N.2 2023 - Biblioteche oggi | Marzo 2023

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Biblioteche, conoscenza, bene comune e lo stretto legame con lo sviluppo sostenibile - Open Access

Rossana Morriello

Servizio Sostenibilità di Ateneo; rossana.morriello@polito.it

Abstract

Il concetto di beni comuni come requisito fondamentale per la democrazia risale all'antica Grecia ed è stato al centro del dibattito sociale ed economico nel corso dei secoli. Nel 1968 Garrett Hardin propose la sua teoria sulla tragedia dei beni comuni, alla quale Elinor Ostrom rispose con una visione di modelli economici alternativi per risolvere la tragedia, basati sulla cooperazione e sull'educazione. Molti altri scienziati hanno spiegato il ruolo cruciale della conoscenza per il bene comune, un concetto che oggi è strettamente legato allo sviluppo sostenibile e agli obiettivi dell'Agenda 2030. Le biblioteche hanno un ruolo e una responsabilità importanti nel contribuire a creare una società sostenibile per il bene comune. L'articolo discute il posizionamento delle biblioteche in questo scenario.

English abstract

The concept of the Commons as a fundamental requirement for democracy dates back to ancient Greece and has been the core of social and economic debate over the centuries. In 1968 Garrett Hardin proposed his theory about the tragedy of the Commons to which Elinor Ostrom answered with a vision of alternative economic models to solve the tragedy, based on cooperation and education. Many other scientists explained the crucial role of knowledge for the common good, a concept that today is strictly linked to sustainable development and goals of the Agenda 2030. Libraries have an important role and responsibility in helping to shape a sustainable society for the common good. The article discusses the positioning of libraries in this scenario.

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Il concetto di bene comune

Le origini del concetto di bene comune si collocano molto indietro nel tempo. Per Aristotele il bene comune era l’obiettivo della democrazia. Nella Politica il filosofo dava per scontato che una democrazia dovesse essere pienamente partecipativa, e che dovesse porsi come obiettivo il bene comune. Per poter raggiungere un simile obiettivo una società democratica doveva garantire alcune prerogative quali una relativa uguaglianza tra i cittadini, “il possesso di beni in quantità misurata e adeguata” e un “benessere duraturo”. In sintesi, Aristotele anticipava quella che oggi è divenuta una verità sotto gli occhi di tutti e un tema cruciale per la sua urgenza, in tempi in cui la forma politica della democrazia è palesemente in crisi, ovvero che in presenza di ampie disuguaglianze sociali non si può parlare davvero di democrazia.

Fin dai tempi di Aristotele, il dibattito sul bene comune è stato presente, con vari livelli di profondità e approcci differenti nelle diverse epoche, ma secondo alcuni filosofi è stato perlopiù interpretato su base razionalistica e utilitaristica. In ogni caso, è stato sempre affrontato da una prospettiva parziale rispetto alle sue molteplici dimensioni. Il modo in cui ci approcciamo al concetto di bene comune ai giorni nostri è ormai indissolubilmente legato alle tematiche dello sviluppo sostenibile, le quali hanno cominciato a emergere negli anni ’50 del XX secolo, per poi subire un balzo tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Gli effetti del modello capitalistico in termini di diseguaglianze hanno iniziato a emergere in quegli anni, insieme a una nuova consapevolezza diffusa rispetto all’impatto ambientale generato dall’azione dell’uomo, conseguente al boom economico e industriale, cui si affiancava una nascente riflessione sulla necessità di perseguire modelli di sviluppo socioeconomico differenti e sostenibili. Enrico Giovannini scrive che la storia dello sviluppo sostenibile comincia nel 1972, in seguito a due eventi importanti verificatisi in quell’anno: da un lato, la Conferenza delle Nazioni Unite a Stoccolma e dall’altro, la pubblicazione del rapporto The Limits of Growth. In realtà i semi si possono cogliere fin dal decennio precedente e in particolare dopo la pubblicazione nel 1962 del libro di Rachel Carson Primavera silenziosa. L’opera della zoologa e biologa marina statunitense è una narrazione agghiacciante basata su dati reali e fatti concreti degli effetti dell’uso indiscriminato in agricoltura degli insetticidi chimici e di altre sostanze velenose sulla vita e sulla salute dell’uomo, così come sull’ecosistema naturale. L’impatto sociale e culturale dell’opera è stato enorme e ha ottenuto il risultato di far mettere al bando il DDT. L’opera è importante non solo per aver raggiunto questo significativo risultato e per aver dato avvio al movimento ambientalista, ma anche per aver mostrato fin da subito le dinamiche perverse che si innescano quando si ha il coraggio di farsi portavoce di denunce di questo genere. Nell’introduzione del libro, l’ex vicepresidente Usa e ambientalista, Al Gore, non manca di ricordare la macchina del fango riversata su Carson. Contro l’autrice si scatenò una campagna di diffamazione imponente condotta dalle aziende chimiche coinvolte e supportata da molti giornali e altri media. Tuttavia, dal lavoro pionieristico di Carson, in quell’epoca di grandi mutamenti sociali si avviò un percorso di consapevolezza che, passo dopo passo, con la nascita di istituzioni come l’americana EPA (Environment Protection Agency), i già citati lavori delle Nazioni Unite e i vari documenti ufficiali, condurrà prima alla redazione dei Millennium Development Goals (MDG) e poi all’emanazione dell’Agenda 2030 da parte dall’ONU nel 2015.

Il concetto di bene comune è intrinseco a qualsiasi discorso ambientalista e agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda ONU, in quanto solo passando a una concezione dell’ambiente, del territorio, dell’intero pianeta come bene comune si potrà realmente sperare in una svolta verso la sostenibilità. In senso generale, la definizione di bene comune (in inglese commons) indica una risorsa condivisa da una comunità e della quale la comunità può disporre liberamente. Il concetto di commons trae origine dalle vicende della storia inglese e fa riferimento al fenomeno delle recinzioni (enclosures) che cominciò alla metà del XIV secolo e si protrasse fino al XIX secolo. Le recinzioni segnarono il passaggio da un’agricoltura feudale di carattere collettivo, basata “sul sistema dell’aratro e della coltivazione unitaria delle terre comuni, entrambi residui di un lontano passato tribale”, a un’agricoltura basata sulla proprietà delle terre, racchiuse in recinzioni dai nobili latifondisti, che oltretutto di solito venivano convertite da terra arabile a pascolo, e sul ricorso alla manodopera salariata per lavorarle. Le recinzioni dall’Inghilterra si estesero progressivamente ad altri paesi, con tempi e modalità differenti. Rappresentarono l’inizio di un lungo processo che “assunse il carattere di una ampia spogliazione dei contadini” e pose le basi per lo sviluppo capitalistico, attraverso le varie fasi dell’industrializzazione.

Cinzia Scaffidi, giornalista e docente all’Università di Scienze Gastronomiche di Bra, individua nel passaggio da una società rurale a una società industriale le cause del progressivo allontanamento degli individui da una condizione di consapevolezza, di azione rivolta alla salvaguardia e alla valorizzazione del bene comune, e da modelli di sviluppo sostenibile. Da una società rurale caratterizzata da un approccio collettivo e olistico, fondata su una solida rete di relazioni tra le persone, sulla condivisione e sulla collaborazione, e rivolta alla salvaguardia del bene comune, si è passati a un modello di società industriale caratterizzato da un approccio riduzionista, incentrato sull’individualismo e sulla parcellizzazione del lavoro, e soprattutto rivolto al profitto. Tale trasformazione non è affatto priva di implicazioni dal punto di vista culturale e sociale, a cominciare dalle polarizzazioni che introduce e dalla predominanza di un approccio culturale finalizzato a dominare la natura e a mettere da parte, con l’obiettivo del profitto, il bene comune, invece di preoccuparsi di rispettarlo e salvaguardarlo.

Tali considerazioni riprendono e attualizzano i contenuti del dibattito avviato dal noto articolo di Garrett Hardin dal titolo La tragedia dei beni comuni, pubblicato sulla rivista “Science” nel 1968, che ebbe il ruolo meritorio di riportare la questione del bene comune al centro del dibattito economico e culturale. Nel suo articolo, Hardin denunciava l’individualismo della nostra società basata sul profitto, considerandolo un ostacolo insormontabile per la tutela del bene comune e, a un livello più generale, per la sopravvivenza stessa del nostro pianeta. Per supportare la sua tesi, l’ambientalista e professore di ecologia all’Università della California inseriva nell’articolo alcuni efficaci esempi divenuti casi studio. Tra questi, l’ipotesi di un pascolo libero utilizzato in maniera condivisa dalla collettività e di un pastore che per massimizzare il proprio guadagno usa il pascolo pensando al proprio interesse personale invece che al bene comune, per cui aggiunge sempre nuove pecore al suo gregge. Le pecore accumulate in misura superiore alle proprie necessità utilizzeranno il terreno condiviso dalla comunità fino a portare all’esaurimento del pascolo e a un danno per gli altri utilizzatori. Gli individui che operano in questo modo, disponendo liberamente e senza limiti del bene comune, vengono definiti free riders. Lo sfruttamento dei beni comuni per perseguire obiettivi che si discostano dalle proprie necessità di sussistenza e ignorano le esigenze di tutta la comunità è ciò che, secondo Hardin, genera la tragedia. Ed è la condizione prevalente nelle nostre società poiché gli uomini sono ingabbiati in un sistema che li porta ad accrescere “il proprio gregge”, ovvero le proprie ricchezze, senza porsi limiti e senza considerare la realtà del fatto che viviamo in un mondo in cui le risorse sono invece limitate. Le soluzioni prefigurate da Hardin come risposta alla tragedia dei beni comuni si orientano verso l’imposizione di vincoli volti a limitare lo sfruttamento del bene comune, come per esempio le leggi e le tassazioni, oppure la privatizzazione. Vi è, tuttavia, un elemento importante del suo discorso al quale non sempre viene dato il dovuto rilievo. Tra le soluzioni che Hardin prevede nell’articolo compare, infatti, l’istruzione, l’educazione al bene comune, come presupposto fondamentale in grado di controbilanciare la tendenza naturale dell’uomo ad avere comportamenti individualistici e irrispettosi del benessere collettivo. Si tratta, riconosce lo studioso, di un processo che richiede tempi lunghi e che deve essere costantemente aggiornato, ma di importanza fondamentale.

Altri autori si sono soffermati sull’educazione come prerequisito fondamentale per raggiungere la consapevolezza del valore del bene comune. Noam Chomsky, nel suo Il bene comune, ricorda il ruolo cruciale dell’accesso alla cultura per il superamento delle diseguaglianze, e sottolinea l’importanza delle biblioteche come organizzazioni in grado di ridurre tali diseguaglianze, per la loro natura di istituzioni non riservate solo alle classi colte e benestanti, ma aperte a tutti. Chomsky è stato tra coloro che, nella seconda metà del XX secolo, hanno ripreso il discorso sul bene comune, e in particolare sul bene comune in relazione alla cultura e alle biblioteche. Secondo il filosofo e linguista americano, l’indebolimento della comunità e del potere della collettività, anche attraverso il depauperamento culturale, non è casuale ma voluto, in quanto si tratta di un’azione strategica necessaria per il mantenimento del sistema capitalistico. Se le comunità sono disgregate e le persone private di ogni interesse a muoversi insieme per il bene comune, ovvero sono ridotte a essere spettatori passivi del sistema, il potere dei privati capitalisti e la sopravvivenza del sistema sono garantiti. Sistemi diversi da quello capitalistico sono realizzabili ma per esserlo hanno bisogno dell’educazione e della capacità di azione della L’impoverimento culturale fa quindi parte di una strategia politica precisa per il mantenimento dello status quo. La scarsa considerazione degli aspetti culturali ed educativi in tutto il percorso di sviluppo sostenibile fino ai nostri giorni, compresi i 17 Obiettivi dell’Agenda ONU, viene ampiamente denunciato anche dallo scrittore indiano Amitav Ghosh che mostra come i sostenitori di certe dinamiche socioeconomiche abbiano operato per imbrigliare anche la cultura nelle maglie dello sviluppo capitalistico in maniera tale da non permettere a chi potrebbe, come gli scrittori, di guardare a quanto accade con occhi sufficientemente liberi da veli (ecco la grande cecità) per poter sensibilizzare le comunità.

L’istruzione, la conoscenza, la cultura rappresentano di fatto l’unica via verso la consapevolezza, il presupposto indispensabile al raggiungimento di uno sviluppo sostenibile e, sebbene si continui incredibilmente a rimanere ancora ciechi, questi aspetti rappresentano il cuore del problema e la soluzione principale. Solo conoscendo il valore del bene comune le persone possono mobilitarsi all’azione e imprimere la svolta indispensabile verso la sostenibilità in tutti i settori. È ciò su cui insiste la Convenzione di Faro, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 13 ottobre 2005 e aperta alla firma degli Stati membri a Faro (Portogallo) il 27 ottobre dello stesso anno, portando il cittadino al centro delle questioni e ponendosi come punto di raccordo tra l’Agenda ONU, il dibattito sul bene comune e il ruolo della cultura e delle istituzioni culturali. Solo la conoscenza del valore dell’eredità culturale può muovere le comunità all’azione e innescare il cambiamento, permettendo alle comunità di comprendere il valore dell’eredità culturale e il suo ruolo nella definizione dell’identità culturale. Solo attraverso la conoscenza e il coinvolgimento dei cittadini si possono ipotizzare sistemi sociali in grado di realizzare un cambiamento di rotta. Nel report del 2022 dal titolo Strengthening cultural heritage resilience for climate change: where the European Green Deal meets cultural heritage, la Commissione Europea spiega come i cambiamenti climatici mettano a rischio il patrimonio culturale e come vi sia la necessità di una maggiore sensibilizzazione ed educazione su questi temi, che in molti paesi europei non sono ancora entrati nei programmi didattici dell’istruzione ai vari livelli. Il report è chiaro e incisivo nel dichiarare il ruolo del patrimonio culturale come memoria identitaria di ogni popolo: “the importance of cultural heritage for the future of humanity is paramount. Cultural heritage contains the memory of our civilisation’s history. The loss of this memory will plunge societies into chaos and disorientation”. Una dichiarazione che chiama in causa direttamente le biblioteche in quanto istituzioni preposte alla conservazione della memoria. Un altro importante documento redatto da Europa Nostra con varie collaborazioni, dal titolo European Cultural Heritage Green Paper Putting Europe’s shared heritage at the heart of the European Green Deal, esplicita la centralità del patrimonio culturale per la realizzazione del Green Deal europeo e il raggiungimento dell’obiettivo di decarbonizzazione entro il 2050. Il patrimonio culturale, sancisce il Green Paper, è un elemento di supporto per tutti gli aspetti legati alla Net Zero, quali energia pulita, economia circolare, efficienza energetica, mobilità sostenibile, politiche agricole, finanza sostenibile, ricerca e innovazione, educazione e formazione. Il Cultural Heritage Green Paper stabilisce il legame essenziale tra il passato e il futuro attraverso il patrimonio culturale, laddove la conservazione del passato dipende dalle capacità di rendere sostenibile il futuro e viceversa il futuro sostenibile è realizzabile solo grazie alle potenzialità del patrimonio culturale di creare comunità consapevoli e generale la coscienza etica indispensabile per una società sostenibile.

Lo aveva spiegato bene Elinor Ostrom, economista americana e premio Nobel per l’economia con O.E. Williamson nel 2009, la quale ha contrapposto all’approccio “tragico” di Hardin la possibilità concreta di ricorrere a modelli sociali ed economici diversi dagli attuali e rivolti al bene comune, centrati sulla comunità e sulla cooperazione. Ci sono comunità, gruppi di persone, associazioni professionali davvero interessate al bene comune che si sono dimostrate in grado di gestire i beni comuni in maniera efficace e soprattutto sostenibile. Non sempre, sostiene l’economista, gli uomini agiscono sulla base della competizione e dell’individualismo ma a volte, al contrario, seguendo il modello della cooperazione e della collaborazione e questo modello funziona. Peraltro, i presupposti giuridici sono già presenti, per esempio nella nostra Costituzione che include esplicitamente all’articolo 43 la possibilità di trasferire “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese”, considerate servizi pubblici essenziali o di preminente interesse generale.

Figura 1 L’economista Elinor Ostrom

Secondo i dati ISTAT riportati da Luciano Floridi, “nel 2013 in Italia 6,63 milioni di persone (il 12,6% della popolazione) si sono impegnate gratuitamente per gli altri o per il bene comune”. Secondo il filosofo, lo spostamento verso il bene comune è una conseguenza dello scollamento della collettività dalla politica, in quanto la politica non si fa carico del progetto umano sociale, che deve andare oltre il progetto umano individuale, e dunque tale necessità viene soddisfatta al di fuori della politica. In altre parole, l’assenza di un’attenzione politica rivolta al bene comune non fa altro che accentuare il malcontento nei confronti della politica. Tale disaffezione, come ben sappiamo, ha raggiunto oggi livelli elevati che lasciano intravedere un crollo generale e totale di fiducia e la possibilità che i modelli sociali, politici, economici attuali soccombano per lasciare spazio a nuovi paradigmi. La cultura e l’identità culturale potrebbero rivelarsi l’unico collante in grado di fare da ponte tra i modelli in transizione.

Le biblioteche come bene comune

Ritornando al concetto di bene comune occorre soffermarsi su una distinzione importante, funzionale al discorso sulle biblioteche, ovvero quella tra i beni comuni materiali e immateriali. Rientrano tra i beni comuni materiali, per esempio, le foreste, i prati, l’acqua, il mare, i servizi di pubblica utilità, come le biblioteche. Sono beni immateriali, per esempio, la fiducia sociale, la solidarietà, la sicurezza, la conoscenza come patrimonio collettivo di una comunità, che deve essere conservato e salvaguardato. Un’altra importante distinzione va posta tra beni pubblici e risorse comuni. Sono beni pubblici i beni disponibili per tutti e il cui utilizzo da parte di una persona non sottrae ad altre la possibilità di fruirne (per esempio, le strade, i parchi, le spiagge), secondo il principio della non rivalità. Le risorse comuni possono essere naturali o create dall’uomo ma, in questo caso, l’utilizzo che ne fa una persona sottrae o diminuisce ad altre la possibilità di fruirne, ed è inoltre difficile escludere gli utenti da essa (per esempio, le aree per la pesca o per il pascolo). Quest’ultimo è il principio della non escludibilità. All’opposto, ci sono i beni privati che sono tipicamente beni rivali ed escludibili, in quanto l’uso o il consumo da parte di un utente preclude la possibilità di uso per gli altri utenti e si possono escludere delle persone dal loro uso, per esempio tramite un paywall, una barriera rappresentata dal prezzo. Nello spazio tra i due opposti vi è una vasta gamma di possibilità intermedie che combinano in misura variabile i caratteri di rivalità ed escludibilità. In relazione ai beni pubblici e alle risorse comuni possono operare, come già visto, i free riders, agenti che perseguono il proprio interesse a danno degli altri, senza contribuire al mantenimento del bene comune e senza pagare alcun prezzo per il bene pubblico ma al contrario confidando che gli altri lo facciano. Ciò accade anche in ambito documentario, come vedremo.

Le biblioteche sono innanzitutto esse stesse un bene comune. In particolare, è attraverso le collezioni che le biblioteche assolvono al ruolo di bene comune, ovvero di beni pubblici materiali accessibili da tutti senza limitazioni e dunque con pari diritti, e di beni in regime di non rivalità. L’uso da parte degli utenti non sottrae la possibilità di utilizzo ad altri utenti poiché la risorsa documentaria rimane nelle dotazioni delle biblioteche. Un utente può essere escluso dall’uso temporaneamente perché un libro è in prestito, per esempio, ma ha il diritto di richiederlo e di usufruirne successivamente. Inoltre, la biblioteca svolge il compito di conservazione della memoria, ponendosi a salvaguardia del patrimonio culturale che è un bene comune immateriale in quando memoria registrata della storia della conoscenza. La conoscenza è un bene comune, lo abbiamo detto, e la scienza è un bene comune. La stessa Ostrom ha approfondito le dinamiche culturali del suo discorso sul bene comune in diversi scritti. Sono beni comuni immateriali stratificati in secoli di storia dell’umanità e dunque sono patrimonio di tutti, fruibili attraverso le loro registrazioni in forma di pubblicazione, che le biblioteche hanno da sempre il compito di selezionare, organizzare, conservare. In quanto tale, il bene comune registrato è di stretta pertinenza della biblioteconomia che dovrebbe insistentemente mettere l’accento su questo ruolo essenziale, evidente nella natura stessa del suo principale ambito di interesse, come ricorda Maurizio Vivarelli, scrivendo che “l’Universo bibliografico è quindi l’insieme delle conoscenze registrate su qualsiasi supporto, trasmesse nel tempo e nello spazio dalla comunità umana”.

Non solo i beni comuni della conoscenza non sono beni rivali poiché l’accesso e l’uso della conoscenza e della scienza accumulati non diminuiscono l’uso da parte di altri, ma la maggiore conoscenza culturale del passato e del presente aumenta la portata e il valore dell’uso della conoscenza da parte delle persone. Nel momento in cui i risultati della conoscenza acquisita e i risultati della ricerca scientifica vengono pubblicati, il contenuto di conoscenza viene però racchiuso in oggetti, ovvero beni materiali, e beni rivali perché sono privatizzati. La privatizzazione dei beni comuni culturali introduce recinzioni (ovvero il carattere di escludibilità), come il prezzo di acquisto, il copyright, i brevetti che pongono delle barriere all’accesso al bene comune della conoscenza. Rispetto a queste recinzioni poste dagli operatori privati, che quindi escluderebbero molte persone dalla fruizione, le biblioteche rappresentano un’alternativa in quanto riportano la conoscenza privatizzata dal mercato editoriale nel dominio del bene comune. Le biblioteche offrono le risorse a tutta la comunità, permettendo agli utenti di superare le recinzioni poste dal mercato editoriale, e contribuiscono al mantenimento del bene comune collettivo immateriale della conoscenza. Le biblioteche operano per il bene comune attraverso le loro funzioni di base, quindi le attività di selezione e sviluppo delle raccolte, di catalogazione, di facilitazione dell’accesso, di information literacy, e tutte le modalità con le quali organizzano la conoscenza per renderla accessibile alla società contemporanea e alle generazioni future, in un’ottica di sviluppo sostenibile. La funzione del deposito legale, per esempio, svolge proprio il compito di garantire la conservazione e quindi la fruizione futura della conoscenza, attraverso il deposito di una copia del bene materiale che contiene la conoscenza, superando in questo modo le recinzioni indotte dal copyright e permettendo così a tutti gli utenti di fruirne anche in futuro.

Il digitale ha in parte cambiato le carte in tavola. Per sua natura, il mondo digitale online rientrerebbe tra i beni comuni non rivali poiché l’uso di una risorsa digitale non compromette l’uso da parte di altri. La escludibilità nel digitale viene introdotta in un campo di per sé di bene comune dalle aziende private attraverso meccanismi di esclusione che operano come recinzioni. Per fare un esempio di ambito bibliotecario, pensiamo ai libri e periodici in formato digitale che potrebbero essere fruiti e condivisi liberamente, perché, come già visto, l’uso di una risorsa digitale da parte di una persona non influisce sull’uso che ne può fare un’altra persona; non solo non lo impedisce e non ne diminuisce il valore (e quindi è “non rivale”) ma addirittura ne può accrescere il valore, con il riuso e l’arricchimento della risorsa e tramite la condivisione e il libero accesso perpetuo. Le biblioteche sono tradizionalmente non esclusive e non rivali perché non pongono nessuna restrizione all’uso delle risorse e l’esclusione dall’uso di un libro (nel caso del prestito) è solo temporanea. La scarsità e l’escludibilità nel mondo documentario digitale vengono invece indotte “artificialmente” dagli editori e produttori di risorse documentarie, e tramite le piattaforme per accedervi, per mezzo delle barriere economiche come gli abbonamenti, che escludono chi non può pagarli, oppure delle clausole presenti nei contratti e nelle licenze per l’acquisizione delle risorse digitali come, per esempio, i limiti imposti alle possibilità di document delivery, o dai DRM, e in generale dal copyright che ne impedisce il riuso.

Lo sviluppo capitalistico si è spesso costruito sulla privatizzazione del bene comune. Pensiamo alle spiagge occupate dagli stabilimenti balneari oppure al tentativo di privatizzazione dell’acqua cui abbiamo assistito nel nostro paese qualche anno fa e che ha condotto alla promozione di un referendum sull’acqua come bene comune nel giugno 2011. Lo spostamento verso una visione utilitaristica generale, sulla base della quale peraltro si giustificano guerre e ineguaglianze, la riduzione del potere della collettività a favore dell’esaltazione delle individualità, poste in competizione tra loro invece che in collaborazione, e scientemente private delle opportunità, o perfino del desiderio, di avere accesso alle risorse culturali, hanno portato all’indebolimento delle comunità. Quando la collettività cerca di riprendere il controllo dei beni comuni e non ci sono modi per fermarla, le imprese private sono pronte ad assumersi la gestione facendo credere di operare per il bene comune. Scrive Chomsky:

Lo scopo è arrivare a una società in cui l’unità sociale di base è costituita da te e dal tuo televisore. Se il bambino della porta accanto muore di fame non è un tuo problema. Se la coppia di pensionati della porta accanto ha malamente investito il proprio denaro e ora è ridotta alla fame, anche questo non ti riguarda.

Oggi possiamo sostituire la parola “televisore” con “computer” e prendere atto di come il mondo digitale abbia esasperato le diseguaglianze e aumentato l’indifferenza. Il digitale consente ancora più facilmente alle imprese capitalistiche di sfruttare gli individui per la loro crescita. I social network non ci sarebbero se non ci fossero gli utenti che creano contenuti, e molte aziende non sarebbero così fiorenti se non ci fossero gli utenti del web che rilasciano i loro dati che vengono profilati, elaborati, riutilizzati e anche commercializzati dalle aziende stesse.

Per le risorse documentarie digitali nate in un ambiente, quello del World Wide Web, che, com’è noto, è stato volutamente lasciato libero e aperto dai suoi creatori, Tim Berners-Lee e Robert Cailliau, e quindi è nato come bene comune, le restrizioni all’uso introdotte artificialmente sono ancora maggiori e più estreme che nell’universo bibliografico tradizionale. L’ambiente di internet è per sua natura libero e non rivale, in antitesi rispetto ai beni fisici, ed è un bene globale che non prevederebbe la scarsità poiché non dovrebbe avere recinzioni. Le recinzioni sono state aggiunte dai privati che l’hanno abbondantemente sfruttato, trasformando fin quasi dagli albori uno spazio libero in uno spazio recintato. Come sottolinea Luciano Gallino, con una punta di amara ironia, il Web, è stato “donato graziosamente” da un ente di ricerca pubblico come il CERN all’industria privata. Nel bene comune del web i privati operano a volte come free riders, lo sfruttano per i propri interessi, impedendone l’uso libero collettivo. Se pensiamo poi alle biblioteche accademiche il caso diventa lampante. Le biblioteche hanno ceduto il bene pubblico della scienza pubblicata su supporti digitali agli operatori privati che possiedono le piattaforme tramite le quali si accede alle risorse, ma solo a pagamento e solo alle condizioni imposte dagli editori. Il movimento open access, rispetto a tale situazione, si pone come una forma alternativa, collettiva e cooperativa, un modello differente possibile, come auspicato da Elinor Ostrom.

Le biblioteche per il bene comune

Greta Thunberg e Luisa Neubauer nella manifestazione Fridays For Future a Berlino, 24/09/2021 (CC BY 2.0 - Stefan Müller)

Come abbiamo visto, le biblioteche operano in termini di bene comune innanzitutto conservando e organizzando le proprie raccolte, continuando a farlo come hanno sempre fatto, in modo da facilitare l’accesso alla conoscenza per i cittadini senza distinzioni, in un’ottica DEI (diversità equità inclusione), e in maniera libera e gratuita. Gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU hanno dimostrato di avere il potere di aggregare le persone su interessi comuni e sono un esempio chiaro di queste dinamiche in evoluzione, così come lo sono nello specifico i movimenti collettivi nati attorno alla figura di Greta Thunberg. L’agenda ONU è rivolta al bene comune e a superare le ineguaglianze che sono una forma di “recinzione” poiché escludono alcune persone dall’accesso (a beni, servizi, conoscenza). Per esempio, molti sono esclusi dall’accesso alle risorse digitali, in termini tecnologici per non avere gli strumenti informatici. Ma nella società contemporanea complessa la possibilità di accesso alle risorse non è sufficiente se non è accompagnata dalla capacità di usare criticamente e in maniera efficace le risorse, soprattutto digitali, oppure se la possibilità di accesso non è equa, ovvero differenziata in base alle necessità delle comunità in termini linguistici, culturali, economici. Le comunità si auto-organizzano per superare molte di queste recinzioni, come nel caso di Greta oppure del movimento Black Lives Matter, oppure del movimento Open Access per rimanere nell’ambito delle risorse documentarie. Di fatto tutti i suddetti movimenti riguardano l’ambito delle risorse documentarie e le biblioteche. Le comunità di persone che operano collettivamente per il bene comune sono molte ma sono “nascoste” dai sistemi politici ed economici e dalle ideologie e culture dominanti. Il pubblico dovrebbe quindi riappropriarsi del bene comune documentario e le biblioteche possono aiutare in tale obiettivo attraverso diverse azioni.

a) Accesso alle collezioni e discoverability

Le biblioteche dovrebbero evitare di emulare i privati, di entrare nel sistema documentario attuale con le stesse modalità con cui lo fanno i privati. Laddove le piattaforme operano sulle recinzioni, le biblioteche devono operare sull’apertura, sul superamento delle diseguaglianze, sulle opportunità non uguali per tutti ma eque, in grado cioè di offrire le stesse opportunità a tutti. Laddove le piattaforme private prevedano la condizione dell’utente passivo, le biblioteche devono diventare piattaforme in grado di sollecitare senso critico e capacità attiva di valutare, usare e creare contenuti di qualità. È ciò che in ambito documentario è stato definito information commons, e descritto come la capacità di elevare le persone da un ruolo passivo di meri consumatori del mercato, spostando il focus sui loro diritti, sui bisogni e sulle responsabilità come cittadini. Laddove gli operatori privati forniscono collezioni e attività mirate a catturare l’utente, schiacciate sulla contemporaneità, orizzontali, le biblioteche devono perseguire la conoscenza come bene comune, stratificata, verticale. Se, come ricorda Chomsky, l’industria editoriale e le librerie soprattutto quelle delle grandi catene, presentano un’offerta molto basata sulle opere più vendibili, sui best-seller, le biblioteche devono costruire un altro tipo di offerta e favorire la scoperta delle risorse. Scrive ancora Gallino:

Va aggiunto che il principio di non-esclusione implica qualcosa in più oltre al fatto ovvio che un dato soggetto deve essere libero di accedere alle conoscenze la cui esistenza gli è nota. Implica pure che gli sia nota l’esistenza di tutti i depositi o bacini di conoscenze che potrebbero interessarlo. Se questi ultimi gli sono nascosti, di fatto o per intenzione di altri, il principio di non-esclusione che definisce un BPG [Bene Pubblico Globale] risulta compromesso.

I depositi e bacini di conoscenza sono spesso nascosti nel mondo reale per le scelte necessarie indotte dalla scarsità di spazio fisico che tagliano fuori la coda lunga delle risorse, ma anche nel web molte risorse sono nascoste. Le librerie come Amazon, per esempio, mostrano all’utente solo alcune delle risorse sulla base di meccanismi di filtraggio, e nel web in generale la parte visibile è minima. È noto come i meccanismi di filtraggio degli operatori privati sul web siano oscuri e come la complessità sia ormai difficilmente districabile. Per queste ragioni le biblioteche devono operare su questi ambiti, cominciando con il rendere visibili e aperte le risorse di qualità, per cui favorire la discoverability delle risorse diventa un obiettivo prioritario. Ma è altrettanto essenziale che le biblioteche tornino a essere garanti della qualità anche nel mondo digitale, dove l’esigenza è ancora più forte che nel mondo fisico. La complessità del mondo dell’informazione aumenta progressivamente, a cominciare dalla scomposizione dell’informazione digitale in unità frammentarie come i dati, fino alla nascita di nuove forme di relazione tra i dati, i documenti e le persone, tanto da prefigurare che sia in corso “un autentico slittamento di paradigma nei modelli di organizzazione della conoscenza”.

b) Information literacy, digital e data literacy, sustainability literacy

Alla luce di queste considerazioni, il concetto di biblioteconomia sociale non appare più adeguato ad affrontare la complessità odierna, in quanto appartiene a un modello non sostenibile che è quello ben delineato da Chomsky. L’espressione “società dell’informazione” ci dice che l’informazione è diventata un bene di consumo, e si sono innescate dinamiche basate sul profitto che dominano la società. Ci riguarda da vicino perché molte delle funzioni tradizionalmente svolte dalle biblioteche sono state, consapevolmente o meno, trasferite ai privati, i quali dietro l’apparenza del bene collettivo perseguono in realtà interessi del tutto diversi. Mi sono soffermata molte volte su questi aspetti anche in altre occasioni. Occorre porre attenzione al rischio che l’inseguire le dinamiche di questo modello non ci porti verso finalità diverse dal bene comune: quella garanzia di assolvimento del bene pubblico di cui le biblioteche nell’era predigitale erano portatrici, come riconosciuto da tanti degli autori citati in questo contributo, ma che sembrano aver smarrito di fronte alle sollecitazioni del presente. Autori come Chomsky, Ostrom, Gallino riconoscono alle funzioni di organizzazione della conoscenza tradizionali della biblioteca un ruolo fondamentale per la costruzione e la salvaguardia del bene comune, di cui non sempre le biblioteche sembrano invece consapevoli.

Le biblioteche non sono social network né devono diventarlo, non sono Amazon né un operatore a cui si può chiedere qualsiasi cosa. Non devono modellarsi sulla realtà sociale che le circonda ma diventare agenti attivi per costruire una realtà diversa. Devono portare le proprie specificità anche nel mondo digitale. Sono i principi e i valori biblioteconomici a dover essere portati nel mondo sociale e non il contrario. Concentrandosi troppo sulle esigenze degli utenti le biblioteche hanno spesso perso di vista la loro specificità, lasciando così ai privati il controllo del bene comune della conoscenza. Per esempio, hanno abbandonato, o trascurato, le attività tipicamente bibliotecarie nel mondo digitale, come la selezione delle risorse nelle acquisizioni digitali, la conservazione digitale, la catalogazione che richiedevano di certo un ripensamento profondo, estremamente importante per il presente e il futuro della società. Alle biblioteche è oggi richiesto di intensificare le attività di information, digital, data literacy e di sustainability literacy. Questa capacità è divenuta fondamentale per i cittadini perché è proprio la sua assenza ad aver consentito l’assetto attuale del mondo digitale dominato dai grandi operatori privati. La literacy necessaria oggi è cruciale poiché riguarda anche la capacità di proteggere i propri dati, di gestire la privacy, di tutelare i propri diritti considerandoli un bene fondamentale, dal momento che è proprio l’ignoranza digitale ad aver generato “un nuovo feudalesimo digitale” con tutto ciò che ne consegue. Le competenze digitali sono ormai indispensabili in tutti gli aspetti della vita delle persone perché le persone accedono quotidianamente a internet. Il Digital Economy and Society Index (DESI) 2022 individua una serie di indicatori per misurare le competenze, e in particolare le competenze digitali. L’Italia si situa, tra i paesi europei, in discreta posizione per l’uso di internet ma è negli ultimi posti per quanto riguarda gli indicatori sulle digital skills, anche di base (basic overall digital skills), in particolare se riferiti alle donne. Le basse competenze digitali producono, come effetto prevedibile, che il nostro paese si trova agli ultimi posti nel possesso delle competenze necessarie per far fronte al mercato del lavoro, secondo i dati dello European Skills Index della Commissione Europea. La centralità del rafforzamento delle competenze si evince dalla dichiarazione del 2023 come anno europeo delle competenze.

Conclusioni

Non vi sono dubbi sul fatto che il cambiamento di paradigma in corso abbia impatto sulle biblioteche e sul lavoro del bibliotecario. I valori culturali della biblioteca rimangono fondamentali per affrontare la complessità e per creare quelle relazioni tra le persone e la conoscenza, in qualsiasi forma si presenti, che permetteranno di governare il cambiamento. La biblioteca non può essere solo il luogo in cui si accolgono le istanze degli utenti e si cerca di farvi fronte in maniera impressionistica per fare colpo sull’amministratore di turno. La biblioteca deve tornare a essere un’istituzione educatrice, a porsi come un modello forte per l’organizzazione della conoscenza e per la diffusione di valori solidi. È il senso del nuovo umanesimo laico di cui parla, tra gli altri, Daisaku Ikeda. Un umanesimo che si colloca nell’epoca di transizione da una struttura sociale dominata dalle autorità e della ideologie, che stanno progressivamente scomparendo, a una società in cui le decisioni dipendono in misura crescente dagli individui, dalla collettività, e che per tale ragione deve indirizzarsi consapevolmente verso il bene comune, lungo un percorso che superi le diseguaglianze etniche e di pensiero, crei individui consapevoli e dalla mente aperta, e tessa le relazioni su solide basi culturali. Il ruolo della cultura e delle biblioteche è centrale in questo cambiamento di paradigma ma per sostenerlo occorre ampliare la prospettiva e accettare le sfide della complessità. Maurizio Vivarelli parla della necessità di costruire “reti di relazioni tra dati, informazioni, algoritmi, biblioteche, macchine e persone”, per evitare di farsi travolgere dalle tecnologie e di costringere gli utenti a rivolgersi ad altri tipi di risorse e operatori.

Le biblioteche sono istituzioni che godono ancora di fiducia, in grado di colmare le disparità tra le persone, sono tra le poche istituzioni rimaste a occuparsi del bene comune e forse, in quanto tali, “scomode” nel modello capitalistico dominante e dunque poco considerate e poco finanziate. Le biblioteche sono a stretto contatto con le comunità, molto più di altre istituzioni, e devono cominciare a operare strategicamente con le comunità, non chiedendosi solo “di cosa ha bisogno la comunità” e “come posso soddisfarla” ma come posso costruire relazioni solide tra gli oggetti della conoscenza registrata, nelle sue molteplici forme, e la comunità per il bene comune. Per fare questo, tuttavia, è indispensabile che si prenda atto dei grandi cambiamenti avvenuti nel contesto documentario, della complessità contemporanea e del valore delle proprie specificità ma con la necessità imprescindibile di rimodularle per adattarle. Se i principi e i valori culturali e professionali devono essere mantenuti saldi per tracciare la rotta e non farsi travolgere dalla tempesta, i compiti e le funzioni delle biblioteche devono essere ripensate per governare quello che non è più solo un universo bibliografico, ma un multiverso, costituito da oggetti bibliografici dalla natura e dalle caratteristiche diversificate. A tali oggetti non è più possibile applicare regole, metodi e standard nati in un’epoca lontana, anzi temporalmente e concettualmente lontanissima dall’epoca digitale odierna. Difatti, nuovi standard e nuovi approcci, come per esempio RDA, sono già stati sviluppati e sono disponibili. Parti di questo multiverso, come per esempio il dataverso, sono ormai talmente assorbite nel contesto documentario da dar luogo alla biblioteconomia dei dati, una vera ridefinizione complessiva della professione. L’adozione di questi strumenti, già molto diffusa in altri paesi, rimane in Italia sporadica, poiché manca la percezione generale del contesto in mutamento. E di questo non si può sempre attribuire la responsabilità al mondo esterno alle biblioteche. Si tratta di agevolare tra i bibliotecari un cambiamento di mentalità fondamentale, quello definito “metanoia”, come scrive Mauro Guerrini, ovvero “un profondo mutamento nel modo di pensare, cioè una disposizione intellettuale aperta, sempre consapevole e mai appiattita sulle nuove convenzioni che, come tali, sono temporanee”.

Il posizionamento della biblioteca, in quanto garante del bene comune, deve andare oltre le convenzioni temporanee, oltre le esigenze degli utenti misurate in un determinato momento, oltre la rigidità delle posizioni, oltre la paura del cambiamento. Il fine non deve essere solo il soddisfacimento dei bisogni degli utenti, ma la salvaguardia della conoscenza come bene comune e vettore della sostenibilità, anche insieme agli utenti, a partire dal multiverso delle collezioni e con una riflessione profonda sulle necessità imprescindibile di ripensare compiti e funzioni delle biblioteche per farle divenire delle piattaforme che creano e connettono conoscenza, saperi, competenze e le sappiano trasferire alle comunità attraverso buone pratiche.