, il tutto si è risolto in una serie di aiuti, finanziari o anche donazioni di libri, che rivestono sempre carattere di estemporaneità, e non solo non consentono di risolvere i problemi alla radice ma, tamponando la situazione temporaneamente, fanno accantonare la necessità di creare delle infrastrutture. Gli ostacoli sono sia economici, cioè la mancanza di investimenti, sia politici, poiché solo attraverso il coinvolgimento dei governi locali si può sperare di cambiare la situazione. Mentre la pressione esterna sui governi riesce a volte a spingerli a compiere qualche azione politica o sociale rivolta a creare sviluppo interno, questo non avviene per il libro e la cultura. Nonostante i numerosi appelli degli operatori locali per cercare di sostenere l’industria editoriale locale invece di donare libri, la via verso uno sviluppo culturale interno non è stata ancora aperta in maniera adeguata. Le organizzazioni locali, come l’African Books Collective, un’associazione senza scopo di lucro per la distribuzione dei libri pubblicati in Africa sul mercato internazionale, hanno più volte richiamato la necessità di operare in maniera diversa, non pensando di trasferire modelli occidentali, e spiegato come in Africa ci sia una produzione editoriale, ci siano editori e lettori, ma in una situazione che deve essere rafforzata e sostenuta dall’interno. Il dibattito biblioteconomico di quegli anni abbraccia l’azione dell’UNESCO, supportata dall’IFLA, e le spinte verso un’alfabetizzazione globale e il sostegno allo sviluppo culturale basato sulle biblioteche, in particolare in ambito anglosassone e nei paesi che uscivano da un passato colonialista. In quegli anni emergono i concetti di “biblioteconomia globale” e di “libri senza frontiere” e tra i bibliotecari e biblioteconomi si diffonde l’ideale dell’informazione e della conoscenza come legame forte in grado di unire i popoli a livello globale, democratizzare, scongiurare i conflitti. Sebbene spesso questo slancio risentisse – a volte inconsapevolmente – dell’approccio generale postcoloniale secondo il quale “modernizzare” i popoli del sud globale corrispondesse a renderli simili al nord globale capitalista, incluso il modello biblioteca, questa apertura avviò un rapporto di scambio importante con gli altri paesi, un’apertura generale all’internazionalizzazione del mondo bibliotecario e della biblioteconomia. Al dibattito internazionale parteciparono in questi anni molti bibliotecari del sud globale, tra i quali Shiyali Ramamrita Ranganathan, convinto sostenitore dell’importanza delle biblioteche per la costruzione dell’identità nazionale postcoloniale.
La teoria si tradusse nella pratica con un programma di creazione di “biblioteche modello” voluto dall’UNESCO e avviato nei paesi privi di servizi bibliotecari o con servizi bibliotecari non molto sviluppati. Nacquero quindi le biblioteche pubbliche di Delhi in India, Enugu in Nigeria e Medellín in Colombia. Il primo di questi progetti, a Delhi, fu proposto nel 1949 e la biblioteca realizzata nel 1950, presieduta da un comitato di undici esperti, tra i quali Ranganathan, allora presidente dell’Indian Library Association. Nei primi sei mesi di apertura la biblioteca raggiunse seimila utenti e il rapporto UNESCO del 1957 descrive il successo del progetto. Tuttavia, i problemi non tardarono a emergere e ci offrono una chiara indicazione di come per queste culture la costruzione delle raccolte basata su strumenti e abitudini occidentali non possa essere efficace poiché non tiene in considerazione le strutture sociali e le abitudini culturali diverse. La questione cruciale per la biblioteca pubblica di Delhi era innanzitutto legata agli utenti, poiché la popolazione era caratterizzata da un alto analfabetismo e i frequentatori erano perlopiù occasionali e in maggioranza uomini. Inoltre, in India vi sono molte lingue e le collezioni erano principalmente in inglese e in hindi, con una parte in urdu, ma le altre lingue non erano rappresentate. Le indagini specifiche sull’utenza di quella biblioteca avevano fatto emergere discrepanze nella costruzione delle collezioni tra ciò che i bibliotecari ed esperti occidentali avevano pensato potesse essere d’interesse e ciò che invece i lettori indiani consideravano d’interesse. La preferenza manifestata dai lettori nell’ambito della letteratura per i romanzi d’amore viene considerata “deplorevole” da uno dei membri del consiglio. Anche il modo in cui gli utenti sceglievano i libri da leggere mostrava una differenza sostanziale con le pratiche occidentali. La scelta autonoma e il suggerimento degli amici erano le motivazioni principali dichiarate, mentre pochissimi avevano individuato le recensioni come fonte di informazione sui libri e ancor meno la radio o la televisione. Inoltre, la novità bibliografica non attirava particolarmente i lettori indiani e il nome dell’autore era più importante dell’argomento del libro. Differenze di comportamento legate a un diverso modo di approcciarsi al mondo e alla conoscenza in generale. Se spostiamo il discorso sulle risorse internet, le considerazioni non cambiano. La Rete è dominata dalla lingua inglese, sebbene in misura decrescente grazie all’incremento della diffusione delle tecnologie informatiche in paesi come la Cina o i paesi arabi. I risultati di alcune analisi sulla lingua di internet compiute all’inizio degli anni 2000 mostravano una percentuale tra il 70% e l’80% di pagine in inglese, che in anni recenti sono scese al 40%-50%. Tuttavia, il punto cruciale è che i motori di ricerca indicizzano meno del 30% del web visibile e ciò che indicizzano è prevalentemente in inglese, perché quei siti rendono di più in termini di vendita della pubblicità. Per rimanere sul caso dell’India, i dati dimostrano come almeno tre quarti della popolazione indiana preferiscano e cerchino contenuti nella loro lingua madre e non in inglese, che pure è la seconda lingua ufficiale del paese dopo l’hindi. Ma entrambe le due lingue ufficiali non sono parlate da tutti gli indiani e anche l’hindi non rappresenta la varietà e diversità linguistica del paese la cui Costituzione individua 22 lingue ufficiali, a cui peraltro si aggiungono migliaia di dialetti locali. Per tale ragione Google offre oggi la sua interfaccia del motore di ricerca in nove lingue indiane diverse e per un totale di 120 lingue nel mondo. Wikipedia, uno dei casi più riusciti di risorsa aperta informativa, ha compreso da subito come il monolinguismo fosse un ostacolo e ha creato contenuti in lingue diverse che oggi raggiungono il numero di trecento. In linea generale, i colossi del web si stanno muovendo nella direzione della decolonizzazione linguistica: naturalmente lo fanno principalmente per i loro interessi commerciali, poiché si tratta di mercati ancora da esplorare, ma la creazione di strumenti digitali nelle lingue locali è comunque un modo per favorire la transizione dal mondo analogico a quello digitale. I bibliotecari sono tra coloro che possono fare molto per la bibliodiversità delle collezioni cartacee e digitali che le renda inclusive, plurali, eque e democratiche. Sia ben chiaro che non stiamo parlando di epurazione delle collezioni da documenti che si ritengono non in linea con una certa ideologia o non rispettosi della pluralità, ma proprio del contrario, di rappresentare tutte le voci in modo che il cittadino possa costruirsi un pensiero critico e soprattutto di cercare di dare voce a coloro che storicamente ne sono stati privati perché abitanti del sud del mondo colonizzato, perché donne, di colore. Non si tratta nemmeno solo di creare una raccolta plurilingue, che è certo un aspetto essenziale. Si tratta piuttosto di tenere in considerazione tutte le questioni collegate alla decolonizzazione, dagli aspetti linguistici a quelli relativi ai diritti civili, e di divenire consapevoli di come vi siano voci che tendono ad essere più forti e a coprire le altre, di come il mondo culturale e quindi anche della produzione libraria sia dominato dalla voce bianca maschile del nord del mondo.
Significa, per esempio, essere consapevoli che la distribuzione generale di fornitori e librerie non è scevra da tale rischio, e che procedure automatizzate come le Demand Driven Acquisitions (DDA) o Patron Driven Acquisitions (PDA), oltre ai vari altri problemi, presentano anche questo genere di possibile criticità. La “colonizzazione” del mondo editoriale riguarda infatti le scelte di scrittori ed editori prima ancora che dei bibliotecari. La selezione documentaria è soggetta a bias importanti che si sovrappongono e di cui i bibliotecari devono essere consapevoli per cercare di bilanciarli e di porvi rimedio. È esemplare il caso della biblioteca del Centro di studi africani dell’Università di Leida raccontato dal suo direttore. Una mappatura delle collezioni della biblioteca, com’è ovvio specializzata in studi sull’Africa e sull’Asia, ha rilevato come oltre il 90% delle collezioni provenisse dal nord globale. Analogo il risultato di un’analisi sulle collezioni della biblioteca della London School of Economics, compiuta tramite il loro Library Management System sulla collezione riservata per la didattica, sulla collezione principale di libri e sulla collezione principale di periodici. Nella collezione per la didattica il 98,44% di titoli sono pubblicati nel nord globale e ben il 93,7% in soli due paesi, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. La collezione di monografie è per il 92,76% composta da pubblicazioni del nord globale e la collezione di periodici per 94,44%. Proprio come per il caso della biblioteca di Leida, anche le sezioni che teoricamente dovrebbero esserlo di più si sono dimostrate poco bibliodiverse: la sezione delle collezioni dedicate agli studi sull’Asia per l’86,33% include pubblicazioni del nord globale, anche in questo caso con una stragrande maggioranza (71,41%) provenienti dalle sole Gran Bretagna e Stati Uniti, così come la sezione sulla Storia dell’Africa per l’82,28% e la sezione sull’America Latina al 69,17%. L’analisi si è poi estesa alle bibliografie dei corsi per riscontrare come il 98,38% delle pubblicazioni incluse nelle bibliografie provenissero dal nord globale. Ma le bibliografie sono in gran parte basate sui libri presenti nelle collezioni della biblioteca e ciò ha portato alla necessità di riconsiderare la politica delle collezioni e rivedere completamente la carta delle collezioni per includere principi di diversità e inclusività nello sviluppo delle raccolte. Nell’articolo vengono poi elencate le principali linee di azione che vale la pena riportare sinteticamente: un impegno verso l’inclusività nella carta delle collezioni; cercare di acquistare da fornitori nuovi, soprattutto basati in Africa o Asia; migliorare la discoverability con un maggior controllo rispetto all’imparzialità dei sistemi di classificazione, dei cataloghi e dei discovery tools; lavorare con i docenti per la costruzione di bibliografie diverse e inclusive; lavorare con stakeholders esterni per la revisione della carta delle collezioni in modo da indirizzarla nella direzione giusta e, infine, confrontarsi con le numerose altre biblioteche che nel Regno Unito stanno lavorando alla decolonizzazione.
Decolonizzare la catalogazione
Il tema dell’imparzialità dei sistemi di classificazione e dei cataloghi è ben noto ed è fondamentale, in quanto essi rappresentano il linguaggio tramite il quale le raccolte si interfacciano con gli utenti. Il discorso sulla decolonizzazione in biblioteca ha implicazioni su tutte le attività ed è strettamente collegato alla dimensione etica del lavoro bibliotecario. Tuttavia, come indicato dal titolo di questo contributo, l’enfasi vuole essere sulle collezioni documentarie, anche perché la trattazione completa dell’argomento estesa a tutte le attività bibliotecarie richiederebbe spazi ben più ampi. Un solo breve cenno alla catalogazione è doveroso per il legame stretto che l’attività di catalogazione mantiene con le raccolte e con la loro discoverability.
Il lavoro dell’UNESCO e delle organizzazioni internazionali nel dopoguerra per creare biblioteche nei paesi del sud globale, partendo però da modelli occidentali, mostrava limitazioni importanti non solo in relazione alla costruzione delle raccolte ma anche in termini di classificazione come linguaggio universale di scambio bibliografico internazionale e strumento concreto per sviluppare le bibliografie nazionali. Le classificazioni in uso nel mondo occidentale, come la Dewey, risentono di una forte impostazione WASP (White Anglo-Saxon Protestant) del suo creatore e del contesto geografico e temporale in cui è nata. La figura di Melvil Dewey è stata recentemente riconsiderata dalla stessa American Library Association che lui stesso aveva fondato nel 1876. Si nota facilmente lo spazio limitato che il mondo “altro” detiene nelle classi della DDC dove la filosofia, la religione, le lingue, le letterature, la storia dei paesi non bianchi occidentali sono relegate a un insieme generico come, per esempio, in 290 Altre religioni e religione comparata, 490 Altre lingue, 890 Letterature in altre lingue. Ovviamente non si può negare come ciò sia ascrivibile non soltanto alla persona che l’ha creata ma più in generale al contesto della realtà ottocentesca in cui è nata, molto lontana dalla globalizzazione culturale attuale e dalla società multietnica odierna.
In ogni caso, si tratta di un modo specifico di organizzare la conoscenza, non universale. Al di là dei bias, pensiamo la DDC a confronto con un sistema come la classificazione Colon, che è fortemente connotata in base alla cultura e al pensiero indiano. La strutturazione in cinque faccette – Personality (personalità o entità o cosa), Matter (materia o materiale o proprietà), Energy (energia o processo, operazione, azione), Space (spazio), Time (tempo) – non è solo un modo per classificare il materiale bibliografico, ma la struttura attraverso la quale la cultura e la filosofia indiana guardano a qualsiasi oggetto o avvenimento della vita. Nelle culture orientali ciò che conta sono le relazioni più che la rappresentazione dell’oggetto o avvenimento. Questi limiti posti dai sistemi di organizzazione della conoscenza occidentali hanno rappresentato un forte condizionamento per i progetti dell’UNESCO di cui si è parlato. Come osservato da qualcuno, “non c’era abbastanza spazio per l’Africa” né per altri continenti diversi dall’Europa e Nord America. Non solo, infatti, l’approccio alla classificazione del sapere è completamente diverso, ma volendo utilizzare quella occidentale è evidente come non si riesca a rappresentare efficacemente il mondo orientale.
Ai giorni nostri, i principi etici alla base della catalogazione sono diventati imprescindibili e richiedono di operare in maniera completa e imparziale e senza pregiudizi o forme di censura, in quanto “se qualcosa ‘va storto’ nella fase iniziale del processo, cercare soluzioni a valle risulta molto difficile se non impossibile; in altre parole se indicizzo semanticamente in modo approssimativo o con condizionamenti, questo si riflette nelle possibilità di ricerca che offro a tutti, indistintamente”. Come per la selezione dei documenti, e per tutte le altre attività bibliotecarie, anche per la catalogazione è difficile pensare che possa essere neutra.
Di conseguenza, i limiti negli strumenti di organizzazione della conoscenza cominciano ad emergere in maniera preponderante e ad essere analizzati ampiamente allo scopo di modificarli o perlomeno di cercare di contenerne gli effetti negativi. Un caso emblematico divenuto il classico caso studio nel mondo anglosassone è l’intestazione “illegal aliens” presente nella Library of Congress Subject Headings (LCSH) per indicare “persone che non sono cittadini del paese in cui vivono”. La portata di un preconcetto di questo genere, soprattutto nell’associazione con l’illegalità, ha generato un grosso movimento professionale e sociale per cambiare l’intestazione. Ma i casi nella LCSH sono molti altri, così come in tutti i sistemi di organizzazione documentaria. Lucia Sardo riporta diversi esempi di bias nella soggettazione in termini di genere, orientamento sessuale, età, etnia, razza, lingua, religione in ambito italiano. In molti casi, la ragione è che i sistemi di indicizzazione non riescono a stare al passo con i cambiamenti delle lingue, per cui termini che erano accettabili in passato oggi non lo sono più, oppure hanno assunto connotazioni negative. Ne sono esempi i termini legati alle diverse abilità o alle popolazioni afrodiscendenti. Ma anche quando il sistema di indicizzazione accoglie l’esigenza di cambiamento i tempi sono lunghi, come avviene per un termine quale “negri” che sebbene sia considerato termine non preferito dal soggettario della BNCF, continua a comparire in SBN.
In ogni caso, tanto si sta muovendo in ambito catalografico sul fronte della decolonizzazione. L’evoluzione delle norme catalografiche ha tenuto conto di tali necessità e soprattutto delle possibilità in tal senso offerte dalla catalogazione automatizzata odierna che consente molti possibili punti di accesso alle risorse. Per esempio da strumenti come VIAF, basato sul concetto di un identificatore a cui le diverse forme del nome nell’intestazione sono collegate. Tra queste, si sceglie la forma preferita a livello di cluster nazionale e quindi sulla base delle diverse esigenze culturali, per cui tale forma diventa “il punto d’accesso autorizzato (ovvero sottoposto ad authority control) all’interno di un contesto linguistico e culturale; la forma del nome, quindi, può variare tra un catalogo che si rivolge a lettori giapponesi e un catalogo che si rivolge a lettori russi, cinesi, croati o italiani”. Il nome viene dunque adattato alle esigenze linguistiche e culturali delle diverse nazioni e le varianti sono ricondotte all’unitarietà tramite l’identificatore dell’entità e quindi collegate tra loro in modo da mantenere unite le forme varianti ai fini della standardizzazione e interoperabilità dei cataloghi e naturalmente del controllo bibliografico universale.
A gennaio 2021 un comitato direttivo composto da rappresentanti delle principali associazioni bibliotecarie nazionali anglofone, l’ALA (American Library Association), la britannica CILIP (Chartered Institute of Library and Information Professionals) e la canadese CFLA-FCAB (Canadian Federation of Library Associations), ha rilasciato un codice etico per la catalogazione. La catalogazione critica, come parte della biblioteconomia critica, si focalizza sulla comprensione e sui modi per cambiare le strutture con cui i sistemi di organizzazione della conoscenza usati dai bibliotecari codificano forme di oppressione, sia consapevolmente che inconsapevolmente. Il codice etico di cui sopra parte dal presupposto che gli standard e le pratiche catalografiche siano caratterizzate, oggi e storicamente, da razzismo, supremazia bianca, colonialismo, discriminazioni e altre forme di oppressione. Questo determina barriere alla conoscenza che la catalogazione critica cerca di risolvere favorendo, al contrario, l’accesso e l’accessibilità a risorse inclusive e ai metadati sulle risorse.
Decolonizzazione e open access
La crescita degli studi sulla decolonizzazione negli anni Novanta coincide con la nascita e sviluppo del World Wide Web. L’apparente promessa di democratizzazione che internet portava con sé ha rivelato presto il risvolto della medaglia, ovvero le numerose barriere che invece le tecnologie digitali potevano creare, tra cui i paywall. Il movimento open access è nato proprio per abbattere i paywall che chiudono le risorse informative dietro muri che si possono travalicare solo pagando un abbonamento. I paywall dividono i paesi del nord globale dai paesi del sud globale, e anche all’interno dei singoli continenti o delle singole nazioni separano le istituzioni più ricche e le istituzioni più povere. Ma la strada che il movimento open access sta percorrendo si dirige davvero verso la decolonizzazione? Ci si chiede a più voci se l’open access sia veramente sempre “open” per tutti. La risposta è ovviamente no, poiché l’attuale modello contrattuale prevalente per l’accesso aperto sposta soltanto il problema del paywall, dal lettore all’autore, ma non lo risolve. In altri termini, i modelli contrattuali che prevedono il pagamento di APC continuano a rappresentare una barriera per coloro che non possono permettersi di pagare per pubblicare e che non hanno alle spalle un’istituzione che possa farlo. L’infrastruttura editoriale rimane ancora nelle mani degli stessi grossi editori e dunque, pur cambiando il modello contrattuale, i rapporti di potere non cambiano. Poiché “la visibilità è una forma di potere”, anche decidere cosa possa diventare open access e quindi ampiamente e universalmente visibile significa esercitare questo potere.
Un’analisi significativa è stata condotta da Laura Francabandera sulla presenza di autrici nere nelle riviste scientifiche. La ricerca è stata svolta combinando i parametri di ricerca “business” e “black woman” (incluse le varianti black women, African-American women ecc.), nell’abstract e nel full-text, sia in un database con sottoscrizione a pagamento sia nella Directory of Open Access Journals. La scelta della parola “business” è determinata dalla sua associazione ai concetti di “uomo” e “bianco” e quindi a una forma di colonizzazione duplice, maschile e bianca. Il risultato della ricerca conferma tale connotazione poiché ha restituito una percentuale dello 0,011% (401 articoli su 3.946.155) per il database a pagamento ma una percentuale del tutto analoga per DOAJ, pari allo 0,013% (11 articoli su 82.552). Il risultato mostra quindi che sia nel database a pagamento sia in DOAJ vi siano poche pubblicazioni che si riferiscano a donne nere in relazione al concetto di “business”, che continua quindi a essere considerato bianco e maschile.
Il passaggio a modelli open access che chiedono il pagamento di APC non potrà che ulteriormente consolidare questa situazione. La soluzione non è affatto facile e scontata e passa per molteplici vie possibili, dalla creazione di percorsi privilegiati e facilitati per gli autori marginalizzati, anche rispetto al pagamento di APC, alle attività che le biblioteche possono compiere, in collaborazione con altre istituzioni e anche con gli editori, per promuovere forme di pubblicazione eque e sostenibili. Ci si domanda ormai se le biblioteche debbano aderire a modelli basati sul pagamento di APC o piuttosto non dedicare fondi ed energie ad altro genere di acquisizioni.
Le voci dei paesi del sud del mondo si levano per ribadire come molti ricercatori non siano in grado di sostenere pagamenti di APC che arrivano fino a quasi diecimila dollari. La questione è complessa poiché riguarda l’esclusione di questi paesi anche dai sistemi di ranking internazionale, dai meccanismi di valutazione basati sulle citazioni in quanto le loro pubblicazioni sono poco presenti nelle banche dati come Scopus e Web of Science. Semplicemente questi paesi non possono permettersi di accedere alle banche dati a pagamento e quindi di entrare a far parte dei meccanismi che attualmente regolano il mondo della ricerca scientifica. Quando possono, utilizzano piuttosto vie alternative che sono repositories e piattaforme locali, nazionali o sovranazionali che minano il sistema occidentale in uso e rappresentano una minaccia, molto più temibile dei contratti trasformativi basati sulle APC, per i grossi colossi editoriali del nord del mondo. In Africa si sta realizzando una piattaforma continentale per ovviare alla concentrazione del potere editoriale nel nord del mondo e per favorire la democratizzazione della produzione scientifica, attraverso l’iniziativa di collaborazione tra le reti accademiche nazionali africane LIBSENSE, nata nel 2016. La piattaforma opererà con un processo di peer-review formale, molto simile al processo di pubblicazione tradizionale e si va ad aggiungere alle diverse piattaforme che sono nate e si sono sviluppate nei paesi del sud del mondo, come AmeliCA e SciELO in Sud America. In India esiste un repository nazionale di preprint, IndiaRxiv. La Cina ha superato gli Stati Uniti conquistando il primo posto per numero di pubblicazioni scientifiche al mondo e sta cercando di trasformarsi in una potenza editoriale per la ricerca scientifica. Da questi fronti arrivano le preoccupazioni per i grossi colossi editoriali del nord del mondo che attualmente detengono il potere editoriale.
Difatti, è notizia recente l’azione di Elsevier che in India ha chiesto la chiusura di due siti che raccolgono e rendono disponibili (in maniera non sempre lecita, va detto), le pubblicazioni scientifiche, come Sci-Hub e LibGen, generando la protesta di molti ricercatori. Eppure i dati sui siti come Sci-Hub e LibGen mostrano come vi siano paesi del nord del mondo, prima di tutto gli Stati Uniti, che utilizzano questi strumenti molto più dell’India. Dunque non si tratta solo di questo. Il punto è che alcuni paesi sono fuori dalla cultura del publish or perish, sono fuori dalle dinamiche che obbligano gli atenei ad acquisire le banche dati con i periodici digitali in cui scrivono i loro docenti pagandole cifre alte e in costante aumento e subendo i modelli imposti dagli editori, sono fuori dal sistema basato sulle citazioni e sui ranking che costringe gli atenei a comprare le banche dati citazionali. Non hanno nessuna motivazione per dover contare il numero di citazioni o pagare migliaia di dollari per le APC e dunque stanno costruendo modelli alternativi, decolonizzati.
Un rischio che gli editori stanno provando a scongiurare, cercando di espandersi con i loro modelli in quelle aree. È notizia recente la discussa acquisizione dell’editore Hindawi da parte di Wiley che per alcuni avrebbe come motivazione proprio entrare in possesso di un grosso pacchetto di riviste cinesi, peraltro in gran parte ad accesso aperto. Hindawi, casa editrice scientifica fondata a Il Cairo nel 1997, ha convertito fin dai primi anni 2000 tutto il suo catalogo in open access, ma la sua storia presenta molti aspetti controversi poiché è stata sospettata di favorire l’editoria predatoria. Oltre il 65% degli autori che pubblicano sulle riviste di Hindawi vivono e lavorano in Cina.
Non vi sono dubbi sulle intenzioni dei grossi editori del nord del mondo di conquistare il nuovo mercato rappresentato dal sud del mondo. La ricerca scientifica dovrebbe spostarsi dalla competizione generata dalla cultura del publish or perish in modo da poter far entrare voci diverse, e affrontare insieme le sfide e la complessità. Le biblioteche delle università, così come tutte le altre, devono lavorare in questo senso, usare il digitale, l’accesso aperto, la scienza aperta per aumentare la sostenibilità, la pluralità, l’equità delle collezioni. In una parola, decolonizzare. In questa trattazione si sono presentate alcune delle linee portanti, anche in prospettiva storica, lungo le quali si colloca la relazione delle biblioteche con la decolonizzazione. L’argomento tocca la natura profonda del servizio bibliotecario e necessiterà di certo di ulteriori approfondimenti e ricognizioni.