N.7 2024 - Biblioteche oggi | Ottobre 2024

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Le apocalissi della memoria e del ricordo

Rocco Ronchi

Professore ordinario di Filosofia teoretica Università degli Studi dell’Aquila rocco.ronchi@univaq.it

Abstract

L'apocalisse culturale rappresenta per una comunità umana, secondo l'antropologo Ernesto De Martino, il culmine della "crisi della presenza" e della "perdita del mondo". Nel mio intervento distinguerò due modalità di apocalisse culturale: quella che compromette la memoria, lasciandoci alla mercé di una memoria senza oggetti, e quella che liquida la memoria, lasciandoci alla mercé di memorie meccaniche depositate su fili elettronici impersonali. La prima è un'apocalisse analogica, la seconda un'apocalisse digitale. La funzione farmacologica dell'“archivio” consiste quindi nel tentare di colmare questa frattura, legando memoria a memoria e restituendo alle affermazioni il loro orizzonte di significato.

English abstract

The cultural apocalypse represents for a human community, according to the anthropologist Ernesto De Martino, the summit of the “crisis of presence” and the “loss of the world”. In my speech I will distinguish two modes of cultural apocalypse: the one that compromises memory, leaving us at the mercy of an objectless memory, and the one that liquidates memory, leaving us at the mercy of mechanical memories deposited on impersonal electronic strings. The first is an analog apocalypse, the second a digital apocalypse. The pharmacological function of the “archive” then consists in attempting to bridge this fracture, linking memory to memory and giving the statements back their horizon of meaning.

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Le apocalissi della memoria e del ricordo

In filosofia, quando si parla di “archivio”, si pensa, in genere, a quello che Umberto Eco nel 1974 chiamava “l’enciclopedia” o a quello che Michel Foucault, ancora qualche anno prima, nell’Archeologia del sapere, aveva definito “a priori storico”. Il filosofo, quando parla di archivio, si riferisce generalmente alla dimensione del “simbolico”, intendendo con questo termine la sfera di una cultura condivisa dal tratto prescrittivo.

Per il filosofo, l’archivio è un insieme di procedure che determinano, come scriveva Foucault, ciò che può essere detto in una determinata epoca. L’archivio si presenta, insomma, con un tratto classicamente “trascendentale”, ereditando gli aspetti costitutivi che nella filosofia kantiana erano prerogativa dell’Io penso. Quando in filosofia si parla di archivio, si utilizza dunque una concezione estremamente allargata della nozione. Io, invece, farò riferimento a una concezione ristretta di archivio, una concezione molto più pragmatica, che è quella che poi è emersa anche nella discussione che mi ha preceduto. Vorrei infatti pensare l’archivio come una prassi, vorrei pensare l’“archivistica”. Prenderò le mosse, dunque, dall’urgenza che è all’origine di questa prassi, dal “bisogno” di archivio. Qual è, mi chiedo, la “causa” dell’archivio?

Propongo una definizione semplicissima di archivio che, però, è anche la definizione etimologicamente più consona. L’archivio è innanzitutto un luogo nel quale si istituisce un ordine: un ordine che riguarda l’ambito della memoria e l’ambito del ricordo. I due termini, “memoria” e “ricordo”, pur essendo implicati, non sono sinonimi. Propongo poi come ipotesi di lavoro che l’idea stessa di un “archivio” abbia come sua genesi quanto Ernesto De Martino chiamava “apocalisse culturale”. Gli archivi nascono nell’orizzonte dell’apocalisse. Si fanno archivi nella misura in cui si sperimenta la fragilità della memoria e la difficoltà per i ricordi di mantenersi. È nell’orizzonte di un oblio sempre imminente che nasce il bisogno e direi, anzi, la necessità di fare archivio. L’affermazione sembra un truismo: chi può negare infatti che l’archivio nasca per arginare l’oblio? Bisogna però fare chiarezza sulla natura di questo oblio, di cui l’archivio è sicuramente un rimedio.

L’archivio nasce da un oblio di natura particolare che l’antropologo Ernesto De Martino chiamava “crisi della presenza”. Quando De Martino parlava di “crisi della presenza” intendeva un’apocalisse culturale, cioè la perdita improvvisa per un individuo o per una comunità della “significatività” del “mondo”. De Martino parlava la lingua dell’analitica esistenziale di Heidegger e della psichiatria fenomenologica che a quel pensiero si ispirava. A differenza degli enti difformi da noi, piante, animali, formicai, noi siamo “presenza al mondo”, il mondo ci è dato “già da sempre” con una sua significatività. Ora, questa significatività è esattamente quella idea generalissima di archivio che è propria dell’“enciclopedia” di Eco o dell’archeologia foucaultiana. La “presenza” tramonta quando viene meno l’archivio nel senso del simbolico. I significati che danno ordine alla nostra vita individuale e collettiva allora sfumano e resta un senso di inquietante estraneità. La mia ipotesi è che il problema dell’archivio, nel senso ristretto del luogo dove fare ordine, si pone proprio per scongiurare questa “crisi della presenza”. Aggiungo che è una decisione sostanzialmente “politica” quella che guida l’archivio, perché è sempre un momento instaurativo a costituire l’archivio nell’orizzonte della crisi del simbolico.

L’archivio è una reazione difensiva all’apocalisse. L’archivio è un’idea farmacologica, perché, per così dire, si propone come farmaco nei confronti di una crisi della presenza. Tale crisi viene esperita in due modi. Sono i due modi dell’oblio con cui si misura l’archivista che vuole produrre un phàrmakon, cioè un rimedio, a questa apocalisse. Ci sono infatti due sensi in cui si dice l’apocalisse. Il primo senso dell’apocalisse è enunciabile con una formula molto secca. La prima forma dell’apocalisse culturale è la produzione di una memoria senza ricordo. Non sto dicendo nulla di astratto. Faccio un esempio letterario di memoria senza ricordo: mi riferisco a quel passo meraviglioso di Proust nella Recherchein cui Marcel racconta che mentre scendeva in carrozza verso Hudimesnil aveva incrociato tre alberi al bordo 

della strada. Quella visione improvvisa gli aveva suscitato l’impressione del già visto. La sua memoria si era messa subito al lavoro e sembrava promettere mirabili scoperte sul passato. Marcel si chiede: “dove li ho già visti?”, perché “sente” di averli già visti. Ma il ricordo non affiora. C’è, insomma, memoria, c’è l’esperienza di una somiglianza, si vede qualcosa e si ha memoria di questo qualcosa – “li avevo già visti” – ma, per quanto metta in moto la macchina del ricordo, Marcel non riesce a identificarli. Per cui alla fine il narratore se li lascia alle spalle, con un’amara sensazione di delusione. I tre alberi si allontanano. Il loro “gesticolare” – Proust allude allo stormire delle foglie – sembra quasi un saluto d’addio e un rimprovero a lui rivolto, come se si fosse persa l’occasione di un riconoscimento e, con esso, la possibilità di un “tempo ritrovato”, che sappiamo essere per Proust l’immagine della sola felicità concessa a un mortale. Ecco, in questo caso siamo in presenza di una piccola apocalisse in cui c’è memoria ma non c’è ricordo; c’è somiglianza (quegli alberi assomigliano a qualcosa) ma non c’è referenza (non so a che cosa somigliano); c’è “senso” ma non c’è “significato” (se si utilizza la classica distinzione, cara ai logici, tra Sinn e Bedeutung, tra senso e referenza). Questa apocalisse è un’apocalisse sostanzialmente analogica. Perché la chiamo analogica? Perché dove c’è memoria ma non c’è ricordo (li ho già visti, ma non so dove), tutto tende ad assomigliare a tutto, proprio perché non c’è una referenza che blocca il divagare della memoria. Dove c’è memoria e non c’è ricordo, tutto somiglia potenzialmente a tutto. Il caos è di tipo analogico.

L’altro senso di “apocalisse culturale” è invece l’inverso di quello appena descritto. Se la prima è una memoria senza ricordo, dove tutto si confonde perché tutto è analogo a tutto senza essere identico (e quindi differente) a nulla, la seconda è un ricordo senza memoria. L’esperienza di un ricordo senza memoria ci introduce al grande tema della digitalizzazione dell’esperienza. Cos’è, infatti, un ricordo senza memoria? Per capire cos’è un ricordo senza memoria, bisogna proprio andare alla radice del problema con il quale noi oggi non possiamo non misurarci (non solo qui, riflettendo sull’archivio, ma ovunque si faccia una ricerca seria sulle pratiche culturali). L’intelligenza artificiale è infatti ricordo senza memoria. Per comprendere il senso di questa drastica affermazione, facciamo un salto indietro nel tempo e chiediamoci qual è stata la prima forma di intelligenza artificiale. Per “prima forma” intendo proprio il prototipo dell’intelligenza artificiale, ciò che ha reso materialmente possibile, pensabile e praticabile l’idea stessa di una replica tecnologica dell’intelligenza “naturale”. Dov’è che si è elaborato questo prototipo? Lo sappiamo: tutte le volte che si vogliono delle risposte sulle origini bisogna tornare a Platone. Nel nostro caso, bisogna ritornare alla critica che Platone mosse, nel Fedro e nella Settima lettera, a quella tecnologia di recente invenzione (per Platone) che era la tecnologia alfabetica.

Che cosa Platone critica della scrittura? Il fatto che la scrittura rende possibile una memoria artificiale, una memoria indipendente da un soggetto che l’abbia “alla prima persona”. È questo passaggio alla terza persona che permette l’algoritmo fondamentale che struttura la scrittura fonetica di tipo alfabetico. L’algoritmo alfabetico permette la produzione di immagini della voce che permangono indipendentemente dall’autore della voce, il quale si assenta dal proprio detto. Il locutore può anche morire. Il testo perdura. La scrittura è testamentaria per definizione. Di questa intelligenza artificiale, una cosa che colpiva, affascinava e inquietava l’immaginario greco (ma anche l’immaginario latino) era l’idea che, attraverso l’intelligenza artificiale della scrittura, si producesse di fatto un dialogo asimmetrico tra il vivo e il morto. Il vivo, leggendo ad alta voce (tale era infatti prevalentemente la lettura di una scriptio continua), era come alienato, privato della sua libertà, posseduto dalla voce demoniaca del morto. Il vivo si trovava a replicare automaticamente quello che il morto aveva depositato in segni. Abbiamo così non solo uno scambio di informazioni tra il passato e il presente, ma anche un dominio del passato sul presente. Ebbene, con la scrittura fonetica di tipo alfabetico siamo in presenza di una memoria artificiale al lavoro! Come è fatta, allora, una memoria artificiale? Platone, che in questo senso è un contemporaneo al quale rivolgersi per affrontare le problematiche della IA, risponde che ta grammata non sono un farmaco per la memoria (meme) ma per la hypòmnesis, vale a dire per quella memoria che non è memoria ma è la macchina astratta del ricordo, cioè per un ricordo che si può mantenere come ricordo indipendentemente da una memoria che lo articoli alla prima persona. Grazie alla scrittura, c’è, insomma, ricordo ma non c’è memoria.

L’apocalisse nella quale ci precipita un ricordo senza memoria non è più un’apocalisse analogica, ma è un’apocalisse digitale: ci sono ricordi che si dispongono tutti paradossalmente sullo stesso piano, senza profondità. Non è allora un caso se, nel momento in cui la tecnologia dell’IA generalizza questa apocalisse digitale, liberando i ricordi da una memoria personale che li comprenda, si producano fenomeni come quelli della cancel culture. Se infatti ci sono solo ricordi e viene meno una memoria che li articoli scandendoli nei loro valori assiologici e contestualizzandoli (quindi dando ad essi il significato che solo la memoria alla prima persona può fornire), se ci sono solo ricordi alla terza persona, evidentemente tutti questi ricordi atomici e irrelati si porranno sullo stesso piano, si equivarranno perfettamente. Quindi, il giudizio che potrà essere formulato su questi ricordi (sotto forma di monumenti ecc.) sarà un giudizio assolutamente astratto: il loro valore/disvalore dipenderà solo dal presente del soggetto giudicante. Era questo che Platone stigmatizzava nella scrittura alfabetica: la possibilità di un’apocalisse digitale in cui tutti i ricordi si equivalgono e non c’è più la possibilità di fare una selezione e un’interpretazione.

Ci sono dunque due sensi dell’apocalisse culturale: una memoria senza ricordo e l’apocalisse di un ricordo senza memoria, l’apocalisse di una somiglianza senza referenza (c’è senso ma non significato) e l’apocalisse di una referenza senza somiglianza (c’è significato ma non c’è senso). Se queste sono le due apocalissi che gravano sul nostro orizzonte (apocalisse della memoria e apocalisse del ricordo), da dove sorge il bisogno di archivio? La pratica archivistica, in fin dei conti, nasce nell’orizzonte di questa crisi, cioè nell’orizzonte dell’oblio possibile e sempre imminente, nell’orizzonte di una perdita di senso che minaccia il “mondo”. Essa è completamente intramata da questa urgenza. Dovremmo pertanto parlare non tanto di un “mal d’archivio”, come ha fatto Jacques Derrida in un celebre saggio, quanto piuttosto di una “angoscia d’archivio”. L’angoscia è, per così dire, un tratto distintivo della sua prassi. La illumina e la dirige. Quando cessa di essere angosciato, l’archivista diventa quello che per lo più è e che non può non essere: un catalogatore, un classificatore. Una macchina però potrebbe sostituirlo. Quindi, cosa costituisce la specificità dell’archivio? Io credo che l’archivio, nella sua dimensione propriamente “umana”, si proponga come un farmaco rispetto a questa separazione tra memoria e ricordi: mira a fissare i ricordi alla memoria e a dare una memoria ai ricordi, cosa che nessuna macchina può fare.

Concludo facendo tre riferimenti cinematografici che esemplificano i tre momenti del mio intervento. Primo senso dell’apocalisse, l’apocalisse analogica: c’è memoria senza ricordo, c’è somiglianza ma non c’è referenza. Chi conosce il cinema di Atom Egoyan, questo grande regista armeno-americano, sa che tutto il suo cinema è costruito sull’idea di una catastrofe senza nome: è accaduto qualcosa ma non so cosa è accaduto. Egoyan è armeno, ha alle spalle, quindi, la catastrofe, viene da quella storia, però è una catastrofe di cui non c’è referenza ma c’è solo memoria, anzi sappiamo come venga attivamente contestata da parte del regime turco la possibilità di dare una referenza a quella memoria. In tutto il suo cinema, quale che sia il soggetto (da Exotica del 1991 a Remember del 2015), si replica la stessa situazione di “falso riconoscimento”, come in un déjà-vu generalizzato. La domanda angosciata che anima il suo cinema è la stessa che inquietava la micro-apocalisse descritta da Proust: li ho già visti, ma dove?

Secondo senso dell’apocalisse, l’apocalisse digitale: c’è ricordo senza memoria, c’è referenza ma non somiglianza. C’è un bellissimo film di Christopher Nolan che tutti coloro che sono interessati teoricamente alla questione dell’archivio dovrebbero conoscere. Si intitola Memento (2000). La storia è quella di un amnesico radicale ‒ così come ci sono gli ipermnesici, quelli che non possono dimenticare, così ci sono gli amnesici radicali, quelli che rinascono, ogni dieci minuti, vergini del passato. L’amnesico però in questo caso è un detective. Difficile essere un amnesico radicale e fare il detective, ma il protagonista del film deve indagare, lo deve fare per ragioni di vita o di morte. Egli dovrà quindi ricorrere alla macchina astratta del ricordo. Qual è il supporto della sua macchina astratta del ricordo? Sarà il suo stesso corpo sul quale si tatua ogni giorno le informazioni che leggerà il giorno dopo, al risveglio, per poter capire cosa ha fatto o chi è. Nel film si vede all’opera proprio una macchina astratta del ricordo che va disperatamente alla ricerca di una memoria che dia ad essa una “prima persona”.

Infine, rispetto all’ipotesi dell’archivio come “farmaco” che cura la scissione tra memoria e ricordo, cito il regista ucraino-lituano Sergei Loznitsa. Con i suoi film (Austerlitz del 2016, The Trial del 2018, The Natural History of Destruction del 2022, solo per citarne alcuni tra i più significativi) Loznitsa rivisita la storia del Novecento europeo con il metodo del found footage, recuperando e rimontando materiali d’archivio. Loznitsa ripensa la storia del Novecento a partire da ricordi-immagine che trova disseminati in archivi dimenticati. Montando questi ricordi, e senza aggiungervi nulla, produce una contro-storia del Novecento, del Novecento che lo interessa, un Novecento molto attuale considerando che è ucraino e tutto il resto. Quale sia la valenza etica e politica e, infine, “umana” dell’operazione dell’archivio appare allora chiaramente. Non è solo una classificazione di materiali dati, ma un montaggio grazie al quale la memoria si aggancia ai ricordi e i ricordi a una memoria vivente.

BIBLIOGRAFIA

De Martino, E., 1977, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 2019 (nuova edizione).

Derrida, J., 1995, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, 1996.

Eco, U., 1984, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi, 1997.

Foucault, M., 1969, L’Archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971.

Proust, M., 1919, All’ombra delle fanciulle in fiore, in Alla ricerca del tempo perduto, Milano, Mondadori, 1970.